Quattro sfide per l'Ue. Il ministro per il sud risponde a Letta e Meloni

Mara Carfagna

Poche proposte, ma realizzabili. Fine del criterio dell’unanimità e poi i grandi dossier: immigrazione, Difesa, bilancio, energia. Mara Carfagna spiega la sua idea di Europa

L’Europa non è una sovrastruttura, non è un’invenzione delle burocrazie, ma un grande spazio di libertà e benessere, una storia comune di popoli e culture capaci di reciproca solidarietà. Prima la pandemia e poi l’aggressione russa all’Ucraina ci hanno consentito non solo di vedere all’opera l’insostituibile forza di protezione e sostegno dell’Unione ma anche di capire fino in fondo il vantaggio di vivere qui e non altrove, magari dietro a una delle innumerevoli cortine di ferro delle autarchie e dei totalitarismi, mondi dove guerra, violenza e sopraffazione sono ordinarie estensioni della politica.

   
L’Europa è un sistema liberamente condiviso che difende e nutre la vita e le speranze di quattrocentocinquanta milioni di persone e le drammatiche esperienze dell’ultimo biennio ci dicono che solo all’interno di questo sistema è possibile affrontare le sfide che ci impongono i tempi, perché davanti a problemi planetari di salute, energia, difesa, sviluppo e migrazioni nessun paese può farcela da solo. Questa consapevolezza sta facendosi strada in ogni area della politica italiana, come rende evidente il confronto che il Foglio ha aperto con gli interventi di Enrico Letta e Giorgia Meloni. Nessuna delle nostre forze politiche può più permettersi di immaginare la presenza di Roma in Europa come semplice galleggiamento o come conflitto e delegittimazione permanente: il dibattito sul futuro europeo deve essere aggiornato ed è, in questo momento, il tema prioritario che si pone a ogni singolo partito e a ogni singolo stato dell’Unione.

  

Non solo i No euro. Anche le classi dirigenti continentali ha raccontato l’Unione in modo maldestro

 
Non dobbiamo mai dimenticare che, se possiamo affrontare questo dibattito, è perché il popolarismo europeo nel 2019 è riuscito – per un soffio, 9 voti – a prevalere sulla tentazione anti europea e sul processo disgregativo dell’Unione incoraggiato dalla Brexit e sostenuto da numerose forze politiche in ogni paese. Credo che tutti dovremmo dedicare una riflessione allo scenario che si sarebbe aperto senza l’atto di responsabilità del Ppe e la sua scelta di respingere le sirene euroscettiche. Se fosse andata in un altro modo, come avremmo affrontato il Covid, come la crisi economica, come l’attacco russo ai nostri confini e l’alternativa tra “libertà o gas” che oggi Mosca ci impone? Sono certa che, guardando indietro, tutti possiamo dire: se fosse andata diversamente, oggi non staremmo parlando del futuro dell’Europa ma piuttosto del suo funerale.

  
Tuttavia la costruzione europea resta malvista da una quota non piccola dei suoi cittadini. Una parte consistente delle opinioni pubbliche continua a percepirla come il “guardiano cattivo” di paesi che altrimenti potrebbero fare meglio. Non è solo responsabilità dei No euro (che pure ne hanno molte). Anche la maggioranza delle classi dirigenti continentali ha raccontato l’Unione in modo maldestro, usandola come alibi per le decisioni scomode e le riforme meno popolari. La frase “ce lo chiede l’Europa” è stata associata per anni alle scelte sui tagli di bilancio e su ogni riforma scarsamente condivisa. La somma tra attacchi euroscettici e giustificazioni pretestuose ha costruito lo scenario perfetto della demonizzazione dell’Unione.

  
Adesso la ripartenza è possibile e necessaria. Per come la vedo io c’è una tabula rasa creata dalle risposte europee alla pandemia e alla guerra, risposte che hanno demolito ogni “versione d’Europa” precedente. L’Europa avara, l’Europa insensibile, l’Europa che strangola i popoli, l’Europa vigliacca, l’Europa burocratica, assente, famelica di tasse, ha azzerato le sue colpe con la generosità improvvisa e lungimirante del Next Generation Eu (Ngeu) e con le immagini di Ursula von der Leyen in mezzo ai cadaveri di Bucha. Questa nuova Europa può tornare a farsi capire dai suoi cittadini, e non deve perdere l’occasione. Deve farlo con atti al tempo stesso concreti e simbolici come quelli che ho citato: atti veloci, che rispondano in tempo reale alle urgenze reali. 

  
Bisogna ancora una volta fare tesoro dell’insegnamento di Jean Monnet, che nel 1950, consapevole del pericolo che il continente precipitasse di nuovo nella guerra e dell’impossibilità di realizzare subito la condizione necessaria alla pace, quella dell’unità politica europea, scelse la via gradualistica e concreta della Ceca, la Comunità del carbone e dell’acciaio, confidando che iniziare a risolvere un problema, per quanto limitato, avrebbe aiutato ad affrontare anche gli altri. Ed è una sua citazione che può guidarci:  serve “una azione concreta e risoluta su un punto limitato ma decisivo, che provochi un cambiamento fondamentale su questo punto e modifichi progressivamente i termini stessi dell’insieme dei problemi”. 

  

La cancellazione del diritto di veto concesso a singoli paesi è “il punto” che può agevolare ogni futuro percorso

 
La revisione del sistema di voto con la cancellazione del diritto di veto concesso a singoli paesi è, a mio giudizio, “il punto” che può agevolare ogni futuro percorso. Se davvero vogliamo ottenere questo obiettivo, giudico sbagliato “incartarlo” all’interno di programmi tanto vasti quanto difficilmente realizzabili: l’esperienza fallimentare della Costituente europea invita a diffidare di progetti eccessivamente ambiziosi che per la loro stessa natura sono destinati ad appassire nel dibattito interno agli stati. Diciamo agli europei qualcosa che tutti possano capire e che risulti inattaccabile, proponiamo un ordine del giorno ristretto all’essenziale: siamo un grande spazio di libertà economica, sociale, civile, che deve assumersi responsabilità sempre più impegnative, dobbiamo sottrarci alla logica che privilegia l’unanimismo alla decisione.

  
Tutto il resto, tutto ciò che viene dopo, è uno scenario che può aprire possibilità insperate in quattro fondamentali partite, alcune delle quali sono state i cavalli di battaglia dei populismi europei, i temi sui quali hanno gonfiato i loro consensi fino a mettere a rischio gli equilibri del continente.

  
E’ possibile, innanzitutto, immaginare una nuova politica per gestire l’immigrazione legale e l’afflusso di profughi. I paesi dell’est, i più ostili a ogni forma di aggiornamento delle norme, hanno sperimentato di persona cosa significa essere sulla frontiera di una catastrofe umanitaria, situazione in cui l’Italia si è dibattuta per un decennio. I loro Muri immaginari o reali non servono più a niente. Nessun governo, neppure i loro, avrebbe potuto uscire indenne dall’orrore della chiusura delle frontiere a decine di migliaia di donne e bambini in fuga dai bombardamenti. Hanno dovuto aprire, assistere, curare, nutrire. Ora anche le loro opinioni pubbliche capiscono e hanno bisogno della solidarietà e dell’aiuto degli alleati. In questo quadro la revisione del trattato di Dublino e di tutto il complesso di norme che regola l’accesso degli stranieri all’Unione non è più né un’utopia né un tabù.

  
Un decisivo passo avanti è possibile anche verso una Difesa europea che metta in comune infrastrutture, ricerca, strategie, facendo degli eserciti nazionali i “reparti” di un sistema più largo ed efficiente. E insieme a essa sarà ovvio rilanciare il dibattito sulla politica estera comune, che passa per una ridefinizione della presenza europea nel Consiglio di sicurezza dell’Onu: so che è difficile, so che è complesso, ma bisogna parlare con una sola voce anche lì se vogliamo che ci ascoltino. La Difesa comune europea non rappresenta solo una necessità del momento, legata al riaccendersi della minaccia da est, ma anche la vera e storica chiusura delle ferite del Novecento, il superamento definitivo dei nazionalismi armati che hanno insanguinato il nostro continente all’epoca dei nostri padri e dei nostri nonni.

  

Prima del Covid il bilancio dell’Ue era di circa l’1 per cento del pil. Il bilancio Usa era del 25 per cento del pil

 
La pronta risposta europea alla pandemia, dall’approvvigionamento dei vaccini al Ngeu, ha prefigurato un modello di Europa possibile anche fuori dalle emergenze. L’integrazione non funziona solo in tempi “di guerra”, ma anche in tempi “di pace”: non solo per affrontare catastrofi impreviste, ma anche per sostenere politiche di crescita e coesione. Prima del Covid il bilancio dell’Ue era di circa l’1 per cento del pil europeo. Il bilancio federale Usa era del 25 per cento del pil statunitense. Il trasferimento di capacità fiscale all’Unione – e siamo al terzo punto – avrebbe un duplice effetto positivo: consentirebbe una maggiore capacità di intervento rispetto agli effetti asimmetrici delle crisi nell’area economica europea e comporterebbe un effetto indiretto di armonizzazione fiscale, riducendo il peso relativo dell’imposizione nazionale. L’esistenza di una fiscalità europea è, peraltro, la condizione per avere un vero welfare europeo. Gli oltre 27 miliardi di euro di assistenza finanziaria ricevuti dall’Italia nell’ambito del programma Sure, per mitigare gli effetti della pandemia sull’occupazione, costituiscono solo un esempio del potenziale di una vera solidarietà europea.  Ma per passare dalla logica dei prestiti di emergenza a quella di una spesa federale, come è in parte quella che sostiene i programmi del Pnrr, serve il coraggio di rafforzare il bilancio europeo.

  
Infine, la partita dell’energia. Dopo la pandemia, l’invasione dell’Ucraina ha comportato una choc energetico che per i più anziani rimanda ai ricordi della crisi petrolifera del 1973. Come la crisi economica legata alla pandemia, anche il rialzo dei prezzi delle fonti energetiche, precedente peraltro alla nuova guerra della Russia, pone un duplice problema: di gestione dell’emergenza, da una parte, ma soprattutto di prevenzione delle nuove emergenze dall’altra. Sul primo versante ci sono le iniziative del governo per ridurre i rincari in bolletta per famiglie e imprese e per concordare un prezzo massimo per il gas sulla base di una alleanza europea. Sul secondo versante, c’è il problema, comune a tutti i paesi e reso particolarmente urgente dal cortocircuito tra eventi bellici e il green new deal, della creazione di un “mercato delle capacità” europeo, non solo sul fronte delle rinnovabili, per garantire la sicurezza energetica europea in una logica sovranazionale. Anche in questo caso, si tratta di adottare una visione davvero condivisa, cioè europea, delle esigenze comuni a tutti gli stati membri, tenendosi lontani dall’illusione che l’ognun per sé possa davvero rappresentare una soluzione per qualcuno. Per primi dovremmo saperlo noi italiani, a cui questa crisi ha dimostrato l’irresponsabilità di scelte del passato recente – si pensi alla retorica No Triv e No Tap e a un certo ambientalismo “paesaggista” contro eolico e solare – che hanno aggravato sia la dipendenza energetica, sia la vulnerabilità politico-strategica dell’Italia.

  
Ecco, nella mia visione, l’Europa finalmente possibile è legata alla soluzione di problemi reali che i singoli stati non potranno mai affrontare da soli. Non amo i traguardi astratti, ideologici, non credo ci serva discutere di modelli etico-morali e tantomeno valoriali, anche perché alcune cose dobbiamo darle per scontate e dobbiamo smetterla di sottoporle a infinite revisioni e dibattiti. L’Europa è un grande spazio di libertà e benessere perché è stata costruita fin dall’inizio con regole precise in ordine alla separazione dei poteri, alle garanzie democratiche, alla libertà di informazione, ai diritti civili e sociali. L’Europa non sarà mai ospitale per l’autocrazia che sovrappone il potere politico al potere giudiziario, censura la stampa e la cultura, decide con chi si può o non si può convivere, stabilisce una gerarchia delle religioni, discrimina le minoranze. Chi ama l’autocrazia non può amare l’Europa e non può starci.

  

Caro Letta, l’Europa non ha bisogno di incartarsi nell’ennesimo confronto teorico sul suo futuro

  
Dunque, se fossimo in un talk-show vorrei dire all’amico Enrico Letta: condivido molto la richiesta di semplificare il meccanismo di decisione dell’Unione, meno lo scenario così largo che disegni. La storia si è rimessa a correre veloce e i progetti a lunga scadenza forse non ce li possiamo più permettere: so che la sinistra ama definire panorami complessi, ma dobbiamo sventare il rischio di fare della prossima stagione europea lo scenario di un dibattito tra classi dirigenti sulle formule e le regole. L’Europa può riconciliarsi con i suoi popoli se dimostrerà, in fretta, di saper agire nella storia – come è successo con l’epidemia e con la guerra – anziché incartarsi nell’ennesimo confronto teorico sul suo futuro.

  
Con la stessa sincerità direi all’amica Giorgia Meloni: l’idea di ricostruire l’Europa come somma di nazioni che mettono in comune tutto tranne ciò che conta davvero – le regole essenziali della democrazia, i progetti per il futuro, l’ambiente, la transizione verso la modernità digitale, la tutela dei diritti delle persone – disegna a mio giudizio un passo indietro verso quell’Unione senz’anima, regolatrice di marginali interessi, che la destra ha sempre condannato. Capisco la difesa dei valori e della tradizione, capisco meno le accuse mosse a quella che viene definita “l’agenda politica globalista, ultra-ambientalista e arcobaleno dell’Europa”: i colossali investimenti europei nella transizione green e digitale saranno il polmone del nostro pil per anni, anzi già lo sono, e sono anche la prima finestra di speranza vista dopo vent’anni di austerity dalle aree meno sviluppate d’Italia e specialmente dal nostro sud. Il prossimo governo sarà chiamato a confermarne il cronoprogramma e il percorso: credo che dovremmo adottare una visione più realistica e generosa.

  
Resto convinta, in conclusione, che chi crede nell’Europa ha in questa fase un’occasione irripetibile per migliorarla e “riabilitarla” nella considerazione dei suoi popoli, persino delle loro frange più scettiche e ostili. E’ la storia ad averci dato in modo imprevedibile e drammatico questa opportunità: ora tocca alla politica dimostrare che è capace di usarla.

 
Mara Carfagna, ministro per il Sud e la coesione territoriale della Repubblica italiana