Il caso

Ucraina, guerra di parole: Salvini ha rilasciato 117 dichiarazioni, Meloni 19

Abbiamo contato dal 24 febbraio a oggi tutti i lanci di agenzia dei due capi della destra italiana. Strategie a confronto

Simone Canettieri

Da quando è scattata l'invasione russa il leghista parla, si agita, inciampa e cade nei sondaggi. L'opposto della silente leader di Fratelli d'Italia

Ci sono già abbastanza parole (e fatti) per scrivere il “de bello Salvini”. La banca dati dell’Ansa contava dal 24 febbraio a ieri sera alle 19 la bellezza di centodiciassette (117) dichiarazioni di Matteo Salvini sull’Ucraina. Un record. Al contrario, nello stesso periodo di tempo, Giorgia Meloni ha centellinato i pensieri. Da quando è scattata “l’operazione militare speciale” la leader di FdI ha prodotto diciannove (19) lanci di agenzia.  

La guerra fra i leader della destra è fatta dunque di parole e silenzi.  I bollettini nostrani, percentuali alla mano, sembrano aver già decretato un vincitore: Salvini parla, parla e fa molte cose, ma continua a perdere consensi (17 per cento secondo Swg per La7); Meloni, tic e tac, esterna il minimo sindacale e continua l’ascesa nei sondaggi (21,5 per cento dalla medesima rilevazione).  C’è dunque una differenza lampante fra il capo del Carroccio sempre più incontinente (verbalmente) e ipercinetico e la rivale che, come il Prodi di Corrado Guzzanti, sta “ferma sempre qui come un semaforo”. La chiave sta nelle frasi e dunque nei numeri: nel 117 contro 19. Con l’Italia sconvolta dal conflitto in Ucraina Salvini ha “prodotto” il sestuplo di Meloni.  


In questo rapporto a dir poco squilibrato ci sono due approcci politici totalmente differenti. La leader di Fratelli d’Italia dal primo momento ha appoggiato il governo Draghi, senza zigzagare e divagare su pacifismo e armi, senza tirare in ballo il Papa ogni tre per due, senza distinguersi. E lo ha fatto dall’opposizione, tribuna che per fisiologia permette di andare contropelo. Al contrario Salvini è stato un vero trotterellino. Certo, tante parole le ha dovute spendere, con più o meno efficacia, su certi doloretti intercostali che sembrano non dargli pace: l’infatuazione per Vladimir Putin, le alleanze strategiche fra la Lega e Russia Unita, il partito dello zar. Per fortuna della “Capa” di Fratelli d’Italia da queste parti nessuno legge  i libri e dunque basta non spararsi  selfie improponibili, visto che nella sua biografia “Io sono Giorgia” scrive che “la Russia difende i valori europei e l’identità cristiana”.  Più facile, forse, fermarsi alle parole a uso e consumo di tutti, e giocare a trovare le differenze. Ecco il debutto bellico di Salvini:    “La Lega condanna con fermezza ogni aggressione militare, l’auspicio è  l’immediato stop alle violenze. Sostegno a Draghi per una risposta comune degli alleati”, è il primo lancio del 24 febbraio, ore 8.18 di mattina. La vaghezza lessicale nell’indicare i nomi degli invasori accompagnerà il leader del Carroccio per un bel po’ di take. 


Sempre lo stesso giorno, data che finirà nei libri di scuola, Meloni alle 9.06 ha detto: “Inaccettabile attacco bellico su grande scala della Russia di Putin contro l’Ucraina. L’Europa ripiomba in un passato che speravamo di non rivivere più. E’ il tempo delle scelte di campo. L’Occidente e la comunità internazionale siano uniti nel mettere in campo ogni utile misura a sostegno di Kiev e del rispetto del diritto internazionale”.  

Nel corso di questi giorni Meloni, pur garantendo a nome degli amici polacchi e ungheresi la disponibilità ad accogliere i profughi e punzecchiando la Ue sui ritardi nei negoziati, ha mandato messaggi abbastanza netti. Pochi e chiari. Come il primo marzo, giorno del voto in Parlamento sulla risoluzione per inviare armi all’Ucraina: “Questo è  il tempo del coraggio, della fermezza, di una risposta compatta a un’aggressione militare che non possiamo accettare. L’Italia non può  che camminare al fianco dei suoi alleati”. Salvini in queste due settimane si è dovuto difendere dagli attacchi della sua maggioranza (“non usate la guerra”), ha invocato l’intervento del Papa per una mediazione, ma anche per una marcia di pace, ha detto all’Inghilterra che non gli piace giocare alla guerra, ha suggerito di calibrare qualsiasi intervento, ha spalancato le porte a tutti i rifugiati e poi alla fine il 2 marzo ha annunciato  “di valutare la possibilità di andare in Ucraina”. Perché  “al di là  delle manifestazioni un conto è  invocare la pace, un conto è  esserci in presenza”.  Dunque niente dad, o meglio pad. “Mi piacerebbe che in entrata ci fosse un flusso di combattenti per la pace”.  Quanto è successo ieri l’altro in Polonia con il sindaco che gli ha sventolato la maglietta di Putin ormai è noto. E anche quel fatto è stato accompagnato dalla geremiade dell’ex ministro dell’Interno. Meloni in questo caso si è limitata a commentare senza infierire: “Chiunque fa, fa bene”. Chi parla meno, ancora meglio.

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  • Simone Canettieri
  • Viterbese, 1982. Al Foglio da settembre 2020 come caposervizio. Otto anni al Messaggero (in cronaca e al politico). Prima ancora in Emilia Romagna come corrispondente (fra nascita del M5s e terremoto), a Firenze come redattore del Nuovo Corriere (alle prese tutte le mattine con cronaca nera e giudiziaria). Ha iniziato a Viterbo a 19 anni con il pattinaggio e il calcio minore, poi a 26 anni ha strappato la prima assunzione. Ha scritto per Oggi, Linkiesta, inserti di viaggi e gastronomia. Ha collaborato con RadioRai, ma anche con emittenti televisive e radiofoniche locali che non  pagavano mai. Premio Agnes 2020 per la carta stampata in Italia. Ha vinto anche il premio Guidarello 2023 per il giornalismo d'autore.