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Cancellare Tangentopoli

Trent’anni dopo Mani pulite è ora di dire la verità sull’articolo 68

Claudio Cerasa

Supplenze. Esondazioni. E indagini come arma di lotta politica. Tornare a separare i poteri per restituire al Parlamento dignità

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Trent’anni dopo l’inizio di Tangentopoli, ci sono due anniversari importanti che meritano di essere cerchiati di rosso sui vostri calendari. Il primo anniversario è quello che verrà celebrato domani ed è un anniversario rotondo: i trent’anni dall’arresto di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio.

 

Il secondo anniversario è altrettanto rotondo ma è un anniversario di cui pochi si ricorderanno: il 23 aprile 1992, il giorno in cui in Parlamento una serie di deputati iniziò a presentare i primi disegni di legge finalizzati a riscrivere l’articolo 68 della Costituzione, con l’idea, come verrà confermato poi nell’ottobre del 1993 quando la legge costituzionale verrà approvata, di sopprimere “la richiesta di una previa autorizzazione della Camera di appartenenza al fine di sottoporre i parlamentari a procedimento penale”, mantenere la richiesta di autorizzazione a procedere solo “nelle ipotesi di perquisizione personale o domiciliare, di arresto o di altra misura privativa della libertà personale”, autorizzare i parlamentari alle “intercettazioni di conversazioni o comunicazioni e il sequestro di corrispondenza”.

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In altre parole: basta preservare l’organo legiferante da eventuali attacchi politici della magistratura, basta tutelare il potere legislativo da quello giudiziario, basta proteggere i parlamentari con l’unico scudo presente in natura per preservare l’integrità del Parlamento separando i poteri dello stato, come chiesero di fare nel 1947 noti farabutti come Giorgio Amendola, Piero  Calamandrei, Benedetto Croce, Alcide De Gasperi, Giuseppe Di Vittorio, Giuseppe Dossetti, Luigi Einaudi, Giorgio La Pira, Antonio Giolitti, Aldo Moro, Pietro Nenni, Ferruccio Parri, Gian Carlo  Pajetta, Sandro Pertini, Umberto  Terracini, Palmiro Togliatti, Benigno Zaccagnini e molti altri.

 

Trent’anni dopo, per discutere delle conseguenze di Tangentopoli, per discutere dei suoi effetti nefasti, per discutere di tutto ciò che è stato generato dalla produzione quotidiana di tossine che hanno lentamente avvelenato lo stato di diritto del nostro paese bisogna ripartire dal modo in cui la politica, nel corso degli ultimi trent’anni, ha fatto di tutto e di più per cedere al ricatto della magistratura ideologizzata, scegliendo di sguarnirsi, scegliendo di demolire le sue reti di protezione, scegliendo di esporsi alla gogna, scegliendo di offrire alla magistratura strumenti per trasformare la giustizia penale in un’arma di lotta politica, scegliendo di considerare il rischio di mettere un potere dello stato nelle mani di un altro (potere giudiziario che si mangia il potere legislativo) come un pericolo meno grave del correre il rischio di coprire qualche atto improprio della politica. Sono passati trent’anni e la profezia messa nero su bianco nel giugno del 1993 dall’allora segretario generale di Magistratura democratica, Franco Ippolito, è ancora drammaticamente valida: “Gli applausi e le manifestazioni popolari attorno al Palazzo di giustizia milanese sono certo espressione di una legittima pretesa dei cittadini che la legge valga davvero per tutti. Ma sono la spia di pericoli. Innanzitutto di un eccesso di aspettative nell’intervento giudiziario, destinate a rimanere in parte inevitabilmente deluse. In secondo luogo sono l’espressione di una spinta ansiosa al raggiungimento di ‘risultati’, con rischio di torsione dello strumento giudiziario, giacché la giurisdizione non deve essere una istituzione di scopo”. Trent’anni dopo più che perdere tempo con le porte girevoli, più che perdere tempo con le correnti, più che perdere tempo con i guai del Csm, un’opinione pubblica con la testa sulle spalle, desiderosa di rimarginare una ferita che la politica si è autoinflitta, di questo dovrebbe parlare e di questo dovrebbe discutere.

 
 Come proteggere l’attività del potere legislativo dalle esondazioni del potere giudiziario? Come evitare che la magistratura possa avere strumenti per trasformare il suo potere in una costola della lotta politica?

 
E come intervenire su un problema aggravato da Mani pulite, che, come ricorda il professor Giovanni Fiandaca in un formidabile saggio su Tangentopoli che troverete domani in regalo con il Foglio, ha fortemente contribuito a quella mediatizzazione del processo penale, soprattutto per via televisiva, che ha duplicato il processo, col rischio di far apparire secondario quello che si svolge nell’aula di tribunale, e che ha reso certi magistrati d’accusa “sempre più simili a tribuni del popolo, che recitano a un tempo in maniera confusiva ruoli giuridico-istituzionali e ruoli politico-mediatici”? E come evitare che la magistratura ideologizzata, problema infinitamente più pericoloso e più cronico rispetto ai rari casi di magistrati che diventano politici, possa esercitare con disinvoltura un ruolo di supplenza, trasformando indagini che dovrebbero avere un inizio e una fine in indagini eterne, giocando con gli elementi penalmente irrilevanti per aumentare gli ascolti del processo mediatico e guidando le indagini mossa spesso dall’idea di dover cercare un reato e non di dover dimostrare una notizia di reato? Trent’anni dopo l’inizio di Tangentopoli, per chiudere un cerchio, per porre un freno alla gogna, per ristabilire l’equilibrio dei poteri, per ridare dignità al potere legislativo, per combattere le derive generate dal potere di supplenza della magistratura, bisognerebbe avere il coraggio di fare un passo lontano dal dettaglismo, dalla fuffa, e tornare a occuparsi della ciccia, chiedendo di ripristinare l’articolo 68 della Costituzione non come fu dettato al Parlamento italiano tra il 1992 e il 1993 dal pool di Mani pulite ma come fu pensato, nel 1947, da Giorgio Amendola, Piero  Calamandrei, Benedetto Croce, Alcide De Gasperi, Giuseppe Di Vittorio, Giuseppe Dossetti, Luigi Einaudi, Giorgio La Pira, Antonio Giolitti, Aldo Moro, Pietro Nenni, Ferruccio Parri, Gian Carlo  Pajetta, Sandro Pertini, Umberto  Terracini, Palmiro Togliatti, Benigno Zaccagnini e molti altri. “I membri del Parlamento non possono essere perseguiti per le opinioni espresse e per i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a procedimento penale; né può essere arrestato, o altrimenti privato della libertà personale, o sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, salvo che sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è obbligatorio il mandato o l’ordine di cattura.

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Eguale autorizzazione è richiesta per trarre in arresto o mantenere in detenzione un membro del Parlamento in esecuzione di una sentenza anche irrevocabile”. Tornare a separare i poteri. Se non ora, quando?

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