(foto Ansa)

Il buon governo dopo il Colle

Renato Brunetta

Progettare il futuro: all’Italia serve una “ricarica delle batterie”, a partire dal lavoro pubblico. Competenze, digitale, abilità trasversali: un grande piano di formazione per dare, più di tutto, la capacità di adattarsi al cambiamento

Il presente ci assorbe, con tutta la sua complessità: Covid, pandemia, crisi, inflazione, prossime scadenze istituzionali. Un peso che rischia di inchiodarci all’oggi, impedendoci di immaginare il domani. Lasciarsi paralizzare sarebbe un grave errore. Dobbiamo, invece, sforzarci di ragionare con due teste, quasi come Giano Bifronte, la divinità capace di guardare sia il passato, sia il futuro. Anche perché abbiamo gli strumenti per riprogettare seriamente l’avvenire: il programma del Piano nazionale di ripresa e resilienza e i fondi per attuarlo. Va aggiunto l’ultimo elemento, fondamentale: il coraggio.

Sulla base di questo assunto, presentiamo oggi il più grande piano di formazione dei dipendenti pubblici mai realizzato nella storia di questo paese. Una campagna che, a partire da questo mese, coinvolgerà, per tutta la durata del Piano, l’intero universo dei 3,2 milioni di “volti della Repubblica”, come li ha definiti il presidente Mattarella, e che porterà molti non laureati a conseguire la laurea, tanti già laureati il diploma di master e corsi di specializzazione, e tutti ad acquisire le competenze necessarie a sostenere le transizioni che il paese deve affrontare, in primis quella digitale. Una enorme “ricarica delle batterie” del lavoro pubblico, a cui speriamo possa seguire un parallelo piano per il lavoro privato. In nome del futuro.

Gestire e attuare i progetti Pnrr e aumentare in modo strutturale la capacità amministrativa della Pa sono i due effetti diretti del Piano. Ma è facile comprendere quale impatto possa avere un processo formativo che coinvolge una platea così ampia in un paese che, secondo l’Ocse, è ancora all’ultimo posto in Europa nella classifica del capitale umano. Dove solo il 42 per cento delle persone di età compresa tra i 16 e i 74 anni possiede almeno competenze digitali di base, contro il 58 per cento della Ue. Dove esistono carenze nelle abilità verbali, di ragionamento e quantitative, mediamente più significative che nel complesso degli altri paesi. E dove è più elevato il cosiddetto skill mismatch, cioè il disallineamento tra le competenze trasmesse ai giovani dal sistema formativo e quelle richieste dal mercato. Un gap che rappresenta una delle principali cause della disoccupazione, soprattutto a lungo termine, oltre che un ostacolo alla crescita del pil e alla competitività delle imprese.


Abbiamo gli strumenti per riprogettare seriamente l’avvenire: il programma del Pnrr e i fondi per attuarlo. Va aggiunto l’ultimo elemento, fondamentale: il coraggio. Un sistema formativo permanente è l’unico modo per fronteggiare la skill obsolescence, che colpisce in particolare i lavoratori più anziani della Pa


Sennonché, la campagna di formazione si compie in quella che si definisce come l’era postfordista, dove si archivia definitivamente la catena di montaggio in ambito industriale, e non solo la produzione ma anche la stessa offerta di servizi, pubblici e privati, diventa sempre più sartoriale, cioè tarata sui bisogni del cliente-utente. Questa trasformazione ha conseguenze straordinarie per il lavoro e la formazione.

La prima è la velocità con cui le conoscenze acquisite diventano obsolete. Negli anni Novanta del secolo scorso, chi frequentava l’università sapeva che la metà delle nozioni apprese nel corso di laurea sarebbero risultate superate in un tempo medio di quindici-venti anni. Questa prospettiva si è ridotta a quattro-sei anni, ed è sempre più disallineata rispetto ai lavori emergenti. 

Vuol dire accettare che le nozioni apprese durante i percorsi universitari e di specializzazione post laurea saranno presto insufficienti e inadeguati, e sarà necessario aggiornarsi continuamente. Un sistema formativo permanente è l’unico modo per fronteggiare la skill obsolescence, che colpisce in particolare i lavoratori più anziani della Pa. La seconda conseguenza è il superamento della distinzione classica tra formazione umanistica e formazione scientifica. Vuol dire che è necessario aumentare la dimensione creativa della formazione tecnico-scientifica e potenziare le competenze digitali della formazione umanistica. Si tratta, pertanto, di riformulare i nostri percorsi educativi, basandoli sullo sviluppo delle “meta-competenze”, ossia le capacità che ci permettono di apprendere velocemente e di adeguare il nostro bagaglio di saperi tecnici e specialistici, anche per fronteggiare i sempre più numerosi e repentini cambiamenti che intervengono nell’arco di una vita lavorativa. 

Una terza conseguenza delle trasformazioni in atto riguarda la crescente ampiezza della sfera decisionale sul lavoro. Oltre alle abilità proprie dei diversi settori nei quali opereranno, i nuovi lavoratori pubblici e privati dovranno essere capaci di affrontare problemi complessi e di assumere decisioni, facendo leva su pensiero critico, creatività e intelligenza emotiva, resistenza allo stress, precisione e attenzione ai dettagli, capacità di guidare gruppi di lavoro e di coordinarsi con gli altri, orientamento al servizio e alla negoziazione e flessibilità. E più di tutto, capacità di adattarsi continuamente al cambiamento.

Queste attitudini si definiscono con il termine di soft skill. Si tratta di abilità trasversali, che sono collegate alla personalità, all’educazione, alla cultura e alle esperienze dei singoli. Tali attitudini sono necessarie non solo per i vertici burocratici e aziendali, ma sono sempre più richieste lungo tutti i gradini della struttura organizzativa. Per queste ragioni la formazione è la leva per uno switch organizzativo e culturale. Che riguarda la Pubblica amministrazione in quanto funzione dello Stato e in quanto parte dei processi di trasformazione sociale. Ieri settore rifugio a bassa produttività e bassi salari, domani catalizzatore dinamico della crescita del paese. 

Per accompagnare e sostenere un cambiamento durevole, dunque, non bastano le riforme per norma. Occorre che le persone che vivono ogni giorno la vita lavorativa dei nostri enti pubblici si sentano parte di un progetto ambizioso di cambiamento che arriva per il meglio. Un progetto che vede proprio i nostri tre milioni e duecentomila dipendenti pubblici protagonisti e destinatari di investimenti su di loro e sulle loro competenze. 

Prima di tutto, ci siamo impegnati a rafforzare la capacità amministrativa e progettuale delle pubbliche amministrazioni, per soddisfare la domanda di personale per permettere loro di affrontare la sfida del Piano nazionale di ripresa e resilienza. L’obiettivo è quello di garantire, in prima istanza, il turnover fisiologico, per troppo tempo soffocato dal blocco delle assunzioni. Dopo oltre un decennio caratterizzato da un’emorragia di dipendenti pubblici con un ritmo medio di quasi -1 per cento annuo (con un saldo netto di addetti negativo di oltre 300.000 unità, soprattutto ai danni delle amministrazioni locali), ora assistiamo a un cambio di passo: almeno 500 mila ingressi per cinque anni, 100 mila l’anno, pari al numero di dipendenti pubblici che andranno in pensione, secondo le stime della Ragioneria generale dello Stato. Con una attenzione particolare riservata ai settori, enti locali in testa, che si sono maggiormente impoveriti negli ultimi dieci anni a causa del blocco del turnover e che necessitano di un rafforzamento del personale adeguato alle esigenze della nuova Pa. Accanto alle assunzioni a tempo indeterminato, inoltre, nella Pubblica amministrazione entreranno a tempo determinato altre decine di migliaia di professionisti ed esperti legati all’attuazione dei progetti del Pnrr. I più meritevoli, a fine Piano, avranno la possibilità di accedere al pubblico impiego a tempo indeterminato, grazie a una riserva del 40 per cento dei posti nei concorsi pubblici.

A questi flussi in ingresso occorre accompagnare lo sviluppo delle professionalità dello stock di dipendenti già in servizio, attraverso una articolata strategia di riforma del lavoro pubblico che abbiamo già messo in campo: progressioni di carriera più fluide, nuovi contratti, creazione della quarta area dedicata alle “elevate professionalità”, retribuzioni più alte, progressione di carriera e mobilità legate anche alla formazione.  Insomma, nei prossimi cinque anni assisteremo a un vero e proprio “cambio del sangue” della Pubblica amministrazione, che consentirà alla nostra burocrazia di riscattarsi anche rispetto ai tagli subiti nello scorso decennio.

Come dimostrato da una recente ricerca dell’Ocse (“Engaging Public Employees for a High-Performing Civil Service”, 2016), sulla scia della crisi finanziaria del 2008, i budget per la formazione sono stati tra i primi a essere tagliati. Nel 2019, in Italia, il numero medio di ore di formazione per dipendente pubblico è stato di 1 giorno all’anno, cioè 8 ore lavorative. Una miseria. Tali riduzioni nel bilancio della formazione, tuttavia, se sostenute nel lungo termine, rischiano di ridurre la capacità della Pubblica amministrazione di rinnovare e aggiornare le competenze di cui ha bisogno. Dopo anni di tagli al pubblico impiego, in termini di numero degli addetti e spesa in formazione, possiamo oggi voltare pagina. Lo abbiamo innanzitutto concordato con i sindacati, all’atto di insediamento di questo governo, con la firma il 10 marzo 2021 del Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale, e lo abbiamo anche fatto, assicurando sul Pnrr circa un miliardo di risorse per la formazione dei dipendenti pubblici. Oggi i contratti nazionali del pubblico impiego, in fase di rinnovo (il 21 dicembre è stata siglata la pre-intesa sul contratto per il comparto funzioni centrali, tradizionalmente apripista per tutti gli altri), raccolgono la sfida di creare opportunità di crescita per chi investe nella propria professionalità.

Ma, oltre alle misure già in atto, occorre avere in mente una strategia di investimento sulle persone più ampia e duratura, che svolga due funzioni cruciali: la prima è colmare il più rapidamente possibile il gap accumulato negli anni che ha via via portato al depauperamento delle competenze delle persone per fare fronte alle sfide di questa precisa fase storica. La seconda è creare le condizioni per cambiare lo schema di gioco in maniera strutturale, abbandonando del tutto l’idea della vecchia Pa che ha barattato scarsi investimenti in competenze in cambio della sicurezza del posto di lavoro. Quella sicurezza non è in discussione, ma l’attrattività del lavoro pubblico deve fondarsi anche e soprattutto sull’orgoglio di poter mettere i propri talenti a servizio di un grande progetto di trasformazione della cosa pubblica e di poter vedere i propri talenti crescere, ampliarsi, rinnovarsi e ricevere, per questo, le giuste ricompense in termini di opportunità di carriera. 


Nei prossimi cinque anni assisteremo a un vero e proprio “cambio del sangue” della Pubblica amministrazione, che consentirà alla nostra burocrazia di riscattarsi anche rispetto ai tagli subiti nello scorso decennio. Circa un miliardo di risorse del Pnrr è destinato alla formazione dei dipendenti pubblici


La formazione dei dipendenti è un pilastro di qualsiasi strategia incentrata sulle competenze: re-skilling (ovvero maturare nuove competenze più aderenti alle nuove sfide della Pa, potendo anche cambiare un po’ mestiere) e up-skilling (ampliare le proprie capacità così da poter crescere e professionalizzare il proprio contributo) assumono ancor più importanza nella Pubblica amministrazione, viste le sfide che la attendono.  Inoltre, data l’elevata velocità del progresso tecnologico (transizione digitale ed ecologica), investire nell’apprendimento è ormai parte fondamentale del lavoro di un funzionario pubblico. L’apprendimento permanente sarà essenziale non solo, quindi, per i progressi di carriera, ma anche per mantenere e migliorare le competenze della Pubblica amministrazione.

Reinvestire nella formazione dei dipendenti pubblici richiederà non solo l’attivazione di programmi specifici, ma anche la capacità di riappropriarsi della cultura dell’apprendimento nei valori dell’organizzazione, responsabilizzando i dirigenti pubblici. Un ruolo cruciale sarà giocato dagli stessi enti, chiamati a disegnare la formazione per i propri dipendenti in chiave integrata con le strategie di sviluppo complessive dell’amministrazione – coerentemente con quanto previsto dal Piano integrato di attività e organizzazione (Piao) – e puntando a creare, attraverso l’investimento in competenze, valore per i cittadini. 

Due gli ambiti di intervento per intervenire sullo stock di capitale umano della Pa. Uno riguarda lo sviluppo delle competenze digitali di base. In dodici mesi, il programma di formazione che avvieremo a gennaio, in collaborazione con grandi player pubblici e privati, anche internazionali, darà la possibilità a tutti i dipendenti pubblici, sia quelli delle amministrazioni centrali, sia a quelli degli enti locali, di effettuare un “salto di livello”, partendo dal proprio grado di conoscenza degli strumenti digitali: dal livello base all’intermedio, dall’intermedio all’avanzato. In una fase successiva, il programma verrà esteso anche alle competenze trasversali e, per i dirigenti e i ruoli direttivi, alle competenze manageriali. Progressivamente, il piano comprenderà lo sviluppo delle competenze previste in tutti gli altri ambiti del Pnrr (transizione amministrativa, transizione ecologica, etc.).
L’altro pilastro del piano, invece, consentirà a tutti i dipendenti pubblici che lo vorranno di usufruire di un incentivo per l’accesso all’istruzione terziaria. Non solo la Pa si appresta, quindi, ad assumere personale sempre più qualificato ma, coerentemente con le prospettive di up-skilling, investe anche sulla formazione universitaria di chi già lavora al suo interno. 

I laureati nella Pa sono il 41,1 per cento del totale. Difficile dire se siano tanti o pochi, perché dentro il lavoro pubblico ci sono mestieri e funzioni diverse e che richiedono profili di istruzione differenziati: si pensi, a titolo di esempio, alla varietà dei livelli di istruzione richiesti nelle professioni sanitarie. Al netto di alcune componenti delle pubbliche amministrazioni più tradizionalmente labour intensive (si pensi alle forze di polizia, vigili urbani e forze armate), colpisce, però, che la quota dei laureati sia sotto media anche in amministrazioni quali i ministeri (29 per cento, mentre gli enti pubblici economici, anche quelli che erogano servizi all’utenza, quindi molto operativi, sono sopra media, con quasi il 50 per cento laureati) e il comparto regioni ed enti locali (30 per cento). 

E’ evidente, dunque, che per qualificare la Pa non basta assumere nuovi profili altamente professionalizzati. Occorre anche occuparsi di chi c’è, offrendo formazione e accesso alla laurea e ai master, a cui agganciare lo sviluppo di carriera e il miglioramento retributivo coerentemente con quanto previsto dalla nuova “quarta area” nei contratti. Che sia lo scatto in avanti della Pa a incarnare la postura civile, dinamica ed essenziale, fatta di impegno a investire su di sé, di cui la società e la politica hanno bisogno, rende gli effetti indotti di questa gigantesca “ricarica delle batterie” del lavoro pubblico una prova di autenticità del riformismo. Non sono, da soli, i soldi dell’Europa a cambiare l’Italia, ma la capacità dell’Italia di mettersi in discussione e guardare al futuro. Ricordando la lezione di Rilke: “Il futuro entra in noi, per trasformarsi in noi, molto prima di essere accaduto”.

Renato Brunetta è il ministro per la Pubblica amministrazione

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