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La partita del Quirinale

Letta e Meloni pensano a Draghi, ma il Cav. e il M5s li bloccano

Valerio Valentini

I due leader nella matassa del Colle. “La destra è bloccata su Berlusconi, e il Pd è fermo”, dice Finocchiaro. De Micheli per “Mario”

Luciano Violante, che a seguire i pronostici qualche possibilità ce l’ha ma che qui stamane, alla Fondazione Leonardo che presiede, con vista Circo Massimo, officia l’ennesimo l’incontro – il quarto in tre mesi – tra Enrico Letta e Giorgia Meloni, questa anomala frequentazione la spiega con semplicità: “E’ che mancando un vero regista nella partita sul Colle, è normale che gli estremi si parlino”.  E allora eccoli di nuovo, Letta e Meloni, i “Sandra e Raimondo” di questa ormai estenuante soap opera quirinalizia che andrà avanti ancora a lungo, se è vero che gli strateghi di Montecitorio hanno convenuto con Roberto Fico che le votazioni per il presidente della Repubblica non dovrebbero iniziare prima del 20, se non del 24, gennaio. E però questa danza delle spade tra il segretario del Pd e la presidente di FdI non sembra valere a sbloccare lo stallo, secondo Anna Finocchiaro, altra quirinabilissima. “Perché i numeri dicono che la prima mossa deve farla il centrodestra, ma il centrodestra è come Edipo, coi piedi incatenati sul nome di Berlusconi”. E siccome quella del Cav. è una candidatura che non può esserlo, “nell’attesa che a destra si chiarisca il quadro il centrosinistra non gioca la sua partita”, osserva Finocchiaro.

 

“Berlusconi è il nome che noi di FdI ci giocheremo, perché sappiamo che un minuto dopo essere eletto, sarebbe garante di tutti”, dice Ignazio La Russa. “E lo sanno tutti, anche chi finge di ignorarlo. Perché è risaputo che in fondo, al Cav., degli interessi del suo partito gliene è sempre importato ben poco”. E tanto basterà, dunque, a convincere anche chi sta nel campo avverso a sostenerlo? “Se poi avrà anche i voti di un pezzo di centrosinistra, necessari per andare al Colle, dovete chiederlo a lui e al Pd”, prosegue il senatore ed ex ministro della Difesa, prima di raggiungere la Meloni per il brindisi di fine anno a Montecitorio. “Berlusconi? E’ il nome del centrodestra quando si arrivasse a uno scontro tra le parti, a meno che non si trovi prima un nome condiviso”, precisa però Federico Mollicone, altro pretoriano di FdI, mescolando di nuovo le carte. “Ma al di là di tutto, siamo sicuri che c’è un nome del genere?”, si chiede ancora Finocchiaro, prima di congedarsi.  

Per Paola De Micheli, il profilo giusto c’è: “E’ Mario Draghi. E vedrete che poi un equilibrio per fare un nuovo governo lo si troverà comunque”. Così tre giorni fa la deputata del Pd catechizzava i suoi colleghi in Transatlantico. E ragionamenti analoghi, a quanto si racconta, li condivide anche Graziano Delrio.
 

Solo che il premier resta una sfinge, nel non dire nulla ribadisce la persistenza della sua ambizione. E’ bastato che ieri, davanti agli ambasciatori riuniti alla Farnesina, dicesse en passant che “il Pnrr non è il piano di rilancio di questo governo, ma di tutto il Paese”, perché i ministri presenti presagissero come un anticipo di congedo da Palazzo Chigi, nell’attesa che oggi, durante la conferenza di fine anno, lasci intendere qualcosa in più. Letta allora prende tempo. Rinvia ogni risoluzione a dopo le feste, e così la direzione decisiva, coi gruppi parlamentari e i grandi elettori del Pd, è stata convocata per il 13 gennaio. “Ci si arriverà – spiegano al Nazareno – con la convinzione che si debba partire da un accordo con le forze dell’attuale governo e che si debba allargarlo anche a FdI”. E certo in quest’ottica Draghi sarebbe una soluzione, per Letta: perché eviterebbe paranoie e conte interne, scongiurerebbe insomma dei non improbabili spargimenti di sangue nel campo del centrosinistra.

 

E però, “se la candidatura del premier al Colle deve rappresentare la sublimazione di una intesa larga sul modello dell’elezione di Ciampi, allora il suo nome deve necessariamente passare subito, al primo turno”, puntualizza Federico Fornaro, capogruppo di Leu alla Camera, col tono di chi s’incarica di indicare l’inghippo. Perché se Meloni ha il problema del Cav., “a cui nessuno nel centrodestra riesce a dire di no pur sapendo che si tratta di una missione impossibile”, come spiega Paolo Romani, Letta ce l’ha coi suoi alleati. “Qui siamo tutti contro l’assurda ipotesi Draghi: sarebbe poco serio e poco responsabile, per chi è stato scelto come un servitore dello stato”, dice Andrea Giarrizzo, prendendo la parola in un gruppo di deputati del M5s raccolti intorno al vicepresidente grillino Michele Gubitosa. “E del resto – ha spiegato la capogruppo al Senato Maria Castellone a dei colleghi del Pd – per noi è già stato complicatissimo sostenere Draghi premier, figurarsi cosa succederebbe ora se ci venisse prospettato di mandarlo al Quirinale per poi dover subire un suo ministro come nuovo presidente del Consiglio”. Dubbi condivisi anche da altri senatori grillini: da Andrea Cioffi e Gianluca Castaldi (“Draghi al Colle? Ma non scherziamo”), così come da Primo De Nicola (“Un tecnocrate al Quirinale non è la scelta che il M5s ha in mente”). Tutto un ribollire di malumori e di malintesi, di preventive impuntature in una pattuglia, quella del M5s, che sembra refrattaria a ogni disciplina di scuderia. E chi tra i parlamentari grillini ha parlato col ministro Federico D’Incà, estenuato dalla maratona sulla legge di Bilancio, giura di aver sentito inviti a tenere d’occhio il computo dei contagi, più che quello del pallottoliere d’Aula: ché con la variante Omicron che infuria, a metà gennaio salti nel buio non sarebbero ammessi.

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.