L'analisi

Fico e Casellati protestano sul ddl Concorrenza. E il Pnrr si perde in Parlamento

Valerio Valentini

I presidenti di Camera e Senato si lamentano col Quirinale rivendicando autonomia nelle nomine sulle Authority. Sintomo dell'insofferenza delle Camere sulle riforme del governo Draghi. Dalla giustizia al fisco, tutti i dossier su cui le zuffe parlamentari complicano la partita del Recovery con Bruxelles

Le proteste dei presidenti delle Camere e dei loro staff sono iniziate quando ancora le bozze del ddl Concorrenza non erano state approvate dal Cdm. Dispacci informali inviati a Palazzo Chigi, poi più su fino al Quirinale. “Così si rischia di ledere l’autonomia del Parlamento”. Tutto per un articolo, quello finale, inserito  e poi  annacquato, pur di non creare troppo sconquasso. Perché nella versione originale, il comitato di esperti per valutare le nomine dei vertici delle Authority doveva essere unico, creato con decreto del presidente della Repubblica e formato da tre tecnici indicati dal governo e due dai presidenti di Camera e Senato. Poi, il ripensamento: una commissione di esperti per ciascuno dei nove enti coinvolti. Ma non è bastato. Perché tra le nove Authority tirate in ballo ce ne sono quattro (Antitrust, AgCom, garante per la Privacy e per lo Sciopero) i cui vertici vengono indicati in massima parte dalle Camere. Sottoporre queste nomine, spesso frutto di lottizzazione partitica più che di un effettivo vaglio dei curriculum, al vaglio di comitati governativi, per gli alti funzionari di Palazzo Madama e Montecitorio è un attentato, uno sfregio. 

E insomma se perfino su questi dettagli s’accanisce la famelicità della partita, se il vizio della rivendicazione e dell’incapricciamento alligna addirittura tra i massimi vertici della assemblee legislative, figurarsi cosa avviene più in basso, tra i corridoi e nelle stanze delle commissioni parlamentari. Il ministro della Giustizia Marta Cartabia, che da deputati e senatori vorrebbe un poco di risolutezza al fine di convincere la Commissione  europea che no, che il ritardo sull’attuazione delle deleghe sulla riforma del processo penale e civile non è cosa di cui preoccuparsi in ottica Pnrr, ecco quella stessa  Cartabia giovedì pomeriggio è stata costretta a precipitarsi a Montecitorio per sedare una mezza zuffa tra il M5s e i partiti del centrodestra, guidati in realtà dal calendiano Enrico Costa, intorno all’utilizzo del trojan. E siccome si discuteva in realtà del recepimento di una sentenza della Corte di giustizia europea sull’acquisizione dei tabulati telefonici nell’ambito delle indagini penali, la Guardasigilli s’è vista costretta a rimandare il dibattito ad altra sede: “Ho anche io le mie riserve sul trojan, ma non è questa la sede”. Riuscendo in realtà a far sbuffare sia Costa (“Qui si rinviano sempre le questioni più decisive”), sia i grillini. Al punto che il ministro Federico D’Incà, titolare dei Rapporti col Parlamento, l’ha guardata con l’aria di chi sapeva di averla trascinata in una situazione poco piacevole. “Ho provato a farli ragionare, sono tre ore che sto qui …”.

E in effetti D’Incà s’era già sciroppato la sua dose giornaliera di mal di fegato. Era arrivato anzi nella tarda serata di mercoledì, per lui, l’allarme. “Qui si rischia una nuova figuraccia”, lo avevano avvisato i senatori del Pd. Il punto era che Maria Elisabetta Casellati aveva accolto la richiesta di Lega e FdI di procedere con il voto segreto su alcuni articoli contestati del dl Trasporti. Riguardavano il divieto di esporre in strada pubblicità con contenuti sensibili sul tema del “gender”, e tanto era bastato per far gridare ai meloniani: “Qui si vuole rintrodurre surrettiziamente il ddl Zan”. E insomma l’evocazione del provvedimento affossato pochi giorni prima, unito allo spauracchio dei soliti franchi tiratori, aveano spinto D’Incà a chiamare direttamente la presidente del Senato. “E’ una forzatura”, diceva lui. “Non sono d’accordo”, replicava lei. E alla fine il ministro ha deciso di ricorrere al voto di fiducia, per salvare il decreto e la tenuta della maggioranza. 

Eccola, insomma, la fatica più temuta da Mario Draghi. Non tanto il limare il testo dei decreti per renderli potabili da un Cdm così variegato. Non tanto il dover sollecitare, spesso intervenendo in prima persona con opere di moral suasion, il lavoro dei ministeri. Il problema vero è che poi i provvedimenti licenziati dal governo devono essere convertiti dal Parlamento: anche quelli relativi all’attuazione del Pnrr, alle molte riforme che Bruxelles ci chiede, e sulla cui approvazione vigila con lo scrupolo di chi sa che è dal rispetto delle scadenze fissate che dipende l’erogazione dei fondi del Recovery.

E però la politica ha le sue ragioni che la Commissione non concepisce. E allora ecco che su un decreto che regola l’introduzione del green pass la Lega s’appiglia per provare a sabotare il referendum sulla cannabis, facendo vivere all’esecutivo la sua giornata di passione non preventivata. Il decreto licenziato dal governo l’8 settembre per contrastare gli incendi boschivi, diventa una buona occasione per imbastire il 26 ottobre una baruffa tutta strumentale tra Leu e Lega sui vincoli per la caccia. Il tutto con sommovimenti bizzarri, con scontri che avvengono dentro il perimetro della maggioranza di governo, talmente ampia e variegata da consentire la formazione, al suo interno, di nuove maggioranze che battagliano con nuove minoranze. E forse è anche per questo che sempre più spesso Massimiliano Romeo, capogruppo del Carroccio al Senato, chiede di sospendere le riunioni di maggioranza per potersi consultare “coi nostri alleati di FdI”, così da provare a coinvolgere anche loro, che in effetti starebbero all’opposizione, nelle contese intestine all’area di governo. Ed è anche per questo che alla fine il ricorso ai voti di fiducia appare la via obbligata per evitare incidenti e lungaggini. 

E questo, alla vigilia dell’apertura del rodeo sulla legge di Bilancio. Col M5s che, in nome del contismo esasperato, già manovra per reintrodurre misure cassate o ridimensionate, come il Cashback e il Superbonus. Due giorni fa, i senatori grillini della commissione Finanze sono andati anche a cercare sostegno dai colleghi del Pd. I quali però hanno allargato le braccia: “Ma se abbiamo a disposizione 500 milioni aggiuntivi, per la Finanziaria, come potete venirci a proporre la reintroduzione del Cashback che da solo vale 3 miliardi ?”. Luigi Marattin, che la commissione Finanze la presiede alla Camera, non nasconde la sua preoccupazione sul caos normativo che porta all’inconcludenza. “Abbiamo una delega fiscale da realizzare e un emendamento alla legge di Bilancio che, proprio sul taglio delle tasse, deve stabilire come useremo gli otto miliardi stanziati”, dice il deputato renziano. “Spero che tra Parlamento ed esecutivo si crei un organo di coordinamento per fare in modo che le due misure siano complementari, per definire un quadro di ridefinizione del fisco che sia efficace e coerente. Ma il tutto va fatto in fretta, in modo che entro l’inizio del prossimo anno il nuovo assetto sia chiaro”. E forse per evitare che a Bruxelles qualcuno cominci a dubitare davvero della capacità dell’Italia di fare le riforme. 

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.