l'intervista

Amendola striglia partiti e sindacati: “Chi blocca la legge di Bilancio non ha capito la sfida del Pnrr”

Valerio Valentini

“Col teatrino dei veti si bruciano 335 miliardi”. Parla il responsabile Affari europei del Pd, che avverte: "A livello comunitario ci attendono sfide importanti: sanità, difesa, cybersecurity, cooperazione e gestione dei flussi migratori"

Sorpreso, sì, ma in maniera sorprendente. Nel senso che a colpire Enzo Amendola non sono tanto i toni di Klaus Regling, teutonico direttore del Mes, che apre a una revisione dei vincoli fiscali. “Se vogliamo essere coerenti con gli obiettivi che ci siamo dati, il Patto di stabilità e crescita, così com’è, è semplicemente anacronistico”. Il vero stupore del responsabile per gli Affari europei, è per altri toni, per altre dichiarazioni. “Sono davvero deluso dall’atteggiamento e dalle recriminazioni che si fanno sulla legge di Bilancio e che dimostrano come non sia stata compresa qual è la vera sfida che l’Italia rischia di perdere”. E lo dice, Amendola, mentre a Palazzo Chigi sta per iniziare la riunione tra Mario Draghi e i leader sindacali. Che sobriamente, pur di difendere Quota 100, minacciano un bello sciopero generale. “Ma non voglio recitare la parte insopportabile del politico che snobba le ragioni della politica e degli attori sociali, anche quando sono poco ambiziosi”, chiarisce Amendola. “Anzi, stare sui numeri, sulla concretezza”. E allora il dirigente del Pd sfoglia delle tabelle che tiene con sé sulla sua scrivania. Ed elenca. “Dunque, il Pnrr vale nel complesso 205 miliardi, più altri 30 di fondo complementare. Poi ce ne sono altri 100 che derivano dal bilancio europeo. Ecco, di questi 335 miliardi si deve decidere cosa farne, e come farli fruttare al meglio, di qui al 2023, quando le politiche straordinariamente espansive della Bce caleranno e tornerà in vigore, per quanto riformato, il Patto di stabilità e crescita. Ebbene, sono a tal punto convinto del valore della politica, che intorno a questi stanziamenti mi aspetterei uno scontro aspro, un fermento continuo di proposte”.


E invece? “E invece l’azione del governo è al momento rallentata a causa di litigi su singole voci di una legge di Bilancio che vale 23 miliardi. Ecco: 23 miliardi, a fronte dei 335”. Il che avviene, peraltro, con un dibattito tutto ripiegato sulle misure da salvare, da riproporre, da prorogare: dal Reddito di cittadinanza al Superbonus, da Quota 100 al Cashback. “Pur riconoscendo le esigenze di partiti e forze sociali, direi che anche questo è un segnale preoccupante: dice di una classe dirigente che non ha compreso la profondità della sfida che ci attende. Il prestigio e l’autorevolezza di Draghi aiutano, in Europa. Ma non possono essere alibi usati per sfuggire alle proprie responsabilità. Ci siamo impegnati a riforme di sistema con date certe. C’è una Pubblica amministrazione da rinnovare e formare, come ben sanno i ministri Brunetta e Colao, per metterla nelle condizioni di gestire al meglio la mole attuale di investimenti. Concorrenza, politiche attive del lavoro, formazione a tutti i livelli. Il riformismo, che pure fa del gradualismo una sua virtù, in questa fase è chiamato a un compito ancor più arduo: essere interprete di dinamiche impetuose, di cambiamenti travolgenti che si accompagnano al Recovery plan. Mettersi a difendere le misure del passato, sventolare le proprie bandierine identitarie, non fa onore a nessuno”.


E del resto sarebbe forse un errore votarsi allo sbraco ai primi accenni di ravvedimento da parte del fronte dell’austerità europea. “Al contrario, è proprio qui che dobbiamo sentire l’importanza del nostro compito”. Le parole di Regling sull’opportunità di una revisione dei parametri del Patto di stabilità e crescita, almeno per quel che concerne i vincoli sul debito, sono comunque positive, no? “Sono parole di realismo. Se già prima del Covid il Patto aveva dimostrato tutti i suoi limiti nel promuovere produttività e competitività, ora rischia di diventare un ostacolo nel raggiungimento degli obiettivi che ci siamo prefissati. Intanto, dopo la crisi pandemica il livello medio di debito pubblico dell’area dell’euro è salito oltre il 100 per cento: e dunque la riduzione deve avvenire su scenari realistici e credibili. In secondo luogo, le due transizioni, quella ecologica e quella digitale, costeranno all’Europa, in termini di investimenti pubblici e privati additivi, 650 miliardi all’anno di qui al 2030. Sono i dati forniti dal commissario per gli Affari economici Paolo Gentiloni qualche giorno fa. E se a questi aggiungiamo, come giustamente ricorda il premier Draghi, le sfide che a livello comunitario ci attendono su sanità, difesa, cybersecurity, cooperazione e gestione dei flussi migratori, diventa evidente come sia impossibile pensare di lanciarsi in questo percorso di innovazione strutturale con vincoli anacronistici che limitano la nostra capacità di spesa. Tanto più se pensiamo che le transizioni che ci attendono sono delle vere rivoluzioni irreversibili in termini di processi industriali e avranno anche pesanti ricadute a livello sociale”.


E poi, oltre ai vincoli economici, ci sono quelli sui diritti. Nei giorni scorsi, mentre il forzista Brunetta evocava uno scenario da maggioranza “Ursula” in Italia, a Bruxelles un pezzo di maggioranza Draghi, rappresentata dalla Lega, votava insieme agli sovranisti di Polonia e Ungheria. “Io, ai sostenitori nostrani di Budapest e Varsavia, chiederei di sciogliere le loro ambiguità non tanto e non solo in nome dell’europeismo, ma piuttosto di quegli interessi nazionali di cui loro che si dicono sovranisti si pretendono difensori assoluti. Ma davvero è possibile sostenere che quella Bruxelles da cui dipendono i miliardi del Recovery, e dunque del nostro futuro, negoziati dai 27 governi, sia un covo di imperialismo che sovrasta le costituzioni nazionali, come fanno i ministri ungheresi? Davvero lo stato di diritto è un orpello da sofisti? Quando le nostre imprese, impegnate nella competizione a livello internazionale, decidono di investire in tutto il mercato europeo, non è nel loro interesse avere una garanzia di piena libertà e concorrenza trasparente, oltreché della certezza del diritto?”. Bisogna chiederlo ai sovranisti. “Se vi rispondono, fatemi sapere”.

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.