l'intervista

"Nel M5s abbiamo un leader ma non un partito. Conte non pensi alla sua corrente". Parla Spadafora

Valerio Valentini

L'ex ministro offre la sua analisi della sconfitta, e chiede un (nuovo) congresso. "Dobbiamo ripensarci. E Giuseppe deve nominare subito la ua segreteria, così siamo allo sbando. Draghi al Quirinale? Il Parlamento non lo voterebbe"

A un certo punto il cortocircuito appare chiaro anche a lui, che da mezz’ora sta discutendo di come “il M5s dovrebbe ripensarsi, ristrutturarsi, trovare una nuova ragion d’essere”. E allora Vincenzo Spadafora si ferma. Sospira:  “Se non li avessimo già fatti, mi verrebbe da dire che dovremmo fare gli stati generali”. Un congresso, insomma. “Perché la leadership di Conte va bene, ma non basta. Nessuno nel 2023 ci voterà solo perché abbiamo Giuseppe come presidente. E anzi, riflettendoci, proprio da qui dovremmo iniziare a ragionare: in effetti perché qualcuno dovrebbe volerci votare, tra un anno e mezzo?”. Parte da qui, allora, “l’analisi della sconfitta” grillina.

E’ giusto che parta da qui, almeno, “perché finora ci siamo nascosti dietro una furbizia un poco ipocrita”, dice Spadafora, deputato a Cinque stelle, già sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e ministro dello Sport. “Abbiamo pensato di cavarcela – ci dice – affermando che il vero vincitore di questa tornata di amministrative che per il M5s è andata oggettivamente malissimo è stato l’astensionismo. A me questa  pare semmai un’ammissione di colpa, perché il M5s è nato proprio per raccogliere il malcontento e per canalizzarlo nel gioco democratico”.

Stavolta, invece, non è successo. “Nel 2018 abbiamo raggiunto il 33 per cento attirando un voto che era sostanzialmente contro, e infatti il nostro elettorato era  composito e trasversale. Col tempo, abbiamo semplicemente iniziato a restituire ai vari partiti i rispettivi elettori. Anche perché intanto molte delle nostre battaglie identitarie, come il Reddito di cittadinanza  o il taglio  dei parlamentari,  sono state realizzate, e molte delle nostre istanze sono state assimilate dal sistema. Questi due fatti avrebbero dovuto spingerci a darci nuove prospettive”.

E invece? “E invece da un anno e mezzo viviamo nello sfacelo assoluto. E non perché abbiamo irrimediabilmente esaurito la nostra funzione sociale. I partiti evolvono  interpretando  le nuove esigenze della popolazione. Noi siamo, più banalmente, in uno stato confusionale permanente. Abbiamo governato con la Lega. Poi col Pd. Poi con tutti. E nel frattempo ci siamo dimenticati di chiederci cosa stavamo diventando”. Ma non è forse fatale, questa perdita di identità, per un Movimento che l’identità politica l’ha sempre rifiutata? “No. La crisi del M5s è innegabile, ma non irreversibile. A me le fasi di ripensamento  non spaventano, purché la discussione sia seria”.

Partendo dal collocamento, magari. “Siamo stabilmente nel campo del centrosinistra, proponendoci come un’alternativa forte e chiara al Pd. Non, insomma, per farci fagocitare dai dem, che del resto non avrebbero alcun interesse a inglobarci, dove pure fosse possibile”. Un centrosinistra a due, dunque, o che includa anche Renzi e Calenda? “Dopo aver governato con tutti, mi parrebbe velleitario voler porre dei veti su una singola forza politica. Anzi, credo che la paura a confrontarsi nasca dalla consapevolezza della propria debolezza. Se ci sediamo al tavolo coi nostri interlocutori mossi da mero spirito di sopravvivenza, allora forse ha ragione Di Battista: tanto varrebbe  uscire dal Palazzo. Ma io credo che noi dobbiamo invece rilanciare la nostra azione, puntando su nuove istanze identitarie”.

Questioni di cui di solito in un partito si discute in un congresso. “Io so che Letta dopo il primo turno delle amministrative ha riunito i suoi ministri, i  capigruppo e i membri della  segreteria per riflettere sull’esito del voto. Noi non lo abbiamo fatto neanche dopo i ballottaggi, né d’altronde sapremmo quale sarebbe la sede consona”. Sta dicendo che Conte sta tardando troppo a formare la sua segreteria? “Sto dicendo che l’attendismo non serve. Non dopo un anno e mezzo di reggenza inconcludente. Ora, in modo forse bizzarro, siamo partiti dalla fine, indicando cioè un leader prima di dare una nuova fisionomia al partito. Ma almeno ora che una guida chiara e indubbiamente autorevole c’è, dedichiamoci al resto. Alle elezioni politiche manca poco più di un anno: di tempo da perdere non ce n’è. Se poi, come io non credo, si precipitasse verso elezioni anticipate, non voglio neppure pensare a come ci arriveremmo”.

Ma non sarà, però, che proprio il ritardo nella definizione della segreteria impedisce qualsiasi discussione? Chi parla, dicono i vostri deputati in Transatlantico, viene fatto fuori da Conte. “Voglio sperare che non sia così. E io, anzi, non scalpiterei per entrarci: ai nuovi vertici del M5s toccherà ricostruire sulle macerie. Ma Conte  deve varare subito i nuovi organismi direttivi”. E perché non lo fa? “Va chiesto a lui. Forse per la paura di non scontentare nessuno?”.

Il che però, onorevole, dà il senso di un partito dove anche i rapporti umani paiono logori, forse compromessi. Voi vi riconoscete in Conte. Ma Conte, per Grillo, è uno “senza visione politica”. I rapporti tra l’ex premier e Di Maio sono quanto meno complicati. “Ho imparato negli anni che le dinamiche della politica prescindono dalle simpatie personali. E in questo senso, credo che spetti proprio a Conte, che del M5s è il presidente,  essere inclusivo. Sempre che abbia a cuore davvero le sorti del M5s. Sempre che, voglio dire, non abbia sancito nello statuto il divieto a creare nuove correnti per poi farsene una sua”. Diranno che parla per risentimento: ce l’ha con Conte perché non è stato confermato al governo. “Allora  dovremmo essere allineati nel risentimento, io e Giuseppe. Perché al governo non ci siamo né io né lui. E del resto né io né lui abbiamo gestito le trattative per definire ministri e sottosegretari”.

A proposito di governo. Restare, uscire, che fare? “Uscirne ora, dopo esserci entrati per giusto senso di responsabilità nei confronti del paese, col solo scopo di inseguire la Meloni all’opposizione, sarebbe assurdo. Tanto più che Draghi si sta spendendo per le riforme di cui l’Italia ha bisogno”. 

Proporzionale o maggioritario? “Non mi sembra, francamente, che ci siano le condizioni per cambiare la legge elettorale. Non fino a che non si risolva la sfida per il Quirinale, almeno”.

A proposito: preferenze? “Evito pronostici, perché sono inutili. Ma sinceramente reputo poco probabile l’ipotesi di Draghi. Non perché non sarebbe un ottimo presidente della Repubblica. Ma, come lui stesso d’altronde dice, è il Parlamento che decide. E il Parlamento non accetterà né di sostenere un nuovo governo senza una figura così autorevole a Palazzo Chigi, né di correre verso elezioni anticipate. Però un auspicio voglio esprimerlo: mi auguro che il nuovo capo dello stato sia una personalità assolutamente politica, uno che conosce bene le istituzioni e la vita dei partiti”. E per chi è entrato in Parlamento volendo abbattere le istituzioni, non è un auspicio da poco. “Ma a volte cambiare fa bene. Anzi, è necessario”.

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.