Luciano Portolano (FotoAnsa)

Portolano, il generale survivor che ora mette in salvo gli afghani

Valerio Valentini

Scampato più volte a imboscate, sopravvissuto a esplosioni di mine. Ecco chi è l'uomo che parla con gli americani e con la Cei e coordina le operazioni di rimpatrio dall'aeroporto di Kabul

Il mito, dicono, è nato una notte di metà giugno del 1999, lungo una strada verso Klina. Fu lì, mentre era in avanscoperta nella regione occidentale del Kosovo, che il tenente colonnello Luciano Portolano, trentottenne tiratore scelto di Agrigento, saltò in aria su una mina anticarro. Il blindato che viaggiava davanti al suo, a vedere quel volo di otto metri, quel cratere aperto dall’esplosione, proseguì credendo che ormai per il resto della truppa non ci fosse nulla da fare. E invece Portolano, con tre suoi colleghi della brigata Garibaldi, riuscì a salvarsi e a raggiungere l’ospedale di campo di Pec e farsi mettere qualche decina di punti di sutura alla schiena. Non prima, però, di aver colpito una mezza dozzina di assalitori che avevano pianificato l’imboscata. Succederà ancora. Nel nord dell’Iraq, dove comandava dei blitz per smantellare dei depositi di armi abusivi, nel 2005, di nuovo con una mina. E al confine tra Iran e Pakistan, quando il suo elicottero fu attaccato e costretto a un atterraggio d’emergenza disperato.


Ora che ha lasciato gli avamposti sui campi di battaglia, il generale Portolano si ritrova comunque in prima linea. Perché è lui, da capo del Comando operativo di vertice interforze (Covi), ovvero del centro di raccordo supremo dei vari corpi impegnati nelle missioni all’estero, che dalla sede della Difesa di Centocelle coordina le operazioni per il rientro degli italiani intrappolati nella barbarie di Kabul, insieme coi vari collaboratori e contrattisti afghani. E’ lui che sovrintende alle manovre sul campo, dando direttive alle forze speciali su come prelevare e imbarcare persone da salvare, su come gestire i voli del ponte aereo tra Kabul, Kuwait e Fiumicino. Ed è a lui che fanno riferimento anche i tanti funzionari della Difesa addetti a ricevere e controllare i documenti dei collaboratori afghani messi in lista: gente che spesso va rintracciata telefonicamente, o recuperata chissà come in giro per l’Afghanistan, e a cui poi vanno date disposizioni e conforto. Perfino il cardinal Bassetti s’è visto contattare dagli uffici di Portolano, nelle scorse ore, quando s’è trattato di organizzare l’espatrio e l’accoglienza di dieci suore afghane, disposto d’intesa col contingente americano. Non a caso, peraltro. Perché oltre che alla sua conoscenza profonda dell’Afghanistan, per aver guidato il Comando regionale occidentale con centro a Herat, ciò su cui Portolano fa affidamento in queste ore è la sua confidenza diretta con molti dei vertici dell’esercito Usa impegnati a Kabul: gente con cui il generale si chiama per nome, spesso, il che aiuta a velocizzare procedure altrimenti complicate. 
 

E insomma sarà per questo che in parecchi lo accreditano come candidato d’obbligo al ruolo di capo di stato maggiore dell’Esercito, se davvero, come sembra, in autunno Pietro Serino dovesse essere a sua volta promosso ai vertici della Difesa. E, per uno strano incrocio di destini, i meriti di Portolano potrebbero essere comparati, e pesati, insieme a quelli di quel Francesco Paolo Figliuolo con cui ha a lungo collaborato, nei mesi passati, per allestire il piano vaccinale.
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.