Il presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati (foto Ansa)

Il caso

Il Senato è un Bengodi: applica la Fornero ai funzionari, ma li ricompensa con aumenti a pioggia

Salvatore Merlo

Commessi, operai, personale di segreteria e documentaristi avranno un triplo beneficio economico per andare in pensione a 67 anni. Uno spaventoso esborso di denaro pubblico utilizzato per fossilizzare una classe di funzionari vecchissima

Il 6 luglio è stata siglata una bozza di nuovo contratto per i dipendenti del Senato. A breve ci sarà la ratifica dell’ufficio di presidenza e la contestuale fanfara dei politici, in linea con la retorica anticasta (che spesso nasconde il contrario): finalmente anche ai dipendenti del Senato della Repubblica viene applicata integralmente la riforma previdenziale della signora Elsa Fornero. Orbene, qualcuno potrà anche chiedersi come mai non fosse stato fatto prima, cioè nel 2011, quando è toccato a tutti gli italiani normali. Ma tant’è.

Il testo consta di quattro articoli e circa nove commi dai quali si desume che la riforma Fornero, ispirata a un principio di sostenibilità dei conti, viene invece applicata al Senato secondo un principio di allegria dei conti.  E infatti vengono introdotte notevoli compensazioni economiche garantite a tutti in cambio del “sacrificio” chiesto alla gran parte dei dipendenti che andranno in pensione più tardi. Commessi, operai, personale di segreteria e documentaristi del Senato avranno un triplo beneficio economico per andare in pensione a 67 anni:  “una indennità equiparata a quella di Responsabile Unità Operativa” (tra i 300 e gli 800 euro al mese, su sedici mensilità); un aumento composto di retribuzione del 2 per cento annuo da subito; un ulteriore aumento composto del 2 per cento annuo per ogni anno di lavoro in più rispetto  a quanto previsto dalle norme precedenti. Aumento questo che sale al 3 per cento annuo per tutti gli assunti prima del 1997. Medesimo trattamento anche per i funzionari e i dirigenti ai quali però non viene attribuita l’indennità di unità operativa. Considerato che un dirigente  con circa 25 anni di anzianità - cioè i tre quarti dei funzionari - ha uno stipendio medio di 300 mila euro l’anno (i più anziani sfiorano i 400 mila e qualcuno li supera), l’impatto di questi aumenti sui bilanci del Senato (che paga anche le pensioni) è evidente. Altro che Fornero. E qui la domanda, come diceva il saggio, sorge spontanea: che senso ha? A che serve? Può a questo proposito tornare utile dire che gli ispiratori sono la presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati, il vicepresidente Roberto Calderoli e il Segretario generale Elisabetta Serafin che, legatissima alla Casellati, si stava avvicinando alla pensione ma ora è a un passo da un obiettivo a lungo inseguito: restare in carica fino a 67 anni. I dipendenti  felici e ben ricompensati. Dunque tacciono. Ma il risultato è uno spaventoso esborso di denaro pubblico utilizzato non per bandire concorsi ma per fossilizzare una classe di funzionari vecchissima (età media 50 anni) e sotto organico. Surreale, mentre fuori si fa la riforma della Pa

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.