il foglio del weekend

Le venerate correnti del Pd

Francesco Cundari

Mutano e si moltiplicano, addirittura si sovrappongono. Da quella di Bettini a quella della Ascani, la tradizione dei dem ha radici lontane

Molti hanno ironizzato sulla bizzarra concatenazione dei fatti, a partire dal discorso di insediamento di Enrico Letta alla guida del Partito democratico e dalle sue reiterate dichiarazioni contro il male oscuro delle correnti, seguite dalla nascita di ben tre correnti nuove di zecca. Una delle quali ha avuto anche l’onore di un intervento dello stesso Letta all’iniziativa di presentazione del suo manifesto fondativo: “Le Agorà” di Goffredo Bettini. “Le” e non “la”, tanto per complicare ulteriormente il già durissimo compito dello scrupoloso cronista, e forse anche per non confondersi con la trasmissione televisiva omonima (al singolare), o magari per coerenza con l’autodefinizione di “area di pensiero plurale”. Perché la primissima dichiarazione di ogni capocorrente che si rispetti, all’atto stesso di inaugurare la sua nuova corrente, è sempre quella: “Non è una corrente”. 


Le altre due non-correnti di più recente fioritura, stando a quanto riporta un’Agi di martedì 25 maggio, sarebbero “Prossima, nata dall'iniziativa, fra gli altri, di Marco Furfaro e Nicola Oddati; ed Energia Democratica di Anna Ascani”. Siccome però la corrente di Ascani era in vita già da qualche anno, è verosimile che l’agenzia abbia confuso Energia democratica di Ascani con Rigenerazione democratica di Paola De Micheli, che è effettivamente nata da poco più di un mese, e proprio sul Foglio ha lanciato il suo manifesto incentrato sulla ricerca di un “Nuovo umanesimo”. Ma non è colpa dei giornalisti. Il fatto è che parliamo di un ginepraio in cui anche google è di scarsissimo aiuto. 


Alle ore 19 e 55 di giovedì 27 maggio 2021, le correnti del Partito democratico censite dalla relativa pagina di Wikipedia risultano essere undici. Ma è una stima largamente approssimata per difetto, e non solo perché, come dice il sito, la voce “non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti”, quanto perché “uno stesso esponente democratico può essere iscritto a più fondazioni e associazioni, così come queste ultime spesso iscrivono anche soggetti esterni al Pd”. 

 

La primissima dichiarazione di ogni capocorrente, all’atto stesso di inaugurare la sua nuova corrente, è sempre: “Non è una corrente”


In altre parole, vale per le correnti di partito quello che, nella Seconda Repubblica del bipolarismo maggioritario, vale per i partiti di una stessa coalizione: non sottostanno alle leggi della fisica newtoniana. Un esponente del Pd può cioè fare parte, contemporaneamente, di due diverse correnti, con distinti e anche opposti obiettivi politici, senza tuttavia che sia possibile determinare con precisione quando le sue posizioni rispecchino quelle dell’una o quelle dell’altra. 


Esattamente come per lo studioso che volesse fare la storia, per esempio, delle oscillazioni di Clemente Mastella tra centrodestra e centrosinistra, anche per studiare le correnti del Pd occorre tenere conto del principio di indeterminazione di Heisenberg, fondamento della meccanica quantistica. Dunque, si può parlare al massimo della probabilità di ritrovare il singolo politico-elettrone, in un dato momento, entro una certa orbita, tenuto conto di alcuni fattori di attrazione quali la prossimità al governo o alla segreteria del partito, l’imminenza di una campagna elettorale o di una importante tornata di nomine.


Di qui il problema più arduo, quello delle duplicazioni, che rende aleatorio e in pratica arbitrario qualunque conteggio, ed è anche il motivo per cui nella suddetta pagina Wikipedia, pure aggiornatissima, non si trova traccia della Rigenerazione democratica di De Micheli, forse perché considerata parte integrante di Prossima, e nemmeno delle Agorà bettiniane (ragion per cui, se non ci preoccupassimo del problema delle sovrapposizioni quantistiche, il totale delle correnti sarebbe già arrivato a tredici). 

 

Tipico esponente della corrente lettiana, all’uscita di scena di Letta Francesco Boccia diventa il principale esponente della corrente di Emiliano


Esemplare, da questo punto di vista, il percorso di Francesco Boccia. Tipico esponente della corrente lettiana, quella più a destra nel Pd delle origini, due volte candidato dei riformisti alle primarie pugliesi contro il più radicale Nichi Vendola – al tempo Boccia è lanciato in particolare da Massimo D’Alema proprio come il tecnico, l’economista competente e pragmatico, quasi un giovane Mario Monti da contrapporre al populismo di Vendola, che pure lo batterà entrambe le volte, nel 2005 e nel 2010 – all’uscita di scena di Letta diventa il principale esponente della corrente di Michele Emiliano, vale a dire la più populista e filo-grillina. Anche perché nel frattempo l’odiato Matteo Renzi ha scalzato Letta non solo dal governo, ma anche dall’area riformista, che ha occupato interamente. Ed ecco che al ritorno dell’ex presidente del Consiglio dal suo esilio parigino per assumere la guida del Pd Boccia è di nuovo al suo fianco in segreteria: in quota Emiliano o in quota Letta? In quanto riformista liberale o in quanto ex ministro del governo Conte e ultrà dell’alleanza giallorossa? Impossibile dirlo. 


Del resto, considerando le mosse del nuovo segretario del Pd, chi può dire se sia Boccia a essere tornato sulla linea Letta o se invece sia Letta a essere venuto sulla linea Boccia? 


Non dipende semplicemente dai punti di vista, dipende proprio dall’osservatore, che non può non influire sull’oggetto dell’osservazione: com’è infatti scontato che tutti i dirigenti nominati fino a questo momento smentirebbero con sdegno di avere mai preso parte ad alcuna corrente (al massimo, sarebbero capaci di dire, a una “corrente di pensiero”) è probabile che Boccia rifiuterebbe per sé la definizione di populista e rivendicherebbe quella di riformista. Qui però siamo oltre il principio di indeterminazione, e l’onesto studioso non può che alzare le mani, per ammirare in silenzio la misteriosa danza cosmica in cui tutte le correnti del Pd s’intrecciano e si confondono dentro un vortice in cui è impossibile stabilire dove siano destra e sinistra, alto e basso, centro e periferia. 

 

Non è questione di personalismi. La corrente liofilizzata è l’altra faccia del partito liquido, conseguenza del tramonto della Prima Repubblica


Non è questione di personalismi. La corrente liofilizzata è l’altra faccia del partito liquido, conseguenza della liquidazione della politica al tramonto della Prima Repubblica. Quando i partiti erano solidi e duravano decenni – ed erano dunque i partiti, col passare delle generazioni, a cambiare gruppi dirigenti, e non il contrario, come avviene oggi – le correnti ne costituivano l’anima, ed era un’anima d’acciaio.
Era così persino in un partito come il Pci, dove la sola parola “corrente” era impronunciabile (e per molti, come si è visto, tale resterà anche dopo la fine del comunismo). Dove il momento di massimo dissenso pubblico, ancora oggi ricordato come un atto di rottura clamoroso, era l’incipit di quell’intervento dal palco dell’XI congresso, nel 1966, in cui Pietro Ingrao, anziché esordire con il rituale “condivido la relazione del segretario”, scandiva: “Non sarei sincero, compagni, se dicessi a voi che sono rimasto persuaso”. Dove lo scontro tra le correnti era anche uno tra diverse visioni del “neocapitalismo”, e si articolava in furiose discussioni su programmazione, riforme di struttura e nuovo modello di sviluppo, e sulla stessa questione della pubblicità del dissenso nel partito. 


Alla sconfitta di Ingrao, ricorderà Rossana Rossanda, al termine del congresso seguirà “lo sterminio dei sospettati di `ingraismo': io ero già stata sospesa dalla commissione culturale, Magri veniva messo fuori dall’apparato, Castellina separata dai suoi incarichi, Natoli isolato a Roma e Pintor, che non aveva taciuto a l’Unità, fu mandato al confino in Sardegna”. Qualche anno dopo, per la precisione nel 1969, si ritroveranno tutti attorno alla rivista (e poi quotidiano) il Manifesto, ragion per cui dal Pci saranno radiati con l’accusa di “frazionismo” (cioè, come diremmo oggi, correntismo).


Sebbene la parola corrente non si potesse nemmeno pronunciare, insomma, i confini erano netti, e anche ben sorvegliati. Chi stava con Giorgio Amendola, il principale avversario di Ingrao all’XI congresso, certo non poteva venire confuso con gli ingraiani. Così come, nella Dc, sarebbe stato assai arduo confondere Luigi Gedda, il capo dei comitati civici della crociata anticomunista del ’48, e Giuseppe Dossetti, il leader della sinistra democristiana, già presidente del Cln di Reggio Emilia. O Mario Scelba e Giorgio La Pira, il ministro degli Interni di un tempo in cui la polizia non esitava a sparare sui cortei dei lavoratori, e il “sindaco santo” che a Firenze andava ad assistere alla messa nelle fabbriche occupate, schierandosi con gli operai.  


Certo, erano altri tempi, e altre persone. E bisogna anche guardarsi, sempre, dalla sciocca e superficiale idealizzazione del passato. Non è che nella Democrazia cristiana, per fare un esempio, fossero tutti come Alcide De Gasperi e Giuseppe Dossetti. Nondimeno fa un certo effetto leggere le lettere che si scambiavano, in quel 1949  segnato dalle tensioni dell’incipiente Guerra fredda, il presidente del Consiglio e segretario della Dc da un lato, dall’altro il leader della corrente che più gli dava filo da torcere. Con Dossetti a scrivere: “Devi credermi se ti dico che corrisponderebbe molto di più ai miei desideri e al mio istinto rinunziare a qualche piccola, e per lo più vana, protesta, pormi in una linea di piena e cordiale conformità, trovare così – perché penso che non mi sarebbe difficile – il conforto di un consenso affettuoso di tutti gli amici e forse la soddisfazione di un qualche incarico che utilizzasse il mio tempo e la mia capacità di lavoro. Sarebbe molto più simpatico e molto più facile. Ma, temo, sarebbe la via dell’istinto e non quella del dovere”. E con De Gasperi a replicare: “Sarei felice se mi riuscisse di scoprire ove si nasconda la molla segreta del tuo microcosmo, per tentare il sincronismo delle nostre energie costruttive. Ma ogni volta che mi pare di esserti venuto incontro, sento che tu mi opponi una resistenza che chiami senso del dovere. E poiché non posso dubitare della sincerità di questo tuo sentimento, io mi arresto, rassegnato, sulla soglia della tua coscienza”.

 

Era così persino in un partito come il Pci, dove la sola parola “corrente” era impronunciabile e lo scontro era anche tra diverse visioni del “neocapitalismo”


Certo che non erano e non parlavano tutti così, né allora né in seguito, né nella Dc né negli altri partiti. Non mancavano, neanche allora, e forse allora anche più di oggi, gli esagitati e i fanatici. E nemmeno i cretini.


Nel pieno della Guerra di Corea, al termine di uno scontro in Aula particolarmente violento tra democristiani e comunisti sulla scottante questione dello scambio di prigionieri, il parlamentare dc e direttore del Popolo, Mario Melloni, aveva ricevuto un biglietto dal collega comunista Gian Carlo Pajetta che recitava così: “Caro Melloni, perché non facciamo uno scambio di cretini?”. Qualche tempo dopo, invece, sarà lui a consegnarsi, con un clamoroso cambio di campo, dalla Dc al Pci, e proprio per il suo dissenso sulla politica dei blocchi. In particolare, decisivo sarà il suo voto contrario all’Unione europea occidentale, che avrebbe consentito il riarmo della Germania (dopo la seduta, racconterà, “Fanfani mi cacciò in venti minuti”). 


E già solo questo, l’idea che si potesse lasciare un partito per una questione di politica internazionale, dà il senso di un passato lontanissimo, come un vecchio film in bianco e nero. 


Melloni, con lo pseudonimo di Fortebraccio, diventerà il più feroce corsivista dell’Unità, da dove metterà alla berlina buona parte dei suoi ex compagni di partito, a cominciare ovviamente da Amintore Fanfani, risparmiandone però alcuni altri, ai quali continuerà anzi a manifestare stima, come Aldo Moro e Giulio Andreotti. A conferma del fatto, come ha scritto Marco Damilano, che i partiti si potevano cambiare, ma gli odi di corrente rimanevano.


E questo, nonostante la mutevolezza delle aggregazioni, delle scomposizioni e delle ricomposizioni nei partiti di oggi, è paradossalmente l’unico dato a essere rimasto costante.

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