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Discutere e rifondare

Manifesto per un nuovo Pd

Michele Salvati

“Se non ora, quando?”: più di trent’anni dopo la sua proposta di un congresso straordinario e di un cambio di nome (da Pci a Pds), Michele Salvati chiede un reset, per ricomporre le divisioni in un unico partito liberale di sinistra

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Nell’estate del 1989 il collasso dell’Unione sovietica era imminente e la stessa tradizione riformista del Pci era a rischio. Insieme a Salvatore Veca (io non ero mai stato iscritto a quel partito, proprio per il suo legame con l’Unione sovietica) mandammo a Rinascita un articolo che venne pubblicato col titolo “Se non ora, quando?” e con un commento rispettoso ma negativo di Fabio Mussi. In esso proponevamo un congresso straordinario e un cambio di nome, da Partito comunista italiano a Partito democratico della sinistra, nome che dopo “la svolta” venne di fatto adottato.

 

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Queste vicende sono state rievocate di recente in molte pubblicazioni dedicate al centenario del congresso di Livorno e mi riconosco completamente nella ricostruzione di quella temperie presentata nei due libri di Claudio Petruccioli, sia quello scritto con Emanuele Macaluso (Comunisti a modo nostro, Marsilio), sia in Rendiconto, Nave di Teseo. Il titolo dell’ultimo capitolo, “Com’è difficile uscire dal Pci”, si attaglia perfettamente alla situazione odierna, se vi aggiungiamo una postilla dal titolo “e com’è difficile uscire dalla Dc”: l’“amalgama non riuscito” (copyright D’Alema), l’esito finale del processo, il Partito democratico, è stato infatti impastato con materiali comunisti e democristiani.

 

Insomma com’è difficile uscire dal passato. La situazione di crisi del Pd – oggi terrorizzato da un sondaggio Swg che lo dà al 14 per cento nel caso i Cinque stelle si presentino alle prossime elezioni sotto la guida di Conte, e lacerato da conflitti interni – è molto diversa da quella del Pci appena rievocata: raccomandare la stessa medicina di allora – un congresso ri-fondativo e un cambio di nome, per esempio in “Nuovo Partito Democratico” – può sembrare bizzarro: ma non sono ancora insenilito al punto di proporre una mia personale coazione a ripetere come ipotesi realistica e auspicabile. La propongo allora come semplice esperimento mentale perché, se fosse possibile e avesse un buon esito, ce ne sarebbe un gran bisogno: tutti coloro che litigano all’interno del Pd e tutti quelli che ne sono usciti, si definiscono come riformisti e anche come riformisti di sinistra. Riformismo e destra/sinistra sono però categorie usurate e conviene usarne altre, più chiare e discriminanti in un confronto internazionale che abbia come riferimento l’angolo di mondo in cui abbiamo la fortuna di vivere: un angolo composto da paesi ricchi, economicamente avanzati e retti da regimi liberal-democratici. In questi paesi i partiti riformisti di sinistra sono partiti che presentano due tratti essenziali.

 

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Sono partiti liberali e democratici – nel senso che si pongono l’obiettivo di rispettare e migliorare le istituzioni politiche liberali (Stato di diritto, Rule of Law) e democratiche (suffragio universale, diritto dei cittadini di organizzarsi senza impedimenti in partiti politici, governi legittimati da regole di maggioranza). E questo tratto è comune anche ai partiti liberal-democratici di destra. Dove destra e sinistra si dividono, anche se la divisione non è sempre chiara, è sulle implicazioni di una delle grandi libertà che il liberalismo proclama, la libertà economica: in particolare l’estensione dei diritti di proprietà e l’ampiezza della libertà d’impresa. Per i liberali di destra quell’estensione e quell’ampiezza devono essere le maggiori possibili e lo stato deve astenersi dall’interferire: anzi deve difendere e promuovere la rete di contratti privati che i cittadini e le imprese pongono in essere perché è da questi che discende il massimo benessere della comunità: un recente libro di Franco Debenedetti (Fare profitti, Marsilio) illustra questa posizione politica come meglio non si potrebbe. Per i liberali di sinistra, che pure sostengono proprietà privata e libertà d’impresa, la tesi che il massimo benessere collettivo coincida con la massima libertà d’impresa è smentita dai fatti e allo stato dev’essere riservato un ruolo maggiore nell’attività economica, sia per evitare gravi crisi e disfunzioni nella stessa economia, sia per limitare diseguaglianze distributive che porrebbero a repentaglio la stessa legittimità del capitalismo e produrre quelli che Polanyi chiamava “contro-movimenti”: partiti populisti e sovranisti, estremismi rivoluzionari di destra o sinistra.

 

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Naturalmente sia tra liberali di destra che tra quelli di sinistra ci sono diverse opinioni politiche, se non altro per diverse valutazioni della situazione concreta nella quale il governo si trova a decidere. E queste diverse valutazioni possono provenire da incompetenza, ignoranza, carattere personale, trascinamento più o meno consapevole di antiche divisioni ideologiche, o difficoltà effettive di decifrare le ripercussioni di una decisione di governo in un contesto di forte incertezza. Venendo al nostro caso, i dissensi interni al Partito democratico, quelli che hanno condotto alle dimissioni di Zingaretti, a me sembra che non mettono in discussione l’orientamento liberale di sinistra di tutti i litiganti, in particolare degli esponenti del gruppo dirigente del partito e di quelli di Base Riformista: detto in modo più consueto, mi sembrano tutte diverse varianti di riformismo “socialdemocratico”, che nell’ “amalgama mal riuscito” ci sono state sin dall’inizio, dovute in parte (ma in modo decrescente) alle diverse culture politiche dei due partiti d’origine, in parte maggiore da diverse analisi sulle difficoltà della sinistra nel nostro angolo di mondo, e in particolare nella situazione italiana.

 

Queste diverse analisi, e per conseguenza le diverse proposte che ne conseguivano, si sono poi impersonate in diverse fazioni politiche, estremizzatesi anche a seguito dell’irrompere nel partito dell’esuberante personalità di Matteo Renzi. Insomma, se i conflitti sono interni allo stesso orientamento politico liberal-democratico, quello che caratterizza la maggioranza delle forze politiche di sinistra nel nostro fortunato angolo di mondo, non c’è bisogno di ulteriori divisioni – come quelle che giustamente separano i liberali di sinistra da quelli di destra o, a maggior ragione, da quei movimenti populisti, sovranisti ed estremisti che rifiutano le stesse premesse della liberal-democrazia. C’è solo bisogno di un impegnativo reset del partito. Anzi, c’è bisogno che molte delle divisioni che ci sono già state si ricompongano sotto la “grande tenda” (copyright Cerasa) di un unico grande partito liberale di sinistra che possa realisticamente aspirare ad una vocazione maggioritaria, all’obiettivo di governare il paese.

 

Cruciale mi sembra, in questa operazione di reset, un’analisi condivisa di questa fase del capitalismo e agli invecchiati democratici che furono membri attivi del Partito comunista l’espressione “analisi della fase” dovrebbe evocare il ricordo della loro originaria formazione: l’unica “piccola” differenza è che questa analisi non si chiuderebbe con una crisi generale del capitalismo e l’avvento del socialismo, ma con la possibilità di una evoluzione delle istituzioni economiche e politiche della liberal-democrazia in una direzione più favorevole alla grande maggioranza dei cittadini. Da più di un secolo, da Eduard Bernstein in poi, questo è il credo politico del socialismo liberale, che nel nostro paese ha avuto una delle sue espressioni politiche più alte in Carlo Rosselli. Zingaretti si indigna che si discuta solo di poltrone e primarie (che poi mi sembrano due cose piuttosto diverse) mentre la gente muore di Covid. Ma questo è la conseguenza di una discussione che non c’è mai stata, dell’illusione di gran parte del gruppo dirigente del Pd che sia possibile affrontare il futuro con gli occhi rivolti al passato, della nostalgia del grande partito e del grande sindacato che, uniti, organizzavano grandi masse omogenee di lavoratori.

 

Non credo che gli esponenti di Base Riformista siano più insensibili alle sofferenze dei cittadini italiani di quanto lo sono Zingaretti, Bettini o Franceschini. Insomma. Con la globalizzazione e le rivoluzioni tecnologiche maturate negli ultimi trent’anni, con le trasformazioni sociali e culturali che a esse hanno fatto seguito, sognare un ritorno al “mondo di ieri” (quello di Zweig è il mondo dell’altro ieri, visto con gli occhi di un intellettuale borghese), un ritorno al mondo di grandi partiti di massa e grandi sindacati uniti nella lotta per un futuro migliore, condanna i partiti liberal-socialisti alla sconfitta, e questo proprio mentre lo stesso liberalismo di destra, il “neoliberismo”, dopo trent’anni di dominio è in crisi profonda e si aprono grandi possibilità per i partiti che si pongono l’obiettivo di invertire l’oscillazione del pendolo. Di qui il bisogno di un congresso rifondativo, preparato da una approfondita discussione tra tutte le forze politiche e intellettuali vicine agli ideali del socialismo liberale.

 

Non credo che la breve sospensione della lotta politica che ci darà il governo Draghi – peraltro interrotta da urgenze elettorali impegnative – offrirà il tempo e la calma necessari a una riflessione approfondita. Draghi assolverà, come meglio può, i tre compiti più urgenti che gli sono stati affidati dal presidente della Repubblica – il disegno di un Piano nazionale accettabile dall’Unione europea, l’emergenza Covid e le vaccinazioni, i sostegni (ex-ristori) per alleviare le sofferenze di una parte molto ampia delle imprese e delle famiglie. Il suo discorso di investitura contiene indicazioni importanti sui problemi, drammatici, che il nostro paese dovrà affrontare in seguito, ma la prima parte del suo compito si chiuderà con l’elezione del presidente della Repubblica e le probabili elezioni politiche, immediatamente successive. La responsabilità di un partito politico è quello di aggiustare continuamente la barca mentre sta navigando e non può concedersi il lusso di sospendere la navigazione per discutere in modo approfondito sulla rotta da seguire.

 

Se i “barbari” della destra saranno abbastanza credibili nel loro affrettato processo di “romanizzazione” – fuor di metafora, se accetteranno una piattaforma europeista e liberaldemocratica – e se i Cinque stelle, sotto la direzione di Giuseppe Conte, faranno ulteriori passi nella stessa direzione, nelle prossime elezioni potremmo avere un confronto tra una destra e una sinistra liberali (o quasi), cosa mai vista nel nostro paese: questo è il mio sogno. E nel caso, che ovviamente non auspico, di una vittoria della destra, la sinistra liberale avrà tutto il tempo per discutere a fondo sulla rotta da seguire, per ampliare la sua tenda e renderla confortevole per tutte le forze che ospiterà.

 

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