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La Draghi connection

Marco Cecchini

È riservato, inaccessibile, imperscrutabile. Ma ha una rete di relazioni (e di nemici) che ci dice molto su chi è davvero e su chi può fare affidamento. Antagonisti, amici, politici, élite, frizioni tedesche, sponde americane, sostegni francesi. Un’inchiesta (con nomi) sul network del neo premier

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Al culmine della crisi dell’euro nel torrido luglio del 2012, Mario Draghi si consultava con personaggi di varia estrazione e cultura, frutto di relazioni maturate nel corso di una lunga carriera. Erano il fondatore della società di gestione Bridgewater, Ray Dalio, e la mente di BlackRock (quasi 8 mila miliardi di dollari di patrimonio gestito), Larry Fink; conoscenze che gli venivano dal periodo trascorso ai vertici di Goldman Sachs e che ora risultavano preziose per “interpretare” i mercati in subbuglio. Era l’economista Larry Summers, ex segretario al Tesoro di Bill Clinton ed esponente di spicco della comunità accademica harvardiana e internazionale. Super Mario telefonava a Stanley Fischer, compagno di studi americani e banchiere centrale, a Francesco Giavazzi, brillante economista e amico fidato con cui gli scambi di idee sono sempre stati molto frequenti. Chiamava il filosofo francese Alain Minc, consigliere politico ed economico di capi di stato, ex manager della finanziaria Cerus di Carlo De Benedetti negli anni Ottanta, editorialista, scrittore (Il nuovo Medioevo, La grande illusione), snodo di collegamento ombra e suggeritore di presidenti come Nicolas Sarkozy ed Emmanuel Macron.

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Al culmine della crisi dell’euro nel torrido luglio del 2012, Mario Draghi si consultava con personaggi di varia estrazione e cultura, frutto di relazioni maturate nel corso di una lunga carriera. Erano il fondatore della società di gestione Bridgewater, Ray Dalio, e la mente di BlackRock (quasi 8 mila miliardi di dollari di patrimonio gestito), Larry Fink; conoscenze che gli venivano dal periodo trascorso ai vertici di Goldman Sachs e che ora risultavano preziose per “interpretare” i mercati in subbuglio. Era l’economista Larry Summers, ex segretario al Tesoro di Bill Clinton ed esponente di spicco della comunità accademica harvardiana e internazionale. Super Mario telefonava a Stanley Fischer, compagno di studi americani e banchiere centrale, a Francesco Giavazzi, brillante economista e amico fidato con cui gli scambi di idee sono sempre stati molto frequenti. Chiamava il filosofo francese Alain Minc, consigliere politico ed economico di capi di stato, ex manager della finanziaria Cerus di Carlo De Benedetti negli anni Ottanta, editorialista, scrittore (Il nuovo Medioevo, La grande illusione), snodo di collegamento ombra e suggeritore di presidenti come Nicolas Sarkozy ed Emmanuel Macron.

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Uomini del mercato finanziario, accademici, esponenti delle istituzioni, filosofi. Draghi aveva costruito questi rapporti nel tempo perché pensava che personalità dalle esperienze multiformi potessero offrire sempre spunti utili per capire le grandi tendenze dietro agli eventi contingenti. Quello era il momento di consultarli. 

   
L’uomo più riservato d’Italia è un signore che nella sua lunga e variegata storia professionale ha accumulato, per scelta o per necessità, una quantità di relazioni senza precedenti, dentro ma soprattutto fuori del paese. Super Mario è un membro dell’élite internazionale al centro di una fitta rete fatta di rapporti sapientemente costruiti e perlopiù sfociati in consuetudine e amicizia, ma nella quale è finito inevitabilmente anche qualche “nemico” con cui ha dovuto confrontarsi. Banchieri come Robert Rubin, governatori di istituti centrali come Ben Bernanke, segretari al Tesoro di recente nomina come Janet Yellen, imprenditori italiani come Yaki Elkann, il nipote di Gianni Agnelli con cui pure era stato in contatto ai tempi del Tesoro, manager come Paolo Scaroni, ex presidente Eni oggi al vertice di Rothschild Italia: questi sono solo alcuni esempi della vasta rete del neo premier – rete a cui bisogna poi aggiungere anche altri nomi che a vario titolo possono vantare una non estraneità, diciamo così, con il nuovo presidente del Consiglio: Dario Scannapieco, vicepresidente Bei, ex membro Consiglio degli esperti del Tesoro, Antonino Turicchi, tra i giovani Draghi boys ora amministratore delegato di Fintecna, Roberto Ulissi, giurista al Tesoro negli anni 90 poi passato all’Eni, Ignazio Angeloni, braccio destro alla Bce, ex Bankitalia ora ad Harvard.

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Stati Uniti, Francia e Germania, l’ordine non è casuale, sono oltre all’Italia i paesi nei quali la rete si è più sviluppata. Quando andò a occupare la stanza di direttore generale al ministero del Tesoro nella primavera del 1991 Draghi si rese presto conto che l’ufficio di fronte al suo, destinato al responsabile delle Partecipazioni, e quello a pochi metri dal suo, dove stava il responsabile delle relazioni internazionali, avrebbero potuto rappresentare due formidabili incubatori di contatti interni ed esterni, due piattaforme di rapporti sulle quali costruire una carriera all’altezza degli insegnamenti dei padri gesuiti del liceo Massimo, una carriera cioè volta alla formazione di un leader al servizio degli altri, come recita ancora oggi la brochure di quel liceo, Ora l’attuale presidente del Consiglio, grazie anche a questo capitale di relazioni e a prescindere da qualunque giudizio positivo o negativo si voglia dare sul suo operato nei diversi ruoli coperti, è il connazionale che gode del massimo prestigio nel mondo, anche se certamente non è l’unico a essere apprezzato. 

    
Oggi in Italia nei confronti dell’ex presidente della Bce una certa agiografia giornalistica e la piaggeria che sempre circonda chi detiene le leve del potere convivono con manifestazioni di preconcetta ostilità verso il Draghi banchiere. E’ la Germania il paese nel quale Draghi, nella sua veste di capo dell’Eurobanca, ha raccolto le critiche più aspre e diffuse. Gli otto anni trascorsi a Francoforte sono stati per lui da questo punto di vista un calvario che ha messo alla prova i suoi nervi e le sue capacità di freddo incassatore

      

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La stima e le insidie tedesche. I tentennamenti del Pd, la ruggine con D’Alema, la sintonia con Letta: in Italia l’allievo di Federico Caffè paradossalmente ha punti di riferimento più solidi nel centrodestra 

    

La Bundesbank e la comunità accademica ad essa vicina gli sono state nemiche, mentre la stampa e larghi pezzi della politica dopo una iniziale luna di miele gli rimproveravano di avere trasformato la Bce in una banca al servizio dei paesi del Sud Europa. Una accusa bruciante. Il capo della Banca centrale tedesca, Jens Weidmann, e Draghi non si sono mai piaciuti e col tempo anche il loro rapporto personale è diventato gelido. Troppi erano i guanti di sfida lanciati dal banchiere tedesco contro di lui, uno su tutti la testimonianza contro le politiche della Bce di Draghi resa di fronte alla Corte costituzionale di Karlsruhe. Con Weidmann Super Mario ha perfino rinunciato per esaurimento a esercitare la sua collaudata capacità di persuasione (“Quando la fede si scontra con i fatti, i fatti non hanno chance”, commentava su Die Zeit). Alla fine derubricava gli attacchi di Weidmann cui si associava talvolta il ministro delle Finanze, Wofgang Schäuble, a “legittime divergenze di vedute”. Se lo poteva permettere anche perché aveva gli amici francesi nel board e nel frattempo grazie ai buoni uffici di Jörg Asmussen, membro tedesco del comitato direttivo incaricato dei rapporti internazionali, grande estimatore e amico di Draghi, aveva stabilito un rapporto con la cancelliera Angela Merkel. All’inizio gli incontri riservati con Merkel erano intermediati da Asmussen, poi la relazione è diventata diretta. La cancelliera ha grande stima e rispetto per Draghi. L’ex presidente della Bce e Merkel d’altra parte sono per certi versi simili: ambedue rifuggono il conflitto aperto e cercano l’intesa con l’interlocutore, la loro visione si misura sui tempi lunghi e la massima inclusione. E’ grazie alla copertura della cancelliera se Draghi ha potuto salvare l’euro. Un capolavoro di diplomazia. Con l’uscita di scena di Merkel a fine anno Draghi dovrà cercare di stabilire un analogo rapporto con il suo successore. Ma Weidmann l’eterno nemico è sempre lì.

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Diversamente dalla Germania, in Italia gli antagonisti visibili di Draghi non sono nelle istituzioni, si annidano piuttosto nella nebulosa degli anti sistema, nei politici come Alessandro Di Battista e in alcuni settori del Movimento 5 stelle che lo hanno attaccato non tanto per le sue politiche finanziarie ma per la sua partecipazione al convegno del 1992 sul Britannia nel quale l’industria nazionale sarebbe stata svenduta al capitale straniero: una incredibile fake news alimentata dagli amanti dei complotti attivi sul web, ma una fake che come un fiume carsico riemerge sui social a intervalli regolari.

 

L’Italia è anche il paese in cui la politica prova ambigui sentimenti di ammirazione e nello stesso tempo di sospetto nei confronti dei tecnici, soprattutto se questi sono rappresentati da un esponente dell’élite finanziaria internazionale. Da questo punto di vista hanno destato una certa sorpresa i tentennamenti del Pd e di Leu nella decisione di sostenere il nuovo governo di unità nazionale voluto da Sergio Mattarella. Dopo molte incertezze, il sì degli Zingaretti e dei Bersani è arrivato. Eppure c’è stato uno iato tra l’adesione convinta di Forza Italia e Lega (nel secondo caso dopo rapida conversione) al nuovo esecutivo, istituzionale e repubblicano nello spirito, e la lenta marcia di avvicinamento del Pd e di Leu che fino all’ultimo avevano scommesso su un nuovo incarico a Giuseppe Conte per risolvere la crisi. Il presidente del Consiglio si è autodefinito in una storica intervista al settimanale tedesco Die Zeit un “socialista liberale”, implicitamente ricollegandosi al pensiero riformista del suo maestro Federico Caffè. In quanto tale avrebbe dovuto essere accolto a braccia aperte. Ma così non è stato. 

  
Sarà perché nel Pd brucia l’esperienza dei governi tecnici che ha sostenuto senza trarne particolari vantaggi in termini di consenso, sarà perché il governo tecnico interrompe i progetti di aggregazione di forze diverse, sarà perché era in crescita l’influenza di Massimo D’Alema, consigliere ascoltato del premier nell’ultima fase di governo nel bunker e certo non un amico di Mario Draghi. Tra D’Alema e Draghi restano le scorie di un vecchio scontro frontale sulla vicenda Telecom. Era il 1999 e il lider maximo era presidente del Consiglio. Un gruppo di imprenditori guidati da Roberto Colaninno voleva scalare a debito la Telecom, all’epoca un vero gioiello delle telecomunicazioni. Il presidente di Telecom Franco Bernabè resisteva e aveva organizzato una operazione antiscalata da decidere in una assemblea per la cui validità era necessaria la partecipazione dell’azionista Tesoro. D’Alema voleva che il Tesoro si astenesse dal partecipare in modo da far fallire l’operazione antiscalata. Draghi, all’epoca direttore generale del Tesoro, pretese che la decisione di astenersi gli fosse imposta con una “lettera di istruzione politica”. Pochi mesi dopo D’Alema suggerì il nome di Draghi come successore di Cuccia al vertice di Mediobanca. Super Mario era diventato ingombrante. Ma i fatti avrebbero dato ragione a Draghi. Telecom non si sarebbe mai liberata del debito accollatale dagli scalatori e avrebbe dovuto nuotare nelle difficoltà dove si trova tuttora.

   
Paradossalmente Draghi sembra avere punti di riferimento più solidi nel centrodestra, salvo sorprese sempre possibili in un sistema fluido come quello italiano. L’uomo conosce bene le dinamiche della politica. Essendo stato direttore generale del Tesoro, avendo varato il secondo maggiore piano di privatizzazioni al mondo, contribuito all’ingresso dell’Italia nell’euro, governato la Banca d’Italia e quella europea, non può non conoscerle. Della politica conosce le dinamiche e gli uomini. Romano Prodi che è stato premier due volte dice che non puoi fare il presidente del Consiglio a Roma se non hai un buon rapporto con Gianni Letta. Draghi ce l’ha. Nel 2005 Letta lo ha sostenuto, d’accordo Silvio Berlusconi e Carlo Azeglio Ciampi, allora presidente della Repubblica, per la nomina a governatore della Banca d’Italia in sostituzione di Antonio Fazio travolto dagli scandali bancari. Nel 2011 ne ha appoggiato, sempre con Berlusconi, la candidatura al vertice della Bce. Letta ha uno stile moderato, in punta di piedi verrebbe da dire, amabile, che a Draghi piace. Draghi viceversa ha doti di competenza e diplomazia apprezzate da Letta. Ambedue sono stati a Goldman Sachs, Letta come consulente e Super Mario come vicepresidente per l’Europa. Nel governo oggi presieduto da Draghi siedono non a caso tre ministri di Forza Italia di rito lettiano, moderati, centristi, europeisti. Draghiani insomma.

 

Un altro importante punto di riferimento per Draghi nel fianco di centrodestra dello schieramento è Giancarlo Giorgetti. Il vicesegretario della Lega pur essedo cinquantenne è un parlamentare di lungo corso e conosce Draghi da tempo. Riservatissimo, non parla mai per slogan ed è stato il detonatore del cambio di linea della Lega sulla questione europea. Giorgetti sta tentando di avvicinare il partito al Ppe per dargli una collocazione più centrista, un’operazione che non può non trovare il gradimento convinto di Draghi, che lo ha voluto alla sua destra nel discorso di insediamento al Senato. Il legame tra i due si sta rinsaldando dopo l’ingresso dell’esponente leghista nel governo come ministro dello Sviluppo economico. Quando dopo le elezioni del 2018 lo spread saliva velocemente a seguito delle dichiarazioni anti euro degli “economisti” della Lega, Claudio Borghi e Alberto Bagnai, fu lui a chiederne la correzione dopo una telefonata con Draghi.

     

Bonino, Calenda e Renzi  tifosi accaniti. I rapporti di reciproca stima con Yaki Elkann e quelli consolidati negli anni con Amato, Prodi, Monti. La poca dimestichezza con gli attuali vertici delle parti sociali. Il sostegno del Financial Times. La visione dell’Europa condivisa con Macron. La confidenza con Janet Yellen, segretaria al Tesoro di Biden

  
Restando sul terreno politico e spostandosi verso il centro dello schieramento, il tasso di apprezzamento per il neo premier sale ancora. Emma Bonino, Carlo Calenda e Matteo Renzi sono tifosi accaniti, diversi tra loro ma accomunati dall’appoggio incondizionato al nuovo esecutivo. L’esuberanza dialettica di Calenda e Renzi – se dovesse essere confermata nella nuova stagione, cosa in realtà difficile – potrebbe non trovarsi in sintonia con il ragionare pacato del premier (galeotto fu per Renzi il suo arrivo in elicottero a Città della Pieve nel 2015). Per Bonino è diverso: è stata commissario europeo, è stata ai vertici di un partito come il Radicale per il quale, si dice, Draghi abbia avuto qualche simpatia grazie anche all’amicizia con Paolo Vigevano, ex parlamentare radicale e suo compagno di scuola. 

  
Nella navigazione del suo governo Draghi dovrebbe poter contare poi sull’appoggio dei mezzi d’informazione sui quali esercita una discreta influenza e ha parecchi estimatori. La maggior parte dei media gli ha sempre riservato un trattamento rispettoso e benevolo. Al suo ritorno a Roma i giornali, a parte quelli di destra, lo hanno accolto come si fa con un connazionale che si è fatto onore all’estero finendo talvolta per scadere anche in retorica celebrativa. L’immediato diffondersi al suo ritorno a Roma di voci su una sua possibile destinazione Quirinale, poi, non ha fatto altro che alimentare ulteriormente questa disposizione favorevole nei suoi confronti. In rapporti di reciproca stima con Yaki Elkann, oggi proprietario via Exor del gruppo editoriale Gedi (Repubblica, Stampa, Huffington Post) oltre che dell’Economist, per Draghi l’opinione dei media è importante e Super Mario si dedica personalmente alla cura della sua immagine. Telefona ai direttori delle principali testate e talvolta anche ai singoli redattori. Se qualcosa non va, non lesina dure critiche. Ma il favore dei media nazionali non è stato sempre ripagato. Negli anni di Francoforte Draghi ha cercato con successo l’appoggio dei quotidiani anglosassoni, uno su tutti il Financial Times, al quale ha concesso molte interviste. Così come ha fatto con i media tedeschi, sebbene con esiti meno favorevoli. I suoi contatti con l’editor del quotidiano della City Lionel Barber e commentatori come Martin Wolf e Gideon Rachman erano e sono frequenti. Il giornale britannico lo ha sostenuto sempre nella sua battaglia contro i falchi tedeschi all’interno della Bce e il suo appoggio è stato spesso decisivo. In otto anni a Francoforte Draghi ha concesso invece una sola intervista a un giornale italiano: il Sole 24 Ore. Chissà se anche oggi, nel suo nuovo ruolo di premier italiano, darà la sua prima intervista al Financial Times.

   
Tornando a Roma Draghi ha poi ritrovato gli esponenti del milieu politico culturale con cui ha lavorato e si è confrontato per un ventennio: Giuliano Amato, con cui nel 1992 diede avvio alla politica delle privatizzazioni e al risanamento delle finanze pubbliche; Romano Prodi, il premier della lunga e combattuta corsa per l’ingresso nell’euro; Mario Monti, che come presidente del Consiglio nel 2012 contribuì a creare le condizioni per il whatever it takes. E poi gli uomini della Banca d’Italia di Ignazio Visco, dalla quale ha subito prelevato l’amico Daniele Franco per portarlo alla guida del ministero dell’Economia, che nei programmi di Draghi avrà un ruolo strategico nel progetto per la messa in sicurezza del paese. Tutti uomini delle istituzioni questi, amici e nello stesso tempo studiosi con una proiezione internazionale, che hanno condiviso i valori della disciplina finanziaria e della modernizzazione del Paese in anni non sospetti, anche se non sempre il loro approccio ai problemi ha coinciso alla perfezione.  

 

Draghi conterà molto in particolare sull’aiuto della Banca d’Italia nella quale è di casa. Gli saranno preziose in particolare le analisi dell’Ufficio studi guidato da Eugenio Gaiotti e Andrea Brandolini. Ça va sans dire, il neo premier si aspetta anche che Via Nazionale faccia con il governo un gioco di sponda nel dibattito politico economico in modo da favorirne l’azione. Anche se va detto che Via Nazionale è restia a generare una eccessiva commistione tra il lavoro della Banca e quello del governo. Il fortino di Super Mario per prepararsi agli attacchi che inevitabilmente verranno è questo.

   
Draghi si è preparato bene all’appuntamento con la premiership senza trascurare neppure il lato sanitario dell’emergenza. Nei mesi scorsi anche nella sua qualità di membro della Pontificia accademia di Scienze sociali ha stretto i rapporti con lo staff dell’ospedale Gemelli di proprietà del Vaticano. E’ in contatto con il professor Luca Richeldi, ascolta le spiegazioni degli esperti, si forma un’opinione. In autunno ha partecipato anche al convegno romano della European Society of Cardiology. Resta un’incognita invece il rapporto con le parti sociali. Da quando il neo premier lasciò l’Italia quasi dieci anni fa molta acqua è passata sotto i ponti. Il presidente dell’Abi era ancora Giuseppe Mussari, leader e affossatore, come si scoprirà, del Monte dei Paschi. Nel mondo del credito il verbo era crescere per linee interne, accumulare sportelli sul territorio nazionale, la politica sotto sotto diceva ancora la sua nelle banche nonostante la moral suasion della Banca d’Italia. Al vertice di Confindustria c’era Emma Marcegaglia, espressione del tipico capitalismo familiare all’italiana. L’economia era in frenata e le imprese si sentivano penalizzate dall’alto costo del credito. Il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso si opponeva con Cisl e Uil a una riforma del mercato del lavoro secondo le linee indicate da Bruxelles e dalla Bce.

   

In dieci anni il mondo è cambiato e il ruolo dei sindacati e delle rappresentanze dei datori di lavoro si è ridimensionato, anche se rimane importante. Draghi ha poca dimestichezza con gli attuali vertici delle parti sociali. Dell’attuale leader della Confindustria, Carlo Bonomi, lo ha forse sorpreso l’endorsement pronunciato – in limine mortis si potrebbe dire – a favore di una riconferma dell’ex ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, politico dem di osservanza dalemiana con una valida esperienza di presidente di commissione al Parlamento europeo, firmatario di parecchi decreti Ristori, stimato da Draghi ma privo delle caratteristiche di un Daniele Franco. Dell’attuale presidente dell’Abi, Antonio Patuelli, un politico a lungo al vertice della Cassa di Ravenna ha una conoscenza superficiale. 

   
Confindustria e Abi hanno accolto con entusiasmo la formazione del nuovo governo e reagito positivamente alle indicazioni programmatiche del presidente del Consiglio in Senato. Ma Draghi ha idee molto chiare e obiettivi molto precisi: no ai sussidi a pioggia, sì a quelli erogati alle imprese che si riconvertono, sì alla difesa del lavoro, no a quella dei posti di lavoro, e poi concorrenza per liberare le energie dell’imprenditorialità più efficiente. Riuscirà il sistema italiano, ma in particolare le sue rappresentanze a reggere questa sfida a tratti dolorosa? Riusciranno le banche a dimenticare il Draghi che da governatore della Banca d’Italia liberalizzò il sistema di regolazione del credito dopo avere, come direttore generale del Tesoro, obbligato gli istituti a pubblicare gli emolumenti dei propri dirigenti?

  
In tutti gli anni della direzione generale del Tesoro quando viaggiava negli Stati Uniti, appena possibile Draghi non mancava di passare dal Mit, per uno scambio di idee con i vecchi amici che nel frattempo avevano guidato banche centrali o ministeri del Tesoro in giro per il mondo. Tutti esperti di area democratica, talora a mezza via tra banca e politica, come Robert Rubin, o accademici. Alzi la mano chi non crede che con Draghi a Palazzo Chigi e Joe Biden alla Casa Bianca si apra per l’Italia un’autostrada in direzione di Washington. Ce ne accorgeremo nei prossimi mesi a cominciare dalla nostra presidenza di turno del G20. In un mondo anche politicamente interconnesso la rete di relazioni internazionali di Super Mario è e resterà uno dei suoi più forti alleati nel cammino del governo.

   

Nel fatidico anno del salvataggio dell’euro furono Obama e il segretario al Tesoro, Tim Geithner, a sostenerlo e a incoraggiarlo ad assumere una iniziativa risolutiva. Janet Yellen, neo segretaria al Tesoro di Biden ed ex presidente della Federal Reserve è una vecchia conoscenza. In Europa sono stati i francesi nella Bce ed Emmanuel Macron dall’Eliseo ad appoggiarlo. La Francia del resto è uno snodo importante per il neo presidente del Consiglio. Nel 2011 Sarkozy fu un convinto sostenitore della candidatura di Draghi alla Bce, tanto da riceverlo all’Eliseo prima che la nomina fosse formalizzata. Ed Emmanuel Macron ha visto in Draghi l’alfiere di una visione dell’Europa simile alla sua arrivando in occasione della cerimonia di commiato dalla Bce a definirlo “degno erede dei Padri fondatori dell’Europa”.

 

Nel comitato direttivo della Bce Draghi poteva contare su Benoît Cœuré, responsabile delle operazioni di mercato, mentre nel Consiglio aveva (tranne nell’ultima fase) l’appoggio pesante del governatore della Banca di Francia, François Villeroy de Galhau. Amici, economisti che condividevano una visione flessibile della politica monetaria. Al Senato Draghi ha iscritto l’azione del governo nel quadro più ampio del processo di integrazione europea, di cui il Next Generation Eu è per il presidente del Consiglio il primo passo in direzione di rapporti tra stati sempre più stretti, di una sovranità condivisa che è la sola sovranità realisticamente possibile. Ha parlato di bilancio comune e di capacità finanziaria comune. Draghi sa che con l’uscita di scena di Angela Merkel e in attesa che il suo successore si materializzi, per l’Italia si aprono spazi nuovi per inserirsi da pari a pari come un cuneo nell’asse franco-tedesco. Super Mario è li che vuole arrivare ed è un’ambizione all’altezza del suo prestigio e della sua credibilità.

 

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