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Una fantastica dozzina

Finanze romane

Stefano Cingolani

Nati nella Capitale ma cosmopoliti, come Draghi. Sono la nuova élite politico-economica del Bel paese

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C’è stata l’èra dei torinesi che coincide grosso modo con la Destra al potere nel decennio dopo l’unità, poi quella dei siciliani garibaldini che con Francesco Crispi guidavano la Sinistra. Un altro piemontese come Giovanni Giolitti ha cercato di gestire la belle époque della società italiana aprendo spazio ai milanesi della grande industria e della Borsa. Bonaldo Stringher, il primo governatore della Banca d’Italia (allora si chiamava direttore generale) veniva da Udine. Il fascismo è calato da Milano e dalla pianura padana, con puntate toscane. Non si può dire, insomma, salvo poche eccezioni, che i romani abbiano dato un grande contributo al Regno d’Italia, né in politica né in economia e, siamo sinceri, nemmeno nell’arte e nella cultura in generale.

 

Sarà il retaggio del papato, sarà il non expedit che tenne lontani i cattolici, sarà quell’attonito sguardo che i cittadini dell’Urbe hanno gettato su se stessi e sulla storia dalla fine dell’Impero romano, ma anche la grande città del Rinascimento è stata edificata da non romani. La stessa effimera repubblica del 1849 che fece sognare gli uomini del Risorgimento, aveva alla guida un genovese come Giuseppe Mazzini e per braccio armato un nizzardo, Giuseppe Garibaldi, pur senza trascurare l’eroico ruolo di Carlo Armellini. La rinascita dopo la Seconda guerra mondiale si deve a un trentino che aveva studiato a Vienna, Alcide De Gasperi, in alleanza con l’industria del nord e le campagne del sud. Il centrosinistra degli anni Sessanta nasce dal ligure Valletta, dal romagnolo Nenni, dall’aretino Fanfani. Il compromesso storico è stato un patto tra il pugliese Moro e il sardo Berlinguer, poi arriva il siculo-milanese Bettino Craxi. L’unica eccezione, per quanto pregevole, è Giulio Andreotti. Quanto alla cosiddetta Seconda Repubblica, ha visto il duello tra il Cavaliere meneghino Silvio Berlusconi e il Professore emiliano Romano Prodi, nel disfacimento del sistema politico e dei “poteri forti” annidati nel Settentrione. 

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Ebbene, non è più così. Dopo la lunga e non rimpianta parentesi nazional-populista egemonizzata anch’essa dalle genti del nord e del sud, soprattutto Padania e Campania, ecco s’avanza una nuova élite tutta romana, romanissima, ma che della romanità così come viene rappresentata ha davvero poco. Parla senza l’accento grasso dell’Urbe, conosce le lingue straniere, anzi di più, ha studiato e vissuto all’estero, soprattutto negli Stati Uniti, in Inghilterra, nel cuore d’Europa, Parigi, Bruxelles, Lussemburgo, Francoforte. È formata da romani cosmopoliti che occupano posizioni di vertice nella politica in patria e fuori, ma anche, ed è ancor più peculiare, nell’economia, nelle banche, nella finanza. 

 

Facciamo qualche nome: ne abbiano scelti dodici, una fantastica dozzina. Non possiamo non cominciare da Mario Draghi, seguito da Paolo Gentiloni. Troppo facile, saltano subito agli occhi. Meno evidente è che le prime due banche italiane sono guidate da questi romani atipici: Carlo Messina, capo di Intesa Sanpaolo, e Andrea Orcel, nuovo amministratore delegato di Unicredit, il cui presidente è il romano Pier Carlo Padoan che ha come vice Lamberto Andreotti, figlio del “divo Giulio”. Abbiamo aggiunto, ci scusiamo con gli esclusi, Dario Scannapieco, numero due alla Banca europea per gli investimenti, Victor Massiah che ha gestito a lungo la Ubi, così come Flavio Valeri la Deutsche Bank in Italia, Alberto Tripi, chiamato il re dei call center, Stefano Cao, numero uno alla Saipem, e Gianni Tamburi, finanziere che ha fatto successo a Milano e molti chiamano il Warren Buffett italiano.

 

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Qualche nota biografica sarà utile per capire la loro romanità postmoderna, ma prima ci vuole un esercizio flaubertiano, sulle orme di Bouvard e Pecuchet, insomma da stupidario dei luoghi comuni. E cominciamo con una delle espressioni più diffuse e rivelatrici: “Ci vediamo per le otto”. In quel “per” c’è tutta l’essenza del carattere e del comportamento di un romano. Non prima, né dopo, né alle otto, ma attorno, verso, dove l’ora precisa resta circondata da un alone di duemila anni. Il secondo luogo comune riguarda il linguaggio a cominciare dall’accento. Un romano non perde mai la sua calata, la c “strascicata”, la b regolarmente doppia, quella cadenza da strumento a fiato che non viene cancellata nemmeno dalla più rigorosa accademia di dizione: ascoltate gli attori romani, anche i più simpatici eredi di Gigi Proietti, i “piacioni” che popolano le tv. I romani non parlano lingue straniere. I romani viaggiano, ma non vedono l’ora di tornare e comunque cercano la romanità, abitudini comprese, in qualsiasi parte del mondo si trovino. I romani vivono di politica, da sempre, anche ai tempi dei papi.

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Non producono pil, lo distribuiscono e lo consumano. I romani lavorano poco e soprattutto male. Finanza e fabbriche non fanno parte del loro pedigree. I romani non mantengono la parola, appena li incontri ti invitano a cena poi non li senti più. I romani mangiano molto e amano il cibo pesante. Sono “caciaroni”, parlano a voce alta, si muovono, anzi vivono rumorosamente. I romani appaiono generosi, poi al ristorante si divide il conto. E così via. Ebbene la nuova élite che dalla città eterna è salita al vertice della piramide politico-sociale non ha nulla a che fare con tutto questo. 

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Draghi non s’è mai allontanato veramente da Roma, dalla romanità sì. Negli anni alla Bce faceva la spola, è stato pizzicato dall’obiettivo a villa Borghese o al supermercato con la moglie Serenella. Su di lui, sulla sua biografia è stato scritto moltissimo, anche dal Foglio: gli studi nella capitale e la laurea con Federico Caffè, il Massachusetts Institute of Technology con Franco Modigliani (è stato tra i primi dottori italiani in Economia), a Washington come Padoan anche se l’uno alla Banca mondiale, l’altro al Fondo monetario, poi il Tesoro con in mano le privatizzazioni negli anni Novanta, Londra alla Goldman Sachs e Via Nazionale prima di Francoforte. S’è scritto che arriva agli appuntamenti sempre in anticipo, non indossa il cappotto, mangia barrette energetiche, parla pacatamente nascondendo un bastone dietro le spalle secondo il precetto di Teddy Roosevelt. Le sue sponde culturali vanno da Loyola a Boston dove Dario Scannapieco ha ottenuto un master, all’Università di Harvard in Business Administration. Al ministero del Tesoro negli anni Novanta si è stretto tra loro due un rapporto di fiducia che sarà ancor più prezioso ora che l’Italia deve finalmente rilanciare gli investimenti con i denari europei. 

 


L’America è il punto di riferimento anche per Andreotti, ingegnere e manager, ai vertici di multinazionali come Bristol-Myers Squibb e Pharmacia Upjohn dopo l’acquisizione di Farmitalia Carlo Erba. Alla Ibm si è fatto strada Tripi prima di fondare Almaviva e cogliere l’onda dei call center. Stefano Cao ha girato il mondo con la Saipem e l’Eni. Londra è stata la vera casa di Orcel (padre siciliano, madre francese, liceo Chateaubriand e laurea alla Sapienza) nei vent’anni trascorsi alla Merrill Lynch. Una carriera nel mondo anglosassone della consulenza (tra Arthur Andersen e McKinsey) per Victor Massiah, nato a Tripoli, da dove la sua famiglia è scappata con l’arrivo di Gheddafi, e cresciuto a Roma. Un percorso professionale simile a quello di Flavio Valeri prima di approdare alla Deutsche Bank. Messina ha lasciato Roma per Milano nel 1996 quando venne assunto da Giovanni Bazoli al Banco Ambrosiano Veneto, nocciolo duro di quella che diverrà, anche grazie a lui, la prima banca italiana. E Milano diventa la mecca anche per Tamburi, che crea una sua merchant bank e diventa protagonista di operazioni strategiche: Prysmian, il colosso dei cavi uscito dalla Pirelli, Moncler, Amplifon, Eataly, Interpump, per non parlare di Ferrari, nel suo portafoglio ci sono i pezzi forti del made in Italy. 

 


È forse il più romano di tutti Paolo Gentiloni anche se la sua famiglia (i conti Gentiloni Siveri) viene dalle Marche e lui parla bene tre lingue. Dal gauchisme all’ecologia ha camminato sempre a sinistra, un percorso lungo e per molti versi sorprendente. Ma come ministro degli Esteri, presidente del Consiglio e commissario europeo si è lasciato dietro le spalle bandiere rosse e sanpietrini. Il potere non è sul pavé.

 


Questa rimarchevole dozzina è naturalmente solo un piccolo pezzo, anche se un pezzo forte, dell’élite che accompagna, anzi che può plasmare il nuovo ciclo italiano. Si è detto che dopo la pandemia, dopo la sbornia nazional-populista, dopo la politica come ordalia, arriva l’èra della competenza. Draghi nel suo discorso d’insediamento ha citato Cavour, uno dei maggiori statisti in assoluto. Ma le differenze sono naturalmente molto grandi. Lo stesso vale per gli uomini della ricostruzione, evocata nel discorso al Senato. Allora la militanza, il coraggio, la passione ideologica facevano premio sulla capacità di governo o la preparazione professionale, se si escludono pochi tra i quali Einaudi. La classe dirigente del Dopoguerra era uscita dagli oratori (democristiani) o dalle patrie galere (socialisti e comunisti), ha scritto Giuseppe De Rita. Poi ha dovuto cooptare i grandi tecnocrati cresciuti durante il fascismo (Menichella, Mattioli, Sinigaglia).

 

Erano professionisti della politica persino quelli che furono messi a capo di imprese e istituzioni economiche, si pensi a Enrico Mattei e all’Agip. Negli anni Ottanta sono arrivati i professori, gli yuppies e i “condottieri” attorno a Bettino Craxi. I venditori sono stati i pretoriani di Silvio Berlusconi. Il partito dei sindaci o dei governatori s’è rivelato una illusione. Infine ha vinto l’assalto al quartier generale, il vaffa, l’uno vale uno, la cuoca di Lenin alla guida dello stato. Su quelle macerie e in mezzo a una tragedia collettiva come la pandemia si fa strada una nuova classe dirigente? È presto per dirlo, è già chiaro però che potrà anche essere nata a Roma, a Milano o a Napoli, purché abbia avuto accesso alle stanze dei bottoni, là dove si decide per davvero, dove oggi si consuma il rito del potere: Washington, Londra, Bruxelles, Francoforte.

 

Deve possedere un suo linguaggio, asciutto, con pochi aggettivi e tanti sostantivi; l’abitudine a guidare tecnostrutture complesse; il gusto del rischio e la rapidità di decisione; la ricerca del consenso in funzione del risultato; una reputazione costruita con il lavoro. Anziché la politica come professione, bisogna parlare della politica come conseguenza della professione; una inversione della teoria di Max Weber. Ciò vale per chiunque voglia uscire dal labirinto di gabbie soffocanti: il passato, il conformismo, la malia dall’abitudine, il culto pigro delle radici, l’idolatria del proprio particolare, il confortevole tepore del bozzolo. Dalle Alpi alla Sicilia, non c’è differenza. In questo sì una nuova classe dirigente deve ispirarsi a quella del Risorgimento e della ricostruzione.

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