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Contro l’immobilismo

Draghi nel labirinto dei mandarini

La politica li associava ai peggiori, ora devono dimostrare di essere adatti al governo dei migliori. Draghi, i burocrati e l’altra grande sfida: scegliere bene tra rivoluzione e restaurazione

Claudio Cerasa

La sfida nella sfida di Draghi in fondo è anche qui: la capacità di questo esecutivo di costruire con la burocrazia un rapporto diverso rispetto al passato

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Restaurazione o rivoluzione? Ieri mattina, il presidente del Consiglio, Mario Draghi, è intervenuto all’inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte dei conti e nel suo breve discorso introduttivo ha scelto di affrontare con parole nuove e non scontate un tema importante sul quale si misurerà parte del successo del suo governo: la capacità di questo esecutivo di costruire con la burocrazia un rapporto diverso rispetto al passato.

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Restaurazione o rivoluzione? Ieri mattina, il presidente del Consiglio, Mario Draghi, è intervenuto all’inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte dei conti e nel suo breve discorso introduttivo ha scelto di affrontare con parole nuove e non scontate un tema importante sul quale si misurerà parte del successo del suo governo: la capacità di questo esecutivo di costruire con la burocrazia un rapporto diverso rispetto al passato.

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Draghi, rigirando come un calzino la teoria grillina dell’immobilismo come unica forma di legalità consentita, ha ricordato alla magistratura contabile quanto parte della fermezza di una buona amministrazione pubblica dipenda dalla capacità che ogni “controllo sia rapido, perché le decisioni della Corte, quando intervengono lontane dagli atti sottoposti a controllo, pur se intransigenti, inevitabilmente perdono molta della loro efficacia”. Ha affermato che l’assenza di velocità nella burocrazia comporta “la perdita di fiducia verso le istituzioni, che fiacca la fiducia nel futuro”. E ha rivolto un appello non rituale ai suoi interlocutori affinché vi sia la disponibilità di tutti a “evitare gli effetti paralizzanti della fuga dalla firma”. Il nostro impegno, ha detto Draghi, sarà quello di “rafforzare la capacità amministrativa anche attraverso un’azione volta a selezionare le migliori competenze, a formare e riqualificare le persone, per realizzare un’amministrazione all’altezza dei compiti che il momento straordinario chiede a tutti noi”. E se ci si riflette un istante la capacità del nuovo presidente del Consiglio di imprimere alla burocrazia un nuovo corso non ha a che fare solo con le grandi amministrazioni pubbliche ma ha a che fare anche con chi quelle amministrazioni le rappresenta all’interno del governo: i burocrati. O se volete: i grand commis dello stato.

 

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Tra le novità presenti all’interno delle geometrie dell’esecutivo Draghi vi è un dato importante che riguarda il numero considerevole di figure presenti nel sottobosco di governo che un tempo sarebbero state definite con disprezzo “mandarini”. Sono i magistrati, i consiglieri di stato, i pezzi da novanta dell’Avvocatura di stato o della Corte dei conti, che dopo aver vissuto una lunga stagione in cui la politica li associava al governo dei peggiori oggi hanno l’occasione di dimostrare che la burocrazia amministrativa può coesistere eccome con il governo dei migliori.

 

E’ un consigliere di stato il numero due  di fatto di  Mario Draghi a Palazzo Chigi, Roberto Garofoli, sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Così come è un consigliere di stato il motore di Palazzo Chigi, Roberto Chieppa, segretario generale. Così come è un consigliere di stato il capo del Dagl, Carlo Deodato. Così come è un consigliere di stato il capo di gabinetto del ministro dell’Economia, Giuseppe Chiné. Così come è un magistrato fuori ruolo il capo di gabinetto del ministro della Giustizia Marta Cartabia, Raffaele Piccirillo. Sono tutti nomi di prestigio, di valore, di esperienza, di competenza, alcuni dei quali vivono anche una propria riscossa personale pensando ai tempi in cui alcuni di loro vennero allontanati da Palazzo Chigi (Deodato nel 2014, ai tempi di Renzi, lasciò il suo posto alla vigilessa Manzione), pensando ai tempi in cui alcuni di loro vennero identificati come dei frenatori del governo (Garofoli tra il 2014 e il 2016, quando si trovava al Mef, era decisamente poco amato da Renzi, per poi essere letteralmente detestato dal M5s ai tempi in cui lui e l’attuale ministro Daniele Franco vennero definiti da Rocco Casalino i pezzi di m. del Mef), E sono tutti volti scelti per fare quello che Draghi ha in testa da giorni: avere le persone giuste per far funzionare la macchina, per portarla dove il pilota intende condurla. Ma sono anche nomi, particolare non irrilevante, che nei prossimi mesi, soprattutto quelli che si trovano a Palazzo Chigi, verranno marcati a vista da tutti coloro che all’interno del governo potrebbero essere tentati a un certo punto di mettere in campo la così detta opzione Danpsi, qualora qualcosa dovesse andare storto: dire a nuora (cioè al mandarino) perché suocera intenda (cioè Draghi). Burocrazia, burocrati, grand commis e nuovi mandarini. La sfida nella sfida di Draghi in fondo è anche qui: scegliere tra restaurazione e rivoluzione. In bocca al lupo.

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