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Chiacchierare su Draghi

I contenuti seri e quelli meno seri. E poi lo stile, la posa, le riforme, gli orizzonti, le asticelle, gli specchi delle nostre identità (con chicche su De Gregori). Girotondo fogliante sul discorso del nuovo premier

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Ipnotizzati dal pimpante rap renziano, presi a martellate dalla ciarpe salviniste, affatturati dall’inconcludente melodismo contiano. Ed ecco che in una mattina di febbraio cambia tutto, e il presidente che non abbiamo fatto nulla per meritarci epperò, incredibilmente, è lì, con la sua voce monocorde, suprema gravitas e nessuna propensione avanspettacolare, rifà il mondo sotto i nostri occhi. E reimposta tutto da capo: ridefinisce il palinsesto della politica italiana, incolla le pagine strappate (“l’unità non è un’opzione, ma un dovere”), ci regala il sollievo di una prosa cartesiana e consequenziale, ostile alle serpentine e nobilmente noiosetta, sbriciola il sovranismo (il mio intergruppo di ascolto su WhatsApp ha esultato con scompostezza poco draghiana quando il Nostro Compostissimo ha detto “Europeismo, Atlantismo, Democrazie Occidentali” – anche su “ancoraggi”: io mi sono entusiasmato anche su ancoraggi). E poi scuote le sensibilità farisaiche restituendo centralità alle donne e non ai discorsi sulle donne, accoppa la flat tax difendendo la progressività, ci ricorda che “ogni azione ha una conseguenza” osando visioni lunghe e larghe e correlate, e per definire l’identità parla sempre di “contesto” anziché agitare sbrindelli sovranardi. Laburista con disinvoltura, non fa l’avvocato di nessuno e il Pm men che meno, ci fa credere che si possa fare tutto ciò che dice e dice “cultura” tre volte, dice “doveri di cittadinanza” (quanto suona bene, dopo anni di sbronze da redditi da divano?), dice “welfare”, ma - soprattutto - dice 2050. Non solo 2026. Non solo 2030. Dice 2050. E illumina il discorso con una dimensione morale definita non da un moralismo di principio, ma dalla sua stessa prospettiva: sono i tempi lunghi che la determinano inevitabilmente. Però scivola sulle terapie intensive e fa un po’ l’Ambientalista per conto di Dio. Lo si perdona, anche perché parla con intelligenza di economia che non è solo moneta. Insomma, non son primule: dovrebbero fiorire. 

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Non solo 2026. Non solo 2030. Dice 2050!

 

Ipnotizzati dal pimpante rap renziano, presi a martellate dalla ciarpe salviniste, affatturati dall’inconcludente melodismo contiano. Ed ecco che in una mattina di febbraio cambia tutto, e il presidente che non abbiamo fatto nulla per meritarci epperò, incredibilmente, è lì, con la sua voce monocorde, suprema gravitas e nessuna propensione avanspettacolare, rifà il mondo sotto i nostri occhi. E reimposta tutto da capo: ridefinisce il palinsesto della politica italiana, incolla le pagine strappate (“l’unità non è un’opzione, ma un dovere”), ci regala il sollievo di una prosa cartesiana e consequenziale, ostile alle serpentine e nobilmente noiosetta, sbriciola il sovranismo (il mio intergruppo di ascolto su WhatsApp ha esultato con scompostezza poco draghiana quando il Nostro Compostissimo ha detto “Europeismo, Atlantismo, Democrazie Occidentali” – anche su “ancoraggi”: io mi sono entusiasmato anche su ancoraggi). E poi scuote le sensibilità farisaiche restituendo centralità alle donne e non ai discorsi sulle donne, accoppa la flat tax difendendo la progressività, ci ricorda che “ogni azione ha una conseguenza” osando visioni lunghe e larghe e correlate, e per definire l’identità parla sempre di “contesto” anziché agitare sbrindelli sovranardi. Laburista con disinvoltura, non fa l’avvocato di nessuno e il Pm men che meno, ci fa credere che si possa fare tutto ciò che dice e dice “cultura” tre volte, dice “doveri di cittadinanza” (quanto suona bene, dopo anni di sbronze da redditi da divano?), dice “welfare”, ma - soprattutto - dice 2050. Non solo 2026. Non solo 2030. Dice 2050. E illumina il discorso con una dimensione morale definita non da un moralismo di principio, ma dalla sua stessa prospettiva: sono i tempi lunghi che la determinano inevitabilmente. Però scivola sulle terapie intensive e fa un po’ l’Ambientalista per conto di Dio. Lo si perdona, anche perché parla con intelligenza di economia che non è solo moneta. Insomma, non son primule: dovrebbero fiorire. 

Marco Archetti 

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Giovani e politica: scusateci, vi abbiamo delusi 

Mario Draghi è un umanista. E non perché, nel suo discorso in Senato, ha detto milioni invece di migliaia, traballando sui numeri, proprio lui che dai poeti con il mutuo degli altri, minoranza rumorosa di questo paese, è stato accusato di avere “una calcolatrice al posto del cuore”. Draghi è un umanista perché l’umanesimo è l’origine della cultura moderna, che è una cosa antica, e che in Draghi s’incontrino e scontrino modernità e antichità s’è capito quando ha detto: “Resilienza, come si dice oggi”. Disse Bacone: “L’antichità fu maggiore rispetto a noi, ma rispetto al mondo nuova e minore”. Dice Draghi, respingendo chi parla di fine della politica: “Nessuno fa un passo indietro rispetto alla propria identità: semmai, in un nuovo e del tutto inconsueto perimetro di collaborazione, ne fa uno in avanti nel rispondere alla necessità del paese”. E pure alle necessità del mondo, che da buon umanista Draghi vuole rispettare come ogni padrone di casa rispetta il suo giardino, il salotto, le pareti, i portafoto. Non è ospite del creato e tuttavia nemmeno padrone, ma curatore non protagonista. Lo è anche dello spazio che occupa – “Ditemi quando mi posso sedere”, ha detto alla fine del discorso, mentre l’aula applaudiva. Si sente responsabile del futuro del mondo, quindi dei giovani, e dice, con una rima che fa invidia ai Coma Cose: “Vogliamo lasciare un buon pianeta, non solo una buona moneta”. Con i giovani si scusa: non dice che dovrebbero fare di più, che sono o choosy o sfortunati. Riconosce, ed è il primo politico (sì, politico) italiano a farlo con tanta nettezza: vi abbiamo delusi, non vi abbiamo dato quanto abbiamo ricevuto. Draghi è umanista cattolico, quindi universale, e non dimentica nessuno, niente: donne, bambini, lavoratori precari e fissi, Balcani, coefficiente di Gini, riscaldamento globale, Cavour, ragazzi. A tempo o non a tempo che sarà il suo governo, la sua vocazione è larga: vuole affrontare i problemi da ciò che non si vede, dalle radici. Ragiona in ordine deduttivo, dal grande al piccolo, dal mondiale all’italiano, senza recidere niente, mostrandoci a cosa siamo uniti: Unione europea, Alleanza atlantica, Nazioni Unite. Non incatenati: uniti. Ancorati. 

Simonetta Sciandivasci 

 

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Gran discorso con un dubbio: perché la riforma fiscale? 

Non solo lucido e illuminante. Anche toccante e commovente. Sono queste le sensazioni che nascono dall’ascolto e dalla lettura del discorso del presidente Draghi in Parlamento. Senza retorica ma con grande forza, Mario Draghi ha ricordato la priorità di valori fondamentali ma spesso trascurati: i giovani e il loro futuro, l’Europa e l’Alleanza Atlantica, l’unità nazionale, la lotta alla povertà. Due sono le cose che colpiscono nell’agenda del nuovo governo. Primo, quanto sia ambiziosa. E’ vero che il nostro paese sta attraversando un momento di importanza storica, per molti versi analogo a quello dell’immediato dopoguerra. Il paragone con la Ricostruzione non è forzato. Il susseguirsi della crisi finanziaria tra il 2008 e il 2012, e poi la pandemia, hanno portato il paese vicino al collasso economico. Se nei prossimi anni non riusciremo a porre le basi per una ricostruzione stabile e duratura, rischiamo davvero di finire ai margini dell’Europa. Sprecare anche questa occasione di ricostruzione sarebbe gravissimo. Ed è anche vero che la risorsa scarsa per realizzare le riforme elencate dal presidente Draghi non è il tempo, bensì la capacità di attuazione e la determinazione a cooperare con unità d’intenti. Tuttavia non sarà facile riuscire a fare davvero anche solo una piccola parte di quanto egli ha elencato, a uno o due anni da elezioni dall’esito incerto, con un elettorato mobile e disorientato, e partiti politici instabili ma ideologicamente molto lontani tra loro. Raggiungere anche solo una parte degli obiettivi enunciati sarebbe comunque un grande successo. Ma l’agenda del nuovo governo suscita anche un interrogativo. E’ prudente la scelta di mettere la riforma fiscale al centro dell’agenda di governo? Non ne sono sicuro. Indubbiamente la riforma del sistema di tassazione è un passaggio importante, che viene ricordato spesso anche dall’Unione Europea e dal Fondo Monetario Internazionale. E certamente il metodo di lavoro e gli obiettivi ricordati (Commissione di esperti, riforma complessiva e non parziale, lotta all’evasione) sono quelli auspicabili. Ma ciò di cui ci sarebbe bisogno non è tanto una riforma della sola imposta personale sui redditi, bensì uno spostamento del prelievo complessivo dal lavoro verso i consumi e la ricchezza, e un allargamento della base imponibile riducendo i troppi crediti d’imposta concessi a categorie privilegiate. Pensiamo davvero che sia possibile trovare un accordo politico su questi aspetti controversi all’interno di una maggioranza così eterogenea? La riforma della tassazione non comporta solo guadagni di efficienza per tutti. Inevitabilmente concentra anche l’attenzione sui conflitti redistributivi, e costringe a scelte politiche divisive. E quando il presidente Draghi dovrà spendere un po’ del suo capitale politico per facilitare un accordo tra i partiti, non è detto che sia questa la priorità più importante. In ogni caso, i primi mesi del nuovo governo saranno quelli cruciali. Auguri di buon lavoro, davvero nell’interesse di tutti noi! 

Guido Tabellini 

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Dopo le assurdità, un sollievo 

Mario Draghi in Parlamento ha fatto un discorso serio, perché non ha cercato in alcun modo di nascondere le questioni più spinose, tanto nei confronti delle forze politiche alle quali stava chiedendo la fiducia (e qui l’esempio più evidente, ma non l’unico, è il modo in cui ha scandito in faccia a Matteo Salvini che “sostenere questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro”), quanto nei confronti dell’opinione pubblica, alla quale ha parlato chiaramente delle difficili scelte all’orizzonte, in tema di pandemia, chiusure e aiuti pubblici. “La scelta di quali attività proteggere e quali accompagnare nel cambiamento – ha detto – è il difficile compito che la politica economica dovrà affrontare nei prossimi mesi”. Dove “cambiamento” è uno dei due eufemismi che si è concesso in tutto il discorso, ma significa tendenzialmente cambiare lavoro. Ho solo duemila battute di spazio, dunque mi perdonerete la brutalità, ma a me pare che l’intervento di Draghi si possa riassumere in queste due affermazioni: l’euro è irreversibile, il bonus monopattini no. Per quanto riguarda la pandemia, mi è sembrato incoraggiante sentirgli dire che “non dobbiamo limitare le vaccinazioni all’interno di luoghi specifici, spesso ancora non pronti” (“spesso”, come avrete già capito, è il secondo eufemismo del discorso), e soprattutto che la velocità sarà fondamentale “per ridurre le possibilità che sorgano altre varianti del virus”. Questo è infatti il pericolo maggiore di oggi, dinanzi al quale temo non basti investire tutto sulla campagna di vaccinazioni, ma serva anche quel sistema di tracciamento e sorveglianza che rappresenta, a mio parere, il più grave fallimento del governo precedente. In merito però Draghi non ha detto nulla. Dunque è presto sia per criticarlo sia per elogiarlo. Si è invece diffuso parecchio sul Recovery Plan, con parole convincenti e anche molto ambiziose, che naturalmente andranno misurate alla prova dei fatti. Ma dopo le tante assurdità che abbiamo dovuto sentire negli ultimi mesi, a questo proposito e non solo, è stato comunque un sollievo. 

Francesco Cundari 

 

Più che silenziare i suoi ministri, silenzi noi elettori! 

Ho ascoltato il suo discorso al Senato per ottenerne la fiducia; in risposta, voglio dirLe che io non son degno. Io sono uno di quelli che negli anni, esercitando in modo arbitrario e male informato il proprio diritto di voto, ha mandato in Parlamento la gente inadeguata di cui oggi Lei si deve circondare. Le chiedo scusa: i Salvini, Di Maio, Gelmini, Zingaretti, è roba mia. Ce li ho messi io, lì. Sono mortificato. Ma Lei, invece che punirmi come fece Mario Monti con lacrime e sangue (sculacciate che accolsi all’epoca con fervore quasi mistico) mi dice che ricostruirà il Paese, rafforzerà la sanità territoriale, mobiliterà tutte le energie disponibili per vaccinarmi il prima possibile e non dentro a quei ridicoli gazebo a forma di primula (grazie, sapevo che con Lei la mia dignità borghese e il senso del decoro sarebbero stati tutelati), farà un fisco progressivo sul modello danese (cioè F24 con la cannella), mi rassicura sull’Euro, sui giovani e sulle donne (non si può fare una festa senza di loro, figuriamoci un Paese!). Addirittura Lei si è impegnato a informarmi con sufficiente anticipo in caso di cambiamento delle regole per il contenimento del virus -io qui mi sono commosso al punto che poi mi sono dovuto soffiare il naso con una delle 365 autocertificazioni diverse che sono cambiate nel corso dell’anno. E’ tutto merito dei gesuiti, questo amare e perdonare, o c’è del Suo? Le ripeto: non son degno. Indipendentemente dal fatto che Lei riesca o meno nei suoi intenti salvifici e riformatori, per chi crede che io voterò alle prossime elezioni? Per i Salvini, Di Maio, Gelmini, Zingaretti! La colpa non è loro, sia chiaro: lo vede anche Lei come sono europeisti in realtà quelli della Lega; diventano euroscettici solo per compiacere le mie opinioni da bar. Umilmente, Le do due consigli: più che silenziare i Suoi ministri o i partiti che La sostengono, silenzi noi elettori. Le nostre opinioni hanno un’influenza molto negativa sui politici, che invece se presi singolarmente -lo vede anche lLei- non sono pericolosi, non avendo opinioni personali né convinzioni di sorta. Secondo consiglio: non faccia l’errore di Mario Monti (il cui fantasma, come vede, infesta il suo governo più di quello di Conte), dopo quest’esperienza non si candidi: si ritroverebbe con un barboncino in braccio e qualche voto popolare, troppo pochi per governare ma abbastanza per macchiarLe il curriculum. 

Saverio Raimondo 

 

Meno musica, meno retorica, più parole. E che gusto 

Tre passaggi, che forse non dicono molto sulla più stretta attualità politica, ma qualcosa dicono di Mario Draghi, dei compiti della politica, e del Paese. (Dunque: non dirò niente sull’irreversibilità dell’euro o sulla sovranità europea, con buona pace di Salvini; niente sulla governance del Next Generation EU incardinata al Ministero dell’Economia, con buona pace del precedente governo, che non ci si era raccapezzato; e niente sulla riforma fiscale, con buona pace di tutti i partiti, perché lì l’ex-governatore ha idee molto più chiare di tutti gli altri). Primo passaggio: “Vogliamo lasciare un buon pianeta, non solo una buona moneta”. Draghi ha provato persino la rima, ma era imbarazzato ancor più del Parlamento, che infatti non ha applaudito. Diciamo meglio: aveva la frase per chiamare l’applauso, ma non l’ha saputa dire. L’unica captatio benevolentiae di tutto il discorso non ha funzionato. A leggerla, fa quasi tenerezza. Non è insincera: il contrario. Tradisce la consapevolezza che capire e farsi capire non sarà semplicissimo. Secondo passaggio: dovremo scegliere “quali attività proteggere, quali accompagnare nel cambiamento”. Non so quante volte si sia detto con pari chiarezza che vanno bene le buone intenzioni, ma poi si tratta di scegliere, e le scelte sono selettive. Tutto il gioco della responsabilità politica sta lì. Prima di metterla in termini di rigore o crescita, austerità o espansione, come s’è fatto e si fa in polemiche inutili, Draghi promette una cosa molto precisa: lui è lì per scegliere (dimenticatevi gli interventi a pioggia). Terzo passaggio: il governo “non ha bisogno di alcun aggettivo che lo definisca”. Qui ci ho pensato, poi mi sono detto: se lui cita Cavour (e papa Francesco, e basta) io potrò ben citare Francesco De Sanctis, quando se la prende col melodramma “dove lo scenario, la mimica, il canto, e la musica opera sull’immaginazione ben più potentemente che la parola insipida, vacua sonorità, rimasta semplice accessorio”. Si capisce? Niente aggettivi vuol dire: diamo peso alle parole. Meno musica, meno retorica, meno teatro e più sostanza. (E’ retorica pure questa, ovviamente, ma serve almeno per cominciare col piede giusto) 

Massimo Adinolfi 

 

Cultura, arte, educazione. E i segnali sull'identità 

Come primo punto vorrei sottolineare che è stato un discorso più da politico che da tecnico, che lo colloca nel solco dello sforzo laico profuso dalle varie forze politiche nel secondo Dopoguerra, dove prevalse l’identità sullo scontro. Un altro grande segnale è l’attenzione ripetuta all’educazione, alla cultura e all’arte. Come dire che un problema è la forte crisi di classe dirigente. Il terzo punto che mi ha colpito è il richiamo sia a Cavour che a Bergoglio: e cioè al politico più anticlericale e al Pontefice che lo è meno, per sottolineare che a tutti spettano tanti piccoli sacrifici per venirne fuori. Efficace l’esempio della corrente elettrica, per dire che tutto cambierà anche se è difficile, aggiungo io, sapere come. Un discorso, in definitiva, di grande competenza, uno dei più efficaci e diretti (ma a suo modo contenuto) degli ultimi decenni. Con un messaggio di approvazione a Conte e, per Salvini, l’irreversibilità dell’euro, senza dimenticare un segnale a ogni ministero. 

Francesco Micheli  

 

L’amore del costruire insieme 

“Vibrante desiderio di rinascere”. E’ quello che tutti noi proviamo ogni mattina quando ci alziamo con la voglia di iniziare la giornata e la speranza che il momento di emergenza che dura da un anno sia finito; la vibrante preoccupazione che debba durare ancora a lungo come retropensiero. Viviamo dentro al presente – dentro all’emergenza – e ci proiettiamo nel futuro. Il tempo dell’orologio non esiste: esiste solo il tempo multiforme della coscienza, che mescola continuamente il passato al qui e ora e azzarda immaginifiche proiezioni verso il domani. Ce lo hanno insegnato i filosofi, ce lo hanno mostrato gli scrittori. Il discorso che il presidente Draghi ha tenuto al Senato è un discorso sul tempo: non solo un tempo del governo, ma un tempo per tutti noi, con nuove proporzioni tra il prima e il dopo. L’oggi dell’emergenza; il prima che non tornerà, perché la fine della pandemia non sarà come riaccendere la luce; e il domani che non dovrà più essere relegato a vaghi esercizi proiettivi, ma è una narrazione che dobbiamo tenere bene a mente a ogni passo. Va invertita una postura culturale e nostalgica che ci fa rivolgere lo sguardo all’indietro. E’ qualcosa a cui non siamo abituati, è qualcosa di rivoluzionario. E lo è per tutti: “l’unità non è un’opzione, è un dovere”. E’ un governo che esprime lo spirito repubblicano, è un governo che si appella al dovere di cittadinanza prima che a quello di identità politica. Quello di Mario Draghi è un discorso sul tempo perché la pandemia si sconfigge con un piano vaccinale efficace; perché nel vibrante desiderio di rinascita c’è anche quello dei giovani che vogliono un paese all’altezza dei propri sogni; perché i danni ambientali fatti in precedenza chiedono politiche ecologiche che parlano della vita domani in Italia e sul pianeta. E’ un discorso sul tempo, perché il nostro giudizio sull’Italia è spesso peggiore di quello degli stranieri e invece per proiettarsi verso il cambiamento c’è bisogno di fiducia e di uno sguardo deciso a quello che verrà. D’altronde, l’amore implica sempre il desiderio di un futuro da costruire insieme. 

Gaia Manzini 

 

La “nuova ricostruzione” che non sopporta equivoci 

No, Draghi non è il Messia. Ma certamente è una persona elegante: dopo avere ringraziato il capo dello Stato per averlo chiamato a guidare il nuovo governo, ha tributato un pensiero di sincera gratitudine a Giuseppe Conte, suo predecessore. Poteva non farlo, lo ha fatto. Gli ha dato atto di avere affrontato con impegno i problemi che l’esplosione della pandemia ha gettato sul tavolo del governo. E con altrettanta eleganza ha sottolineato l’esigenza di un cambio di passo: “Ci impegniamo a informare i cittadini con sufficiente anticipo, per quanto compatibile con la rapida evoluzione della pandemia, di ogni cambiamento nelle regole”. Un Messia? No, si è impappinato pure sui numeri dei ricoveri e della cassa integrazione. Ma certamente Draghi è uno statista che non ama le ovvietà né i luoghi comuni. La politica è fallita? Macchè. “Nessuno fa un passo indietro rispetto alla propria identità ma semmai, in un nuovo e inconsueto perimetro di collaborazione, ne fa uno avanti nel rispondere alle necessità del Paese, nell’avvicinarsi ai problemi quotidiani delle famiglie e delle imprese che ben sanno quando è il momento di lavorare insieme, senza pregiudizi e rivalità”. Il suo governo è di destra o di sinistra; è un governo di emergenza o del presidente? Macchè. “Questo è semplicemente il governo dei Paese. Non ha bisogno di alcun aggettivo che lo definisca. Riassume la volontà, la consapevolezza, il senso di responsabilità delle forze politiche che lo sostengono alle quali è stata chiesta una rinuncia per il bene di tutti”. Significa che ogni partito dovrà rinunciare alla propria storia, alla propria identità, alle proprie ragioni? Macchè. “Nei momenti difficili della nostra storia l’espressione più alta e nobile della politica si è tradotta in scelte coraggiose, in visioni che fino a un attimo prima sembravano impossibili. Perché prima di ogni nostra appartenenza viene il dovere della cittadinanza”. Per carità, non basta certo un discorso “di alto profilo” per prevenire i conflitti tra le forze in campo, per arginare un possibile scontro tra Lega e Pd, tra Salvini e Di Maio. Ma Draghi, con un discorso pronunciato senza pochette, ha inserito il futuro dell’Italia in un disegno che non prevede mediazioni di alcun genere: “Senza l’Italia non c’è l’Europa. Ma, fuori dall’Europa c’è meno Italia. Non c’è sovranità nella solitudine. C’è solo l’inganno di ciò che siamo, nell’oblio di ciò che siamo stati e nella negazione di ciò che potremmo essere”. La “nuova ricostruzione” non sopporta equivoci, ripensamenti, equilibrismi, retoriche a basso costo e ad alto consenso. Non comprende la strategia del rinvio. “L’unità non è un’opzione ma un dovere”. Prendere o lasciare. Viva Draghi, abbasso la pochette. 

Giuseppe Sottile 

 

Una doppia rivoluzione da seguire: Europa e fisco 

Il discorso di Mario Draghi al Parlamento è ricco di elementi e novità. Mi concentro su due aspetti, in parte tra loro collegati. Il primo riguarda l’Europa e una sua capacità fiscale. Il presidente Draghi in un succinto passaggio fa riferimento a: “Un’Unione Europea sempre più integrata che approderà a un bilancio pubblico comune capace di sostenere i paesi nei periodi di recessione”. Dietro questa semplice frase vi è il programma di costruzione di unione fiscale, di progressiva trasformazione della Recovery and Resilience Facility in strumento permanente e di superamento e trasformazione del Meccanismo Europeo di Stabilità. Questa capacità fiscale comune e “straordinaria” si intreccia con la revisione del quadro di regole sulle politiche di bilancio dei Paesi membri e con il dibattito sull’auspicato passaggio da “regole” a “principi”. La presenza di Draghi alla guida dell’esecutivo di un Paese chiave dell’Euro costituisce una risorsa preziosa per l’intera Europa e per la piena comprensione delle implicazioni di un tale dibattito sulla politica monetaria e sulla riduzione degli squilibri macro tra i Paesi, in un esercizio tra ambizione e realismo. Il secondo aspetto tra i più originali nel discorso alle Camere riguarda le tasse e la riforma del fisco. Sul metodo, il presidente del Consiglio indica chiaramente la strada di una commissione ad hoc di esperti, che procederà alla formulazione di riforma complessiva, inclusa una “revisione profonda dell’Irpef”. Giusta progressività, riequilibrio razionalizzante della tassazione del redditto tra dipendente e autonomo, raccordo con gli strumenti di sostegno (reddito inclusione/cittadinanza, assegno unico ecc.) faranno parte di questo puzzle complesso di riforma. Draghi indica che si andrà verso un alleggerimento, seppure graduale, del carico fiscale. Citando il caso danese, si prelude ad un allargamento della no tax area. Come mostra un recente rapporto Ocse, la riduzione delle tasse per i redditi medio – bassi è trend internazionale ampio e profondo: con visione e pragmatismo, è oggi arrivato il momento anche per l’Italia. Una riforma di questo tipo pretenderà risorse e uno spazio di bilancio che si potranno ottenere solo in un nuovo quadro europeo. Si torna quindi al primo aspetto. 

Fabrizio Pagani 

 

Draghi rilancia senza subire le richieste di Grillo 

Il neo presidente del Consiglio Mario Draghi ha fatto più volte dell’ambiente e della transizione ecologica la stella polare del suo discorso. Insieme al costante richiamo alle responsabilità della politica nei confronti delle future generazioni. Lo ha fatto inserendo a pieno titolo la transizione verde nel programma di risanamento dell’economia italiana dal doppio shock subito prima con la recessione economica e poi con la pandemia. Un mondo nuovo è destinato ad emergere dal post-covid. Non solo per le conseguenze della pandemia ma per la forza di un cambiamenti che era già in corso e che è stato accelerato. Globalizzazione, rivoluzione digitale, economia della conoscenza sono le direttrici di questo cambiamento. La transizione verde, che dispone di uno strumento finanziariamente potente come il Recovery, deve insieme accompagnare e guidare questa rivoluzione. Si chiama progresso ed ha lo scopo di aumentare il benessere delle popolazioni, senza nessun cedimento ad ideologie decresciste. Draghi non subisce le richieste di Grillo ma rilancia alla grande. Certo poi mettere mano ai vincoli burocratici e alla pigrizie mentali sarà un’altra storia. In cui avrà allo stesso modo bisogno della visione di ministri come Cingolani, ma anche di tanti sapienti conoscitori della macchina statale, capaci di demolire le resistenze, anche all’interno del governo, e le barriere costruite in decenni di giurisprudenza ostativa. I riferimenti da lui fatti alle opere necessarie per realizzare la transizione impongono di scaricare a terra decine, anzi centinaia di nuove opere in numerosi campi: ambiente, energia, infrastrutture solo per citare i principali. Draghi è sembrato convinto e quasi emotivamente coinvolto in questa sfida. Fino alla citazione di Papa Francesco, ormai un must di ogni discorso sull’ambiente. Con tutto il rispetto per il Papa consiglierei però a Draghi di abbandonare l’idea di un uomo peccaminoso come causa del degrado del giardino (?) regalatoci da Dio o della comparsa del coronavirus. Presidente, siamo con te senza dubbi e senza subordinate, ma non avremmo intenzione di abbandonare Darwin.

Chicco Testa 

 

Una sola citazione. Il messaggio su Pechino di Draghi 

L’ultima volta che è stata evocata dentro al Parlamento italiano, Giuseppe Conte l’aveva menzionata praticamente assieme all’America. Ieri Draghi ha pronunciato la parola “Cina” soltanto una volta, e  in un contesto piuttosto lontano da quello a cui siamo stati abituati negli ultimi anni. Draghi dice che l’Italia si adopererà per il dialogo con la Federazione russa, e subito dopo dice che “seguiamo con preoccupazione ciò che sta accadendo in questo e in altri paesi dove i diritti dei cittadini sono spesso violati. Seguiamo anche con preoccupazione l’aumento delle tensioni in Asia intorno alla Cina”. Insomma, subito dopo la violazione dei diritti umani, viene la “preoccupazione” per le tensioni “intorno alla Cina”. E’ un modo piuttosto velato per mandare un messaggio in realtà molto forte: lo stato di diritto, i diritti umani sono una priorità nei rapporti con la seconda economia del mondo. I giri di parole come questi servono a non urtare i funzionari di Pechino e sono spesso criticati dai falchi anticinesi, che vorrebbero invece i toni à la Trump. Ma come abbiamo visto, quel tipo di relazione finora non ha portato a niente. Nel suo discorso, Draghi è arrivato alla Cina dopo aver ribadito per l’ennesima volta la vocazione europeista e atlantista dell’Italia, e non l’ha citata nel contesto di una opportunità economica. Anche qui, un messaggio per Pechino: non siete un “rivale sistemico”, la porta della collaborazione economica è aperta, ma ora le condizioni le poniamo noi.

Giulia Pompili 

 

Fisco e competizione: un segnale forte e serio ai contribuenti 

Il discorso di ieri di Mario Draghi non è la solita lista della spesa, ma è una visione del futuro del nostro Paese. Visione declinata anche grazie alla lettura di dati e numeri. Bene, era ora. Draghi traccia, infatti, un percorso, senza fare propaganda e senza vendere ricette magiche. Sui temi di mia più stretta competenza, il fisco e la crescita, le cose che dice Draghi sono condivisibili. Come ricordava recentemente anche Ernesto Ruffini non si possono fare le riforme fiscali se non valutando – sine ira et studio – i pro ed i contro di quanto viene fatto. Per rendere il Fisco italiano adatto alla competizione internazionale dare stabilità alle norme fiscali è fondamentale. Non si può continuamente cambiare idea, si disorientano i contribuenti e si allontana la capacità di favorire gli investimenti nel nostro paese e quindi crescita ed occupazione. Su queste tematiche così come sulla riforma dell’Irpef ci sarà tempo per dare spunti ed idee. Quello che potrebbe invece essere approvato subito – senza attendere i giusti tempi di cui si parlava sopra – sono la riforma della giustizia tributaria e delle Agenzie fiscali. Ci sono una serie di proposte di modernizzazione già viste e discusse e su queste tematiche si potrebbe cercare di fare molto in fretta. Si darebbe un segnale forte e serio ai contribuenti e agli stranieri che guardano al nostro paese. 

Andrea Tavecchio 

 

Il tributo alla politica che segna la sconfitta dell’antipolitica 

Le fanfare trionfanti che lo accompagnano da fuori, il profilo bassissimo che trasmette. Saranno tutte quelle mascherine e tutto quel nero e quei ministri e ministre indistinguibili, sarà che è un governo “senza aggettivi”. Si insedia un Draghi descritto come un supereroe, “l’italiano più autorevole nel mondo!”, si presenta un Draghi ancora senza volto. Cos’è questo governo “repubblicano” (embè)? E’ l’esordio quasi umile, “la durata dei governi in Italia è stata mediamente breve”, o è il programma di legislatura, ancorché su diversi punti accademico e vago, che Draghi elenca con eleganza? E’ il governo dell’emergenza o il governo di una Nuova Ricostruzione, che paragonandosi a quello nato alla fine della guerra si dà il vertiginoso obiettivo di costruire una vera nuova sintesi senza comprimere le identità politiche? Avete detto e scritto che questo governo è stato reso necessario dal fallimento della politica – dice Draghi – e non è vero: nessuno deve fare passi indietro. (Apperò, è dalla sera che Mattarella è uscito alla Vetrata che ci spiegano che è successo per via “della crisi di sistema”). Finisce che Draghi ha un piano per la sanità che sembra quello di Speranza (che infatti è rimasto ministro), un piano per l’ambiente che sembra quello di Papa Francesco, che sul Recovery il governo di prima ha fatto un grande lavoro che non sarà stravolto, che vuole proteggere i lavoratori e per fortuna il governo di prima ha lavorato per ridurre le disuguaglianze, e niente Mes, nemmeno nominato. E alla fine è proprio un peccato che debbano tenere tutti la mascherina. Perché certe facce sarebbe stato divertente vederle, e certe altre facce si sarebbe dimostrato che non ci sono più: perse. 

Chiara Geloni 

 

No bengodismo. La giusta visione da vero economista politico 

Come economista non posso che apprezzare il discorso pronunciato da Mario Draghi al Senato. Peraltro credo che tra gli economisti soltanto dei domandisti sfegatati potrebbero non averlo apprezzato. Per domandisti intendo coloro i quali ritengono che il benessere di un paese dipenda quasi esclusivamente dalla forza della domanda aggregata di beni e servizi, tipicamente supportata da politica fiscale e politica monetaria ultra-espansive, e che nel contempo danno poca o nessuna importanza all’offerta aggregata, cioè alla capacità del sistema economico di produrre di più e meglio grazie all’innovazione tecnologica e all’accumulazione di capitale fisico (macchinari e impianti) e di capitale umano (l’istruzione). Come ben sottolineato dal sempre sagace Fausto Panunzi su Twitter (“Draghi: ‘Le risorse sono sempre scarse’. Un decennio di bengodismo spazzato via in 5 parole”) Draghi ha esposto un discorso realistico il cui punto di partenza è il rifiuto del bengodismo, cioè l’idea di un’economia in cui magicamente la politica economica può far star meglio tutti senza costi per nessuno, come è largamente implicito nel pensiero dei domandisti. Ciò non vuol dire passare all’estremo opposto e trascurare il ruolo della domanda aggregata, ma piuttosto di riflettere sulla necessità di prendere delle scelte (“se scelgo X rinuncio a Y”) confrontando benefici e costi di ciascuna. Ecco dunque l’enfasi data all’istruzione e al recupero del tempo perso di scuola durante l’anno scolastico scorso, e all’esigenza di essere efficienti nella somministrazione veloce dei vaccini usando tutti i canali disponibili (altro che sistema basato sui padiglioni a forma di primula!): si sceglie di mettere risorse scarse – a scapito di altri usi – perché il potenziale di benessere e crescita è ritenuto maggiore rispetto a scelte alternative. Ma la domanda di beni e servizi appare eccome nel discorso di Draghi: se cambiano le preferenze delle famiglie dopo la pandemia, se si sceglie di investire nella transizione ecologica (cioè in una produzione con impatto ambientale minore o nullo), l’offerta deve adeguarsi per incontrare questa domanda. Sotto questo profilo, secondo Draghi una politica economica sensata consiste nel focalizzarsi sul benessere di tutti i lavoratori – attraverso sussidi universali di disoccupazione – piuttosto che sul salvataggio “senza e senza ma” di tutti i posti di lavoro, anche quelli in imprese che dovrebbero soltanto fallire. Testualmente: “Sarebbe un errore proteggere tutte le attività economiche”. E – a proposito di scelte – nessun senatore ha deciso di applaudire. 

Riccardo Puglisi

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