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Una svolta entusiasmante, ma da capire

Non fate di Draghi il nuovo messia

Il premier non è qui per salvare l’Italia, ma per permettere all’Italia di salvarsi da se stessa. L’urgenza di far coincidere la visione lunga con la politica dei piccoli passi nella pazza stagione dell’impazienza

Claudio Cerasa

Si tratta di capire che gli obiettivi del nuovo esecutivo devono essere prima di tutto all’altezza dell’Italia e non prima di ogni altra cosa all’altezza di Draghi. Il presidente del Consiglio questo sembra averlo capito bene e già le prime mosse del suo governo mostrano una consapevolezza chiara

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Un conto è il film, un altro è la realtà. Un conto è il sogno, un altro è la politica. Un conto è il desiderio, un altro è la pratica. Un conto è un progetto, un altro è la realizzazione. Un conto  è la Bce, un altro è l’Italia. Se c’è qualcuno da cui in queste ore si deve guardare con attenzione Mario Draghi quel qualcuno non si trova nascosto tra i banchi dell’opposizione ma si trova nascosto tra i volti di alcuni falsi amici impegnati da giorni a compiere un esercizio pericoloso: caricare la missione del nuovo governo di aspettative impossibili.

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Un conto è il film, un altro è la realtà. Un conto è il sogno, un altro è la politica. Un conto è il desiderio, un altro è la pratica. Un conto è un progetto, un altro è la realizzazione. Un conto  è la Bce, un altro è l’Italia. Se c’è qualcuno da cui in queste ore si deve guardare con attenzione Mario Draghi quel qualcuno non si trova nascosto tra i banchi dell’opposizione ma si trova nascosto tra i volti di alcuni falsi amici impegnati da giorni a compiere un esercizio pericoloso: caricare la missione del nuovo governo di aspettative impossibili.

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Draghi è quello che sappiamo. E’ un Mr. Wolf delle crisi. E’ un’eccellenza del nostro paese. E’ un pezzo da novanta della classe dirigente. E’ un uomo di successo, è di visione, è il più politico fra i tecnici a disposizione del paese ma sbaglia chi oggi gli attribuisce capacità di risoluzione dei problemi paragonabili al suo carisma personale. In una competizione come quella in cui si trova l’Italia, la competizione della ripartenza, della crescita, della resilienza, Draghi può fare  la differenza. Ma come tutti i grandi piloti che arrivano a guidare una macchina tanto ambiziosa quanto difettosa non potrà non fare i conti con il guasto di un motore che da molti anni  non gira come dovrebbe e come potrebbe.

 

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Pensare dunque che nel giro di qualche mese Draghi possa avere la possibilità di realizzare tutto ciò che l’Italia non è riuscita a fare negli ultimi vent’anni significa voler trasformare Draghi in quello che non potrà mai essere: un messia, un salvatore della patria, un Superman, uno spider-man o un qualsiasi altro supereroe della Marvel (anche se poi, se proprio vogliamo trovare un paragone con un film d’animazione, l’esempio giusto è quello di “Dragon Trainer”, film d’animazione della DreamWorks, uscito nel 2010, che racconta, anticipando di undici anni la svolta del M5s, la storia di un ragazzo vissuto nel mondo dei vichinghi che dopo essere stato educato per una vita a uccidere i draghi per dimostrare il proprio valore si rende conto che l’unica salvezza è quella di diventare amico dei draghi).

 

Draghi non è qui per questo. Non è qui per salvare l’Italia, ma è qui per mettere l’Italia nelle condizioni di salvarsi da se stessa, provando a far scivolare la nostra monoposto su una pista meno accidentata rispetto a quella del passato. Su questo andrà misurato il governo. Sulla sua capacità di costruire un Recovery plan con i fiocchi. Sulla sua capacità di costruire una campagna vaccinale come si deve. Sulla sua capacità di sbloccare i cantieri. Sulla sua capacità di accompagnare l’Italia dalla stagione del blocco dei licenziamenti a quella dello sblocco.

 

E sulla sua capacità di avviare una serie di riforme che non sarà probabilmente questo governo a vedere realizzata: fisco, giustizia, pubblica amministrazione. Grande visione, ma piccoli passi. Sapendo che l’Italia è quella che è. Sapendo che non è semplice trasformare i soldati semplici in truppe prussiane. Sapendo che il decisionismo del capo (i Tar possono essere più pericolosi di Weidmann) dovrà sempre fare i conti con il potere di interdizione delle burocrazie, con la bassa qualità delle strutture amministrative, con i veti delle soprintendenze, con le richieste dei sindacati, con i divieti delle Asl, con i vincoli ambientali, con la discrezionalità assoluta del potere giudiziario.

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Non si tratta di mettere le mani avanti, ma solo di capire che gli obiettivi del governo Draghi devono essere prima di tutto all’altezza dell’Italia e non prima di ogni altra cosa all’altezza di Draghi. Draghi questo sembra averlo capito bene e già le prime mosse del suo governo mostrano una consapevolezza chiara: la necessità di dover far coincidere la visione lunga con la politica dei piccoli passi. La visione lunga è quella che sappiamo e verrà declinata nel discorso scarno che il nuovo presidente del Consiglio farà domani al Senato. Ma in un paese come l’Italia Draghi sa che la visione non basta e sa che un buon pilota può avere la speranza di avere successo solo a condizione che vi sia una scuderia che conosca i difetti della macchina.

   

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Si spiegano così le scelte fatte al governo, dove Draghi insieme con Sergio Mattarella ha deciso di premiare i volti più moderati, più europeisti, più abituati a muoversi come pontieri anche arrivando a scontentare le leadership dei partiti. Ma si spiegano così anche le scelte tecniche fatte al governo, dove Draghi ha voluto privilegiare, accanto a volti più di visione come Roberto Cingolani e Vittorio Colao, i profili di chi la macchina la conosce bene e sa come farla funzionare. E’ il caso di Daniele Franco, per esempio, che prima di diventare ministro dell’Economia e prima di entrare in Bankitalia è stato a lungo numero uno della Ragioneria dello stato (e che come capo di gabinetto ha scelto Giuseppe Chiné, ultimo della filiera dei grand commis di stato cresciuti nella stagione di Vincenzo Fortunato, per dieci anni capo di gabinetto al Mef prima dell’arrivo di Roberto Garofoli).

 

Ma è il caso soprattutto di Roberto Garofoli, capo di gabinetto del ministero dell’Economia e delle Finanze prima con Pier Carlo Padoan (governi Renzi e Gentiloni) e poi con Giovanni Tria (governo Conte) il teorico dell’unica possibile rivoluzione breve per l’Italia: la manutenzione e i piccoli passi. Un concetto che lo stesso Garofoli ha sintetizzato così proprio sul nostro giornale in un articolo a sua firma uscito lo scorso 15 aprile: “Non è sufficiente dotarsi di pure ingenti risorse finanziarie senza svolgere prima una riflessione sulla condizione delle strutture di progettazione e dei centri di committenza, sull’adeguatezza dell’attuale livello di polverizzazione, sulla relativa qualificazione e professionalizzazione, sulla disponibilità di economisti e tecnici, oltre che di giuristi, sulla opportunità che gli stessi centri continuino a essere tutti generalisti, acquistando ciascuno qualsiasi cosa, piuttosto che sull’esigenza di introdurre forme di articolata e coordinata specializzazione. Al paese serve non meno amministrazione, ma una rete organizzata e coordinata di strutture amministrative adeguate ad affrontare compiti  complessi, quali che siano regole e procedure”. Con Draghi, cambiare passo si può. Per cambiare l’Italia poi il tempo ci sarà.

 

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