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In morte di Franco Marini, l’alpino con la pipa

Francesco Cundari

Sindacalista con la pipa, faccia severa e giacca a quadretti. Non andò al Quirinale per colpa del suo stesso popolo

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Sindacalista con la pipa, faccia severa e giacca a quadretti, alla Luciano Lama. Un’estetica anni Settanta, popolare-burocratica, da manifestazione dei lavoratori o da sezione di partito, che non ha abbandonato mai, nemmeno da presidente del Senato, e che sarebbe stato meraviglioso vedere al Quirinale. Un gusto ruvido e concreto della politica e dei rapporti umani, da montanaro abruzzese (era stato anche tenente degli alpini, e ne era orgogliosissimo), che emergeva pure dal modo di parlare e di scherzare, dal tono della voce e da come muoveva gli occhi, quegli occhi chiari, rapidi e furbi, che sembravano sempre dirti: “Penserai mica di fregarmi?”. Franco Marini è stato probabilmente l’uomo che ha avuto il peso maggiore, se non proprio nella scelta di fondare il Partito democratico, nel come e nel quando farlo, insieme certamente con Romano Prodi e Massimo D’Alema, con il quale costruì un asse solidissimo perché fondato sulla consapevolezza del tradimento già consumato – da D’Alema, ovviamente – nel 1999.

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Sindacalista con la pipa, faccia severa e giacca a quadretti, alla Luciano Lama. Un’estetica anni Settanta, popolare-burocratica, da manifestazione dei lavoratori o da sezione di partito, che non ha abbandonato mai, nemmeno da presidente del Senato, e che sarebbe stato meraviglioso vedere al Quirinale. Un gusto ruvido e concreto della politica e dei rapporti umani, da montanaro abruzzese (era stato anche tenente degli alpini, e ne era orgogliosissimo), che emergeva pure dal modo di parlare e di scherzare, dal tono della voce e da come muoveva gli occhi, quegli occhi chiari, rapidi e furbi, che sembravano sempre dirti: “Penserai mica di fregarmi?”. Franco Marini è stato probabilmente l’uomo che ha avuto il peso maggiore, se non proprio nella scelta di fondare il Partito democratico, nel come e nel quando farlo, insieme certamente con Romano Prodi e Massimo D’Alema, con il quale costruì un asse solidissimo perché fondato sulla consapevolezza del tradimento già consumato – da D’Alema, ovviamente – nel 1999.

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Anche quella volta c’erano di mezzo Prodi, la difficile unità del centrosinistra e una corsa al Quirinale: perché la storia si ripete sempre, ma quando sia farsa e quando tragedia non è detto sia così facile capirlo, a volte anche a distanza di molti anni. Nonostante tutto, con D’Alema era fatto per intendersi, per le ragioni estetiche appena ricordate, più ancora che per le tante ragioni politico-culturali che li avvicinavano; le stesse che lo separavano irrimediabilmente da due leader destinati a segnare profondamente la storia del centrosinistra come Walter Veltroni e Matteo Renzi. Il primo ebbe un ruolo non trascurabile nel portare al Quirinale Carlo Azeglio Ciampi, lasciando a piedi Marini, dopo che lui aveva sostenuto, da segretario del partito erede della Democrazia cristiana, l’ascesa del primo ex comunista a Palazzo Chigi (D’Alema, dopo la caduta del primo governo Prodi, nel 1998). Renzi gli si sarebbe messo di traverso platealmente nel 2013, in diretta tv, giusto alla vigilia del voto che avrebbe dovuto saldare quell’antico debito, quando il Pd di Pier Luigi Bersani si apprestava a candidarlo al Quirinale, per poi vederlo impallinare dai franchi tiratori. Eppure di quella truce esecuzione parlamentare non sarebbe praticamente rimasta memoria, oscurata dai celeberrimi centouno traditori di Prodi, il candidato su cui, con una svolta improvvisa, avrebbe ripiegato Bersani, impallinato anche quello (sia il candidato, cioè Prodi, sia il candidante, cioè Bersani).

 

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A raccontarlo oggi, mentre il Movimento 5 stelle sembra accingersi a votare il governo Draghi insieme con Silvio Berlusconi, scappa quasi da ridere. Ma all’origine di quella vicenda e del curioso modo in cui da allora è stata raccontata, quasi che i franchi tiratori che impallinarono Marini meritassero pure una medaglia, o quanto meno l’immediata assoluzione dell’oblio, c’era il grande scandalo suscitato dal fatto che per eleggere il presidente della Repubblica, ma guarda un po’, Bersani era andato a trattare con Berlusconi, il leader dello schieramento avversario, che per inciso aveva preso quasi gli stessi voti alle elezioni. E c’era, soprattutto, la violentissima campagna grillina, e della solita sinistra proto e para grillina sempre al seguito in questi casi. Un’operazione di character assassination da cui Marini non ha avuto modo di difendersi, perché alimentata dai compagni di partito, tra i militanti e gli elettori del Pd, nel suo stesso popolo. Certo è che il Partito democratico senza di lui non si sarebbe fatto, o perlomeno non si sarebbe fatto in quel modo (il modo che i suoi oppositori interni, fautori del modello americano, definivano “fusione fredda”).

 

Marini di certo alle suggestioni della retorica nuovista e antipolitica cara a tanti, che infine l’ha travolto e spezzato, non si è piegato mai. Segretario della Cisl negli anni Ottanta, poi ministro del Lavoro con Giulio Andreotti, poi segretario del Partito popolare, una vita a contrattare posti di lavoro e posti di governo, a contare tessere, aprire sedi e chiudere accordi, sempre lì nel mezzo, tra congressi, correnti e cortei. Alle prime assemblee del Pd, quando bisognava “mescolarsi” tra vecchi comunisti e vecchi democristiani, e molti erano gli imbarazzi e le resistenze, e in tanti pensavano di superarli facendo tabula rasa di tutto, lui si vedeva subito che di imbarazzi non ne aveva affatto, se non per l’oratore che precedendolo sul palco, immancabilmente, attaccava con quell’orrendo “care democratiche e cari democratici”. Poi toccava a Marini. Il vecchio alpino si metteva in tasca la pipa, andava al microfono e cominciava: “Cari compagni e care compagne”. Applausi scroscianti. Sipario.

 

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