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Europeismo e capacità di cambiare idea: evviva l’Italia del compromesso

Claudio Cerasa

I populisti volevano aprire la democrazia rappresentativa come una scatoletta di tonno: non ci sono riusciti e ora fanno la corte al principe dell’antipopulismo, Mario Draghi. Elogio del trasformismo europeo

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E’ l’europeismo, bellezza. Lo hanno diffamato, denigrato, offeso, screditato e sputazzato. Lo hanno descritto come se fosse un bivacco ingestibile di buoni a nulla ricolmo di parlamentari imbecilli incapaci di intendere e di volere. Lo hanno raffigurato come se fosse una gigantesca stufetta utile solo a scaldare il sedere degli onorevoli portavoce del popolo. E invece la verità è che da tre anni a questa parte il più disordinato tra i parlamenti mai visti nella storia della Repubblica italiana non perde occasione, periodicamente, per permetterci di non essere troppo pessimisti sul futuro e per dimostrare di essere incredibilmente il contrario di quello che poteva diventare all’indomani del 4 marzo del 2018: non un laboratorio del populismo, ma un laboratorio del compromesso. I populisti, di destra e di sinistra, avevano promesso di utilizzare il consenso ricevuto dal popolo per aprire la democrazia rappresentativa come una scatoletta di tonno ma la verità è che alla fine nei passaggi più importanti di questa legislatura coloro che dovevano usare gli apriscatole sono stati inscatolati nella tonnara delle istituzioni (Ugo Zampetti) e del principio di realtà (Sergio Mattarella).

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E’ l’europeismo, bellezza. Lo hanno diffamato, denigrato, offeso, screditato e sputazzato. Lo hanno descritto come se fosse un bivacco ingestibile di buoni a nulla ricolmo di parlamentari imbecilli incapaci di intendere e di volere. Lo hanno raffigurato come se fosse una gigantesca stufetta utile solo a scaldare il sedere degli onorevoli portavoce del popolo. E invece la verità è che da tre anni a questa parte il più disordinato tra i parlamenti mai visti nella storia della Repubblica italiana non perde occasione, periodicamente, per permetterci di non essere troppo pessimisti sul futuro e per dimostrare di essere incredibilmente il contrario di quello che poteva diventare all’indomani del 4 marzo del 2018: non un laboratorio del populismo, ma un laboratorio del compromesso. I populisti, di destra e di sinistra, avevano promesso di utilizzare il consenso ricevuto dal popolo per aprire la democrazia rappresentativa come una scatoletta di tonno ma la verità è che alla fine nei passaggi più importanti di questa legislatura coloro che dovevano usare gli apriscatole sono stati inscatolati nella tonnara delle istituzioni (Ugo Zampetti) e del principio di realtà (Sergio Mattarella).

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Doveva essere la legislatura attraverso la quale i populisti avrebbero dovuto rimettere in discussione l’appartenenza dell’Italia all’Europa (no Euro, sì Brexit) ed è diventata la legislatura in cui l’Italia ha trasformato l’appartenenza all’Europa in un’arma per disinnescare i populismi (dall’elezione di Ursula von der Leyen anche per mano grillina alla spallata in Parlamento a Salvini fino alla improvvisa conversione europeista del leader della Lega che sabato scorso al termine delle consultazioni con Draghi ha messo per un attimo da parte il salvinismo dicendosi disposto a sostenere senza condizioni il governo europeista che guiderà l’ex governatore della Bce: un po’ meno Truce, un po’ più Dulce). Doveva essere la legislatura in cui i populisti avrebbero dovuto modificare l’articolo 67 della Costituzione obbligando i parlamentari a esercitare le proprie funzioni con un vincolo di mandato (voltagabbana: vergogna!) ed è diventata invece la legislatura in cui anche i populisti hanno capito che avere parlamentari eletti senza vincolo di mandato è una condizione necessaria per poter governare (voltagabbana: venite a noi!). Doveva essere la legislatura attraverso la quale i populisti avrebbero dovuto rimettere in discussione alcuni cardini politici delle stagioni precedenti (Industria 4.0, Jobs Act, Tav, Tap) ed è diventata invece la legislatura in cui l’Italia populista dopo aver provato a cancellare le riforme del passato è stata costretta a farle rientrare dalla finestra.

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Doveva essere la legislatura attraverso la quale i populisti avrebbero dovuto cancellare l’esperienza del renzismo e del berlusconismo (dagli ai caimani!) ed è stata invece la legislatura in cui l’Italia populista è stata costretta a riconoscere l’indispensabilità del renzismo e del berlusconismo (oggi finalmente riuniti in un unico abbraccio all’interno dello stesso governo). Doveva essere la legislatura attraverso la quale i populisti avrebbero dovuto imporre una nuova agenda giustizialista – e con l’abolizione della prescrizione ci sono riusciti – ed è diventata invece la stagione in cui a poco a poco proprio sull’agenda giustizialista i populisti si sono ritrovati in minoranza al punto da non avere la forza di farsi approvare in Parlamento la mozione Bonafede (il governo uscente non è il primo della storia a essere caduto sulla giustizia ma è il primo dei governi caduti sulla giustizia a essere precipitato per una ribellione contro l’agenda giustizialista).

 

Doveva essere la legislatura attraverso la quale le forze antisistema avrebbero dovuto imporre al paese un nuovo bipolarismo populista (le cronache del post 4 marzo del 2018 sono piene di sapienti commenti redatti da notisti politici certi che questa legislatura avrebbe visto la morte dei moderati) ed è diventata invece la stagione in cui il bipolarismo del futuro prenderà forma all’insegna della lotta contro il populismo (tre anni dopo la vittoria dei populisti non c’è nulla che vada più di moda che essere antipopulisti). E se tutto questo è successo, se l’Italia è riuscita a domare le sue forze antisistema, se il Parlamento più antieuropeista della storia della Repubblica è arrivato sul punto di eleggere come presidente del Consiglio uno dei simboli dell’europeismo italiano, occorrerà riconoscere non solo i piccoli capolavori compiuti in questi tre anni dai due metronomi della politica (Sergio Mattarella e Matteo Renzi) ma occorrerà riconoscere che la stabilità di un paese come l’Italia dipende anche dalla capacità della politica di cambiare idea, di rinnegare se stessa, di contraddirsi, di dire l’opposto di ciò che aveva detto il giorno prima. In politica, spesso, la coerenza è la virtù degli imbecilli e mai come in questi anni bisogna dire che è stato dimostrato che la buona politica a volte può fare passi in avanti solo adattandosi ai tempi che cambiano anche a costo di rinnegare se stessa. E grazie al trasformismo e grazie all’europeismo e grazie alla capacità di cambiare idea l’Italia oggi si trova lì, con Salvini impegnato a combattere il salvinismo, con Grillo impegnato a combattere il grillismo, e con un paese pronto a diventare per l’Europa non più un laboratorio del populismo ma un laboratorio del compromesso. Benvenuto, presidente Draghi.

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