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Leggere nel pensiero di tre leader per capire dove va la legislatura

Claudio Cerasa

Ci sono i numeri? Chi vince la partita? Cosa rischia Conte? La crisi alla prova del Parlamento. E poi? Zingaretti preso fra tre fuochi. Le mosse di Renzi per rientrare in gioco. Le lusinghe e il problema degli alleati per Berlusconi

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È il giorno della crisi che finisce in Parlamento, è il giorno della conta di Giuseppe Conte, è il giorno in cui la maggioranza capirà se la mossa del cavallo di Renzi ha contribuito a rafforzare Conte o ha contribuito a indebolirlo. Tutto può succedere, le sorprese sono possibili, i numeri, almeno quelli del Senato, sono sempre ballerini ma per provare a orientarsi nei giorni della crisi, e nei giorni del confronto in Parlamento, può essere utile provare a entrare nella testa di alcuni leader da cui, in un modo o in un altro, passa ancora il destino di questa legislatura.

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È il giorno della crisi che finisce in Parlamento, è il giorno della conta di Giuseppe Conte, è il giorno in cui la maggioranza capirà se la mossa del cavallo di Renzi ha contribuito a rafforzare Conte o ha contribuito a indebolirlo. Tutto può succedere, le sorprese sono possibili, i numeri, almeno quelli del Senato, sono sempre ballerini ma per provare a orientarsi nei giorni della crisi, e nei giorni del confronto in Parlamento, può essere utile provare a entrare nella testa di alcuni leader da cui, in un modo o in un altro, passa ancora il destino di questa legislatura.

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Nicola Zingaretti

Da un anno e mezzo a questa parte, Nicola Zingaretti si trova a difendere un governo che non ha mai sentito suo. Non lo sentiva suo nell’agosto del 2019, quando avrebbe preferito le elezioni a un governo con il M5s, non lo sentiva suo nel settembre del 2019, quando avrebbe preferito, dovendo fare un governo con il M5s, qualunque altro premier che non fosse Conte, e non lo ha sentito suo negli ultimi mesi quando, a suo modo di vedere, il processo di ricostruzione dell’Italia è stato troppo timido, troppo lento, troppo timoroso, troppo poco ambizioso.

  

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Fosse per lui, fosse per Zingaretti, la strada maestra, per affrontare la crisi, sarebbe quella di andare a votare subito, altro che governo dei responsabili, altro che riconciliazione con Renzi, ma la strada del voto subito è una strada complicata, difficile, autolesionista, e provare ad azzerare, alle elezioni, il partito di Renzi non sarebbe per il segretario del Pd una soddisfazione così grande da poter superare lo scorno di regalare, probabilmente, alla destra la gestione del Recovery fund e la gestione del dopo Sergio Mattarella. E dunque la linea di Zingaretti oggi si muove fra tre fuochi: la volontà di dimostrare che il Pd può fare a meno di Renzi (sia al governo, sia alle elezioni), la volontà di dimostrare che in caso di elezioni anticipate il Pd ha una carta per essere competitivo (l’alleanza con il M5s e con l’eventuale partito di Conte) e la volontà di trovare un modo per evitare che questa legislatura diventi il manifesto del non-governo (provare ad allargare la maggioranza non ai responsabili ma a tutti i partiti europeisti: da Forza Italia fino allo stesso Renzi, a condizione che nella maggioranza conti un po’ di meno e non come voleva lui un po’ di più). Il governo dei meno peggio non è il governo dei sogni di Zingaretti, ovvio, ma proseguire la legislatura per il segretario del Pd è comunque importante anche per un’altra ragione: provare a logorare il più possibile la destra sovranista, provare a valorizzare quanto più possibile la destra europeista, provare a creare uno schema proporzionale che possa permettere un domani al Pd di avere più gambe con cui muoversi per evitare di mettere l’Italia, quando sarà, nelle mani della destra nazionalista.

 

Matteo Renzi

Venerdì scorso sul Foglio abbiamo definito quella che doveva essere la mossa del cavallo come una mossa che più che a quella del cavallo somiglia a quella del caciocavallo e che ha messo Renzi in una posizione diversa da quella che l’ex premier aveva immaginato: doveva essere lui a condurre le danze, innescando la crisi, e invece è stato Conte a condurle. E lo stesso premier che Renzi aveva intenzione di far cadere, Conte, oggi potrebbe riuscire nell’impresa, non facile, di rafforzare se stesso e di indebolire Renzi. Che cosa può sperare Renzi per rientrare in partita? La speranza numero uno, forse non così remota, è che il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, non abbia la maggioranza domani in Senato. In quel caso la partita si aprirebbe, Renzi tornerebbe a essere protagonista assoluto e i tempi del nuovo governo sarebbero decisi anche da lui. Possibile che questo accada? Nella storia recente della nostra Repubblica è già successo che un presidente del Consiglio desideroso di parlamentarizzare la crisi fosse fregato dai numeri: nel 1998, dopo il ritiro dell’appoggio esterno di Rifondazione comunista, il primo governo Prodi venne sfiduciato alla Camera, con 313 voti contrari e 312 favorevoli, e in caso di risultato analogo per Conte sarebbe inevitabile farsi da parte e per il M5s e per il Pd in quello scenario sarebbe possibile fare quello che alcuni esponenti del M5s e del Pd vorrebbero, proprio come Renzi: trovare un’alternativa a Conte in questa legislatura. Rientrerebbe così in partita, Renzi, ma ci rientrerebbe anche, seppure in una forma diversa da quella che aveva immaginato, qualora la nuova maggioranza dovesse rivelarsi esigua, ovvero con numeri insufficienti per governare con agilità una delle legislature più pazze e più importanti della storia della nostra Repubblica.

E dunque, in questo caso, cosa potrebbe fare Renzi? Astenersi oggi alla Camera e domani al Senato, come ha già annunciato di fare (Adriano Sofri, sul Foglio di sabato, gli ha consigliato di fare come fece Berlusconi nel 2013, ai tempi del governo Letta, governo che il Cav. aveva voluto sfiduciare salvo poi votargli la fiducia a favore, e di fare l’ennesima mossa del cavallo e di ridare, come fece il Cav., la fiducia a questo governo, ma senza avere più ministri), dopo di che aspettare che la maggioranza riapra un tavolo anche con lui per riscrivere un patto di legislatura.

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La terza mossa, più difficile ma non impossibile, è quella di mettersi a lato del governo, per logorarlo e per prepararsi al semestre bianco, quando rifare i governi sarà più facile e quando votare non sarà possibile. Fare a meno di Renzi, per il Pd e il M5s, oggi sembra essere un imperativo, ma fare a meno di Renzi, senza avere un’alternativa valida, per questa maggioranza potrebbe essere più difficile del previsto. E il tempo per ricucire, fiducia o non fiducia, ancora c’è.

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Silvio Berlusconi

Giovedì pomeriggio, il segretario del Pd Nicola Zingaretti ha detto esplicitamente che, per quanto lo riguarda, il suo partito non farà mai accordi con le destre nazionaliste e sovraniste e seppure in modo indiretto ha inviato al Cav. un sms che suona più o meno così: caro Silvio, in una legislatura come questa le forze europeiste non possono rimanere troppo lontane l’una dall’altra e per il bene del paese è opportuno che anche tu, se pensi sia possibile, faccia un passo per combattere a viso aperto, e non solo al telefono, le destre nazionaliste e sovraniste, che so che detesti come me. Berlusconi non lo farà, purtroppo, e non si muoverà in modo autonomo dal centrodestra di Meloni e Salvini. E non lo farà non solo perché fino a quando non ci sarà una legge proporzionale sarà difficile per Forza Italia muoversi in modo autonomo, ma non lo farà il Cav. perché per quanto possa sembrare buffo Meloni e Salvini hanno rivolto a Berlusconi una promessa: caro Silvio, visti i numeri di questa legislatura, se sarà questo Parlamento a eleggere il prossimo capo dello stato stai certo che il centrodestra porterà il tuo nome per il dopo Mattarella. Il Cav., che non è tipo da credere alle promesse, perché sa che in politica si mente sapendo di poter smentire, ha però voluto credere a questa promessa e non c’è mossa che lo riguardi che sia comprensibile senza leggerla con questa lente di ingrandimento.

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Due piedi in due staffe, un po’ qui e un po’ lì, un po’ con Matteo e Giorgia e un po’ con Zingaretti e Renzi e persino con Di Maio, e in fondo Berlusconi, pur non potendolo dire apertamente, sa bene che per uno come lui non è difficile scegliere se sia preferibile dare subito tutto il potere a Meloni e Salvini o se lasciarlo ancora per qualche tempo a Conte, e non solo per arrivare all’appuntamento con il Quirinale ma anche per lasciare decantare il sovranismo nazionalista dei due campioni del populismo di destra. E dunque, sì, il centrodestra si augura che questo governo vada a casa, ma Berlusconi farà di tutto se servirà per evitare che da qui a giugno possa prendere forma la finestra del voto anticipato. E se in corso d’opera, se proprio necessario, dovesse servire qualche senatore di Forza Italia, non sarà Berlusconi a dirgli di no. In attesa del proporzionale. In attesa del Quirinale. In attesa di far sgonfiare il più possibile le bolle populiste chiamate Giorgia e Matteo. E per farle sgonfiare il Cav. sarebbe disposto a molto. Forse anche a cedere un pezzo di centrodestra a Conte per evitare di regalare il paese ai gemelli del populismo italiano.

  

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