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Il Muccioli della pandemia

Michele Masneri

I vaccini e le siringhe, e prima i banchi, i tamponi, Immuni, l’Ilva. Vita, relazioni e opere del commissario di tante crisi italiane, dalla Prima alla Terza Repubblica. Colui che tutto può e qualcosa, con arroganza compiaciuta, risolve. Fenomenologia di Domenico Arcuri

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L’ultima rogna son queste benedette siringhe, troppo grandi o troppo piccole,  e prima di questa i banchi,  i tamponi, Immuni, l’Ilva. Che palle. Domenico Arcuri, o come dicevan tutti Arcuri, tiene il peso dell’Italia su di sé. E si annoia. Si annoia mortalmente. Mentre sbuffa minaccioso nelle conferenze stampa con sprezzo post-dalemiano e occhioni da Stregatto, Arcuri, commissario a tutto, si annoia con niente. E’ troppo intelligente. Non ce lo meritiamo. Non c’è gusto in Italia a essere Arcuri. Dai banchi alle mascherine, è più di un funzionario, più di un tecnico. E’ un personaggio. E’ pura cultura pop. Non gli hanno ancora dedicato una serie Netflix ma è entrato talmente nell’immaginario come uomo che risolve (o almeno tenta di risolvere) i problemi che, durante i disordini americani degli scorsi giorni, col Campidoglio invaso dalle masse cornute e pelose, subito è arrivata la battuta: “Avranno già chiamato Arcuri?”.

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L’ultima rogna son queste benedette siringhe, troppo grandi o troppo piccole,  e prima di questa i banchi,  i tamponi, Immuni, l’Ilva. Che palle. Domenico Arcuri, o come dicevan tutti Arcuri, tiene il peso dell’Italia su di sé. E si annoia. Si annoia mortalmente. Mentre sbuffa minaccioso nelle conferenze stampa con sprezzo post-dalemiano e occhioni da Stregatto, Arcuri, commissario a tutto, si annoia con niente. E’ troppo intelligente. Non ce lo meritiamo. Non c’è gusto in Italia a essere Arcuri. Dai banchi alle mascherine, è più di un funzionario, più di un tecnico. E’ un personaggio. E’ pura cultura pop. Non gli hanno ancora dedicato una serie Netflix ma è entrato talmente nell’immaginario come uomo che risolve (o almeno tenta di risolvere) i problemi che, durante i disordini americani degli scorsi giorni, col Campidoglio invaso dalle masse cornute e pelose, subito è arrivata la battuta: “Avranno già chiamato Arcuri?”.

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Cultura pop, situazionismo televisivo: Aldo Grasso sul Corriere quasi settimanalmente lo striglia. Lo ha nominato personaggio televisivo dell’anno 2020. “Di straordinario ha solo la vocazione polemica” (3 maggio, “Il commissario Arcuri e l’emergenza narcisismo”). “Come Mr. Wolf del film Pulp Fiction ripete sempre: risolvo problemi. Ma i problemi non gli danno retta” (29 novembre). “Ha collezionato un numero straordinario di incarichi. Tutti straordinari ma quasi tutti deludenti” (30 novembre). E ancora, giovedì scorso: “Ogni volta che si rivede in tv viene da pensare alla frase del marchese del Grillo, io so io e voi non siete un cazzo; tutte le volte che parla, sembra di vederla in bocca al ‘commissario a tutto’ Domenico Arcuri, anche se poi la infiocchetta di anglismi (vaccine-day, accountability, call). Le giustificazioni di chi governa (i ritardi, l’impreparazione, l’improvvisazione) assomigliano molto ai motivi per cui il marchese si rifiuta di pagare l’ebanista Aronne Piperno”. 

  

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Basta, insomma, qui si vuol andare a fondo. Professore, ma perché si occupa così tanto di Arcuri? “Non sono io a occuparmi di lui ma lui di noi!”, esala Grasso al telefono. “Non c’è mai stata una figura così nella storia d’Italia. Un commissario che ha sotto di sé un settore impegnativissimo. Chiunque farebbe fatica a occuparsi di uno solo dei dossier di cui si occupa lui. E lui li prende tutti. E occupandosi di tutto sembra sempre che non si occupi di niente. Il tono è tipico della commedia all’italiana. La sfrontatezza di Gassman e il cinismo di Alberto Sordi del Medico della mutua. Un cinismo levantino per cui tutto va preso sottogamba e poi alla fine andrà bene. Una figura così in tutti gli anni di cui mi sono occupato di televisione non l’ho mai incontrata”. 

  

Andiamo con ordine. E’ indubitabile che la classe dirigente attuale abbia un grande debito con Risi e Monicelli. Però commetterebbe un errore chi ponesse Arcuri sullo stesso piano dell’esecutivo e della leadership grillina. Qualcuno potrebbe essere tentato di vederlo come un idealtipo molto rappresentato nei tempi attuali, cioè il placido mitomane: colui che da fuori viene percepito come miracolato, perché non ha mai fatto niente, non si intende di niente, e quando gli capita la grande occasione invece di portare doni alla madonna di Pompei pensa: finalmente mi vengono riconosciuti i miei meriti. Sarebbe un grave errore di valutazione. 

  

Arcuri è infatti un uomo della Seconda Repubblica, per certi versi della Prima, anzi soprattutto della Prima, e sotto gli occhioni da Stregatto ci sono stratificazioni potenti. Qui modestamente si prova a esaminarne alcune.  Arcuri innanzitutto ha fatto la Luiss. Si è laureato nel 1986 in Economia e commercio con  una tesi su “Redditività economica e sociale degli investimenti pubblici nel Mezzogiorno”, e nel prestigioso ateneo della allora potente e identitaria Confindustria, sulla via Nomentana, tra i villini liberty di ambasciate esotiche e le cliniche private, si respirava un’aria di potere peculiare. In molti fuori Roma pronunciavano “Liuiss”, pensando a un’araldica università americana, scritta Lewis, forse viste le rette celestiali. Ma tra i pini romani il mood era più calabrese-pugliese, come ricorda chi bazzicava quell’ateneo, con molti rampolli e hidalgos a giocare a tressette su al bar, e le macchine e macchinette targate Rc e Vv sul marciapiede di fronte ai portieri gallonati, più che giù nelle aule sotterranee. Arcuri non era di questi, non era un arrembante gattopardo fuorisede, abitando già a Roma da tempo. Ma in quella piccola Oxford nomentana entra a far parte  del gruppo dei “dieci”, che non sono spie come il gruppo di Cambridge, ma dieci bravi studenti che secondo la leggenda arcuriana vengono individuati da Romano Prodi e cooptati all’Iri, il leggendario mammozzone di stato che produceva i panettoni e Alfasud: mammozzone a lungo vituperato, oggi ormai completamente riabilitato anzi  rimpianto: in tempi di cashback di stato, in tempi in cui  in cui la sua versione 2.0, la Cdp, rileva sartorie e pasticcerie, quella dell’Iri sembra una esperienza seminale e anche un po’ naif e liberista.

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Un andreottiano molto teatrale. Dall’Iri alla Deloitte fino a Invitalia, che trasforma e riassesta. Arcuri è chiamato a tessere la tela con l’intero arco costituzionale, “supportato da una sicurezza che lascia atterriti”

 

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Ma andando indietro, l’uomo-Luiss spiega qualcosa, è un particolare tipo psicologico, come l’uomo Lebole in quanto a eleganza, a suo agio nelle rappresentazioni romane del potere, tra politica, industria, Confindustria, palme, lampeggianti. Non è vero che Roma non abbia un quartiere europeo: se ce n’è uno ed è qui tra queste ville. La Luiss, almeno come me la ricordo io, era una Bocconi che però sembrava un circolo sul Tevere (solo che in mezzo non scorre il fiume, ma la Nomentana).

  

E Arcuri lì alligna e crea rapporti, insieme ad altri studenti fonda l’Associazione laureati Luiss che nasce proprio nel 1986, in quella che è la sua prima rete di contatti, di lobbying. Quello stile lì – anche estetico – gli rimane poi addosso, ha una giovanile passione per le cravatte di Hermès a piccoli disegni d’animali, per le poltrone in pelle umana e per gli orologi eleganti, insomma lussi e vezzi confindustriali, da dandy delle partecipazioni statali (senza spingersi fino agli snobismi agnelleschi di Carlino Scognamiglio, il professore con cui si laurea, genero Agnelli, giovane presidente del Senato famoso soprattutto per i doppiopetti e le cravatte di lana, e per aver fatto ripristinare il treno del Senato, un treno speciale tipo quello della regina in The Crown, che usa per andare a Forte dei Marmi). 

  

Va all’Iri. Piace. Poi, inizia la traversata nel mare della consulenza di impresa, quel continente misterioso che secondo chi lo conosce bene spiega un altro lato del personaggio. “Un consulente non ti dice mai di no. Se tu sei un’azienda che produce jeans e ti metti in testa di produrre, che ne so, lampadine, un consulente ti dirà; benissimo, ecco un bel business plan per le tue lampadine. Tanto poi non sarà lui comunque a occuparsene. I consulenti sono per natura bulimici”. Lui scala velocemente tutte le posizioni. Alla Deloitte, diventa amministratore delegato per l’Italia. 

  

   

Perché Arcuri, va detto, non è certo un incapace. Anche a Invitalia, che sarà la tappa successiva e quella più identitaria del suo percorso, pure chi non lo ama ammette che trasformò un improbabile carrozzone statale in un oggetto con una sua dignità. Nel 2007 entra questa vecchia agenzia pubblica all’epoca chiamata “Sviluppo Italia”, che dovrebbe attrarre investimenti esteri, aiutare le imprese in crisi, gestire fondi pubblici. L’agenzia è detta però “Sviluppo parenti”, all’epoca ha trecentosedici partecipate, quattrocentonovantadue consigli di amministrazione, diciassette società regionali che servivano solo ad assumere personale votante, e a comprare partecipazioni decotte (in Calabria aveva centocinquantacinque dipendenti, tutti assunti a chiamata diretta, contro i due in Lombardia). Soprattutto non faceva quello che sarebbe stato in parte il suo mandato, favorire l’apertura di piccole e medie imprese. Cosa che invece con Arcuri succederà. Arcuri prende infatti questo mini-Iri dei poveri e lo trasforma: chiude partecipazioni, licenzia, lo riassesta. Fa insomma quello che farebbe un consulente, ma lui è allo stesso tempo consulente e operativo. Nel frattempo passano i governi e i ministri e Invitalia diventa anche un po’ sexy, come il suo feudatario. Oltre a occuparsi delle crisi di impresa (le varie Bagnoli, Ilva, Whirlpool, con risultati poco incoraggianti), intercetta la moda delle startup, di cui diventa una specie di incubatore romano. Ancor oggi Invitalia coi suoi programmi “Smart and start” è tappa obbligata per chi voglia aprire un’impresa innovativa. Quindi il carrozzone si trasforma; anche se il metodo, e il mood, come sa chi abbia avuto a che fare con l’agenzia di via Calabria (nomen, omen), non è proprio da Silicon Valley. 

  

Nei salottini fumosi si viene ricevuti e ascoltati e rassicurati. La Silicon Valley si fonde perfettamente con la Prima Repubblica. “Un modo di gestire le relazioni molto andreottiano”, raccontano. L’ufficio di Arcuri e dei suoi è infatti aperto a tutti. Tutti vengono ascoltati, le richieste annotate. Non c’è la storica segretaria signora Enea, ma poco ci manca (letteralmente). L’andreottismo aveva fino a qualche anno fa  una sua rappresentazione plastica nella figura di Stefano Andreani, capo delle relazioni esterne, che era stato ultimo portavoce di Andreotti. Messo a Invitalia a tessere la tela con l’intero arco costituzionale. Tutti vengono ricevuti, ascoltati e annotati, poi il novantanove per cento delle richieste non viene esaudito, e però rimane l’impressione, raccontano, che qualcosa sia stato fatto, e comunque un seme è stato piantato. Insomma andreottismo puro, e chi lo conosce bene, Arcuri, sostiene che più che dalemiano o prodiano la chiave per capirlo è proprio Andreotti, col dialogo assolutamente non ideologico e spregiudicato con ogni forza in campo. Soprattutto col culto del provvisorio che si fa eterno, col tirare a campare assurto a forma d’arte.

  

Arcuri arriva infatti all’agenzia di via Calabria nel 2007 per un incarico che dovrebbe essere provvisorio, segnalato da D’Alema a Bersani allora ministro dello Sviluppo economico (i gloriosi tempi del decreto Bersani): e non se n’è più andato. Nel frattempo passano i ministri e i governi. Lui fa contenti tutti, ha ottimi rapporti con tutti (tranne coi montiani, forse perché i meno politici). E poi arriva il trionfo col governo Conte, che con l’emergenza Covid lo mette a capo di tutto.

  

Attenzione: Arcuri non è accondiscendente: al contrario. Non ha paura di battersi con sindacati, amministratori, imprenditori, cittadini. E questo è un ulteriore tratto del personaggio, che spiega come sia caro particolarmente alla politica in un momento in cui la politica ha paura della sua stessa ombra. Lui non cerca il consenso della base perché non si presenterà mai alle elezioni: il suo potere, come i senatori nello statuto albertino, discende dal sovrano. Non dal popolo. Nelle trattative è descritto come tostissimo. 

  

E certo c’è il mistero per cui lui solo e soltanto lui venga prescelto, ma i governi, specialmente quelli deboli, non hanno tempo di fare gran ricerche, scouting e provini, e dunque prendono un po’ il primo che passa. Ma lui non è il primo che passa: è come se si fossero incastrati un certo carattere, un modo di lavorare, e un’epoca storica in cui questo può risplendere finalmente in tutta la sua luce.  “Una volta che lui ti ha fatto il suo Powerpoint in cui decide che il sole sorge e tramonta a quella determinata ora, sarà impossibile contraddirlo, perché, con grande capacità di cavillare, ti dimostrerà che tu non capisci niente e ha ragione lui”, raccontano. “Lui è sempre stato così. Supportato da una sicurezza in sé stesso che lascia tutti conquistati e atterriti, fissa col suo Powerpoint l’obiettivo impossibile e lo annuncia: e poi se il piano non funziona come lui ha previsto, sarà colpa di qualcun altro: di volta in volta, delle regioni, della Pfizer, dei ‘liberisti da divano’, insomma di un qualunque colpevole. Il metodo Arcuri è sempre stato quello, accettare ogni sfida, dichiarare (con Powerpoint e fanfara) il piano e la sua intrinseca riuscita, poi passare oltre. Quindi è un metodo che viene da lontano e che ha trovato perfetta applicazione in questo momento storico, con una politica particolarmente non incline a prendersi delle rogne. ‘Pensaci tu’, gli dicono. E lui ci pensa. Adesso, il prossimo Powerpoint prevede di vaccinare tutti gli italiani entro l’autunno: ma se – secondo i dati di Arcuri – si fanno trionfalmente 70 mila iniezioni al giorno, essendo gli italiani 60 milioni, e i giorni 365, ci vorrà un anno solo per arrivare a 25 milioni, quasi tre anni per arrivare alla totalità…”.

  
Ma qui lui risponderebbe: “Noi abbiamo ragione, ma non abbiamo voglia di spiegarvelo”. Le conferenze stampa di Arcuri, il momento in cui si svela al mondo, sono ormai un genere a sé. La voce roca, la parlata lenta e scandita, accompagnata da un ondulare pedagogico della testa di capelli bianchi, per venire incontro alle ridotte capacità mentali dell’uditorio. Ipnotico: l’aria annoiata di chi per un rovescio della sorte si trovi ad avere a che fare con dei dementi. “Ha il piacere del mostrarsi”, dice Aldo Grasso. “Si accende la lucina della telecamera e lui è pronto, è lì, sta un sacco di tempo, tempo che evidentemente sottrae ai suoi molteplici dossier”. L’arroganza è talmente compiaciuta che fa simpatia, appunto come D’Alema. “Ha degli aspetti simpatici, se ne infischia delle critiche.

  

Come D’Alema, Arcuri dà il meglio con i giornalisti. Invitalia,  che doveva essere un trampolino di lancio, a tempo, l’ha risucchiato. Fino al Covid e a Conte, che ne ha fatto il supercommissario d’Italia, una specie di simmetrico di Bertolaso per Berlusconi. Il fumo, l’insonnia. Il Figaro tuttofare del “Barbiere di Siviglia”

  

E’ una maschera, forse anche per quello che riesce a infischiarsi delle critiche, è la forza di un attore”. Raccontano che per temprare un’intelligenza acuta ma molto, molto consapevole di sé, già da ragazzino, il padre di Arcuri, poliziotto, poi questore, gentiluomo meridionale, lo spedì, prima dell’università, all’accademia militare della Nunziatella, esperienza che il figlio ricorderà poi per sempre come micidiale ma determinante.
  
Come D’Alema, Arcuri dà il meglio coi giornalisti. “Intanto volevo darle il benvenuto tra noi, credo sia la prima volta che lei partecipa a questa conferenza stampa”, a un inviato di Giletti. “Se non fossimo tutti protagonisti di una tragedia dovrei rispondere che è una farsa immaginare che possa uscire solo chi ha scaricato la app”. “Ho apprezzato la profondità delle sue informazioni, meno delle verità che mi ha rivelato”; “Avrei tanta voglia di parlare dei liberisti che emettono sentenze quotidiane da un divano con un cocktail in mano. Ma non lo farò”. Fino al sublime: “Penso di avere comunicazioni sufficienti, ma di non avere voglia di divulgarle”.  Questo tipo di discorso i puristi arcuriani ormai lo riconoscono al volo: “E’ la figura retorica della preterizione”, sostiene Grasso. Molto rara. Altro che le banali metafore o metonimie. Secondo la Treccani la preterizione è “la figura retorica che consiste nell’affermare di voler tacere qualcosa di cui tuttavia si parla o comunque si fa cenno. L’effetto ricercato è, in realtà, di mettere in evidenza ciò che apparentemente viene tralasciato. Nel discorso comune compaiono molte forme rituali di preterizione (meglio non parlare di…, per non dire… ecc.)”. 

  

La preterizione come il “diciamo” dalemiano. Teatro. Ma dietro al dalemismo di facciata, raccontano di un uomo intelligente e perfino sensibile. Padre affettuoso, compagno pure, anche dopo la separazione con la televisiva Myrta Merlino (con la ipsilon). Corretto. Raccontano anche che però, nonostante la lunga separazione, il suo orgoglio di maschio alfa calabrese non si sia mai riavuto dal successivo legame della Merlino con Marco Tardelli (unico 8 in pagella, ricordiamolo, nel leggendario diario di Moana Pozzi sugli italiani notevoli a letto). L’Arcuri capovolto fa simpatia, ha pure delle debolezze.

  

   

E proprio capovolgendo il punto di vista si capisce anche il suo dramma. Sarà anche vero che è il secondo manager di stato più “antico d’Italia”, come ha scritto il Manifesto (il primo sarebbe Giuseppe Bono, capo di Fincantieri dal 2002). Ma Invitalia non è mai stata una agenzia veramente strategica, e lui è lì, incistato, dal 2007. Attirato in quel mammozzo con la promessa di ben altri ruoli, che poi non sono arrivati. Quello che doveva essere un trampolino di lancio, a tempo, l’ha risucchiato.  Il salto verso una poltrona che conta è fallito (l’obiettivo era quello di Cdp, che poi non è riuscito, o Finmeccanica, nemmeno, o un ministero, neanche, finora). Insomma alla fine, prima della provvidenziale pandemia, Arcuri non era mai stato un accumulatore seriale di incarichi, tutt’altro. Fornitore di servizi per tutti i  governi che si sono succeduti, destra o sinistra che fossero. Fino al Covid e a Conte, che ne ha fatto il supercommissario d’Italia, una specie di simmetrico di Bertolaso per Berlusconi. A Francesco Merlo ha detto: “Sono abbastanza cretino da non meritare di meglio e abbastanza intelligente da non perdere quello che ho meritato”, frase sibillina che concentra nell’involuta lingua arcuriale un’opinione stellare di sé ma anche un rimpianto, quello di essere rimasto incastrato. Certo, con uno stipendio importante (su cui indaga da tempo la Corte dei conti), ma per questo tipo di persone si sa che non sono i soldi che contano. Lui aspetta il grande salto. Ma intanto rimane lost in Invitalia.

  

Mentre passano i governi e crescono gli incarichi, piccoli cambiamenti nell’abito: se negli anni pre-covid Arcuri brillava per eleganza Luiss-Invitalia, adesso ha adottato un look più contemporaneo: giacca blu, e sotto maglione, un po’ Bertolaso e un po’ Marchionne. Addirittura un’abiura. “Odio le cravatte”, dove la cravatta forse è simbolo del suo eterno passato.  Come Berlusconi ama e si consola con le antichità: appena può corre nella bottega della presidente degli antiquari italiani, Alessandra Di Castro.

 
Mentre aspetta il grande salto fuma, fuma molto. Non si sa quando abbia cominciato, eppure il fumo pare una componente interessante del personaggio. Intanto quando fumava, fumava non sigarette qualunque ma Marlboro rosse, che, come direbbe Arcuri, sono uno “statement”: le sigarette assolute, anche se adesso è passato a quelle elettroniche. Altri cambiamenti, Ma il fumo, oltre a dargli quel colorito della pelle un po’ traslucido, porta a un aspetto più sottile di Arcuri. Arcuri non solo è un fumatore accanito: ha un’expertise (direbbe sempre Arcuri) segreta e peculiare. E’ infatti, raccontano, un fumatore amante dei luoghi più strani e impervi, e conosce ogni espediente per fumarvi a dispetto di allarmi e restrizioni. Racconta chi ha viaggiato con lui che ama fumare soprattutto nei bagni degli aerei: conosce infatti a memoria i tempi di tolleranza degli allarmi. Mettiamo: Alitalia ci mette dieci secondi prima che il fumo venga rilevato e attivi l’allarme; Air France quindici; Delta venticinque. Lui conosce tutte queste tempistiche, che condivide con sparuti appassionati del genere. Il dettaglio, insignificante in sé, spiega forse un lato del personaggio che è un po’ da giocatore d’azzardo, di chi cerca sempre di spingere un po’ più in là il limite.

  

E questo si concilierebbe anche con un carattere che dietro la bardatura dalemiano-andreottiana cela ansie e dolori insospettabili (e l’insonnia al posto del leggendario mal di testa andreottiano). Anche, un ego solidissimo, perché poi chi di noi, anche solo con mezzo dei venticinque incarichi arcuriani, non crollerebbe impasticcato di Xanax di mattina presto? Lui invece va avanti. Agisce e aspetta. Accumula e attende, come uno che invece che comprarsi il mobile buono si sfonda di librerie Billy dell’Ikea. “Una tenuta psicologica notevole”, dice Aldo Grasso. “Un altro sarebbe già crollato sotto tutte queste critiche. Ma lui ha il temperamento del commis di stato, del sottogoverno, che spesso è più importante del governo”. Arcuri peraltro odia quel termine, sottogoverno. “Che brutta parola”, ha detto a Merlo. “Se c’è un sotto-governo potrebbe esserci anche un sopra-governo”. 

   

Sopra o sotto, un lavorio comunque infinito. Goffredo Buccini sul Corriere l’ha paragonato a Figaro, il tuttofare più celebre del teatro lirico. Mi rivolgo ancora una volta a un tecnico. Alberto Mattioli è il più brillante critico operistico della sua generazione (Pazzo per l’opera è l’ultimo suo libro per Garzanti). Ha visto 1.777 spettacoli (il numero è costantemente aggiornato). “Arcuri è la figura più teatrale che è venuta fuori in questo periodo in Italia”, mi dice. “E sì, sicuramente è Figaro del Barbiere di Siviglia di Rossini: Figaro è infatti il tuttofare, l’uomo per tutte le stagioni e per tutte le missioni. E poi  il Figaro di Rossini è un personaggio romano: il Barbiere viene rappresentato per la prima volta a Roma nel 1816. E l’autore del libretto, Cesare Sterbini, di mestiere faceva il funzionario delle dogane pontificie, insomma Iri in purezza”. “Però…”. Mattioli qui ha un attimo di incertezza. “Arcuri non è completamente Figaro, non è solo quello. A Figaro intanto gli vanno tutte bene. E poi è simpatico, allegro, solare. Mentre Arcuri secondo me ha un fondo di sud torvo e luttuoso, vendicativo e feroce, dunque direi anche compar Alfio di Cavalleria Rusticana. Contemporaneamente non glie ne va bene una, dunque direi pure un po’ conte d’Almaviva delle Nozze di Figaro di Mozart, che per quattro atti cerca di portarsi a letto Susanna, che è una sua serva, e non sarebbe dunque cosa difficile in sé. Ma lui proprio non riesce. E’ un personaggio fondamentalmente tragico, perché pur avendo tutte le possibilità, i pieni poteri, proprio come Arcuri, non porta a termine nulla”.

  
Insomma, bisognerà vedere cosa farà Arcuri nel suo atto finale, dopo l’accumulo seriale di cariche, se riuscirà a sopravvivere anche all’attuale governo, se crollerà con questo, se compirà finalmente il grande salto. “Bisogna vedere”, dice Mattioli, “se come il conte d’Almaviva si dovrà pentire pubblicamente e scusarsi cantando ‘contessa, perdono’, che è la più bella frase musicale mai scritta in un’opera lirica”. Certo avendolo studiato da vicino si capisce che la sua è una posizione meno invidiabile di come potrebbe sembrare: non può dire di no a nulla, deve dimostrare continuamente di essere unico e insostituibile, in vista di nuovi incarichi. Si capisce anche la tensione, e gli sbrocchi in conferenza stampa. Ma poi viene in mente un’immagine:  è come se Arcuri – per restare al pop – fosse il Muccioli delle crisi italiane. Con metodi talvolta sbagliati, con successi e insuccessi, con un caratteraccio, molti fan e molti detrattori, alla fine Arcuri è l’unico che si prende carico di enormi rotture e gatte da pelare. Rispetto alla modestia della classe dirigente attuale, lui ha una sua grandezza, rispetto a questi impauriti dalla loro stessa ombra, lui con la sua arroganza fa le cose, o almeno ci prova.  La sua Invitalia è la SanPa delle crisi italiche: tutte vogliono andare da lui, drogate di contributi pubblici e decotte dalle malagestioni. Nessuno le sistema, nessuno se le fila, tranne l’Arcuri, il loro guaritore, uno magari non simpatico ma che non si preoccupa dei rischi e le fa entrare, anzi ne fa entrare sempre di nuove. In un paese di governi passeggeri e instabili, e che comunque delegano, uno così, che nel paese del “non si può fare”, dice in continuazione: yes we can, è un eroe civile. Certo  non sempre le cose vanno per il verso giusto, certo ogni tanto ci scappa il morto, però è vero che senza di lui forse sarebbe andata peggio. E comunque intanto c’è un nuovo governo e nuovi dossier. E lui questo lo sa, va avanti, col suo nuovo Powerpoint, e le sue nuove missioni impossibili: ma intanto al dunque è già lontano, è già al prossimo proclama, dopo Immuni, banchi, tamponi, siringhe, adesso dice: “A febbraio vaccineremo tutti gli ottantenni!”; e “entro l’autunno tutti gli italiani”. I numeri non sono d’accordo? Lui scuoterebbe la testa, sorridendo, e forse direbbe, sgranando gli occhioni  e scandendo bene le parole: “Noi vorremmo tanto parlarvi dei numeri, ma non ne abbiamo voglia”.  
   

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