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il foglio del weekend

Dietro il rebus di Mario Draghi

Stefano Cingolani

Tutti lo vogliono, tutti lo cercano. Un po’ deus ex machina, un po’ convitato di pietra. Come decifrare silenzi e segnali

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Un po’ Figaro perché tutti lo vogliono e tutti lo cercano (o almeno così sembra). Un po’ deus ex machina perché dovrebbe sciogliere sul palcoscenico italiano l’intreccio micidiale tra pandemia e recessione. Un po’ convitato di pietra, soprattutto per chi solo a sentirlo nominare si fa venire l’orticaria. Una cosa è certa: Mario Draghi non farà il profeta disarmato, è un ruolo che non gli si addice. Riserva della Repubblica sì, ma in nessun modo un re travicello. Tante metafore, persino troppe, per riempire un silenzio quanto mai rumoroso, perché l’italiano più stimato e conosciuto all’estero ha parlato, eccome. Si può persino dire che l’annus horribilis sia stato aperto da un suo denso intervento e chiuso con un suo monito da brivido perché le cose, ha detto, sono persino peggiori di quel che avevamo immaginato. Una sola cosa Draghi evita accuratamente di menzionare: il caso italiano, per lo meno non lo fa apertamente tanto che gli esegeti sono costretti a leggere tra le righe, a interpretare i fondi di caffè, a decrittare i segnali che arrivano da più parti, persino dalla destra sovranista che odia i tecnocrati, gli eurocrati, i banchieri e che per anni ha messo sul banco degli accusati propria la Bce in particolare quella guidata da Draghi reo di aver salvato la moneta comune nel 2012. Di acqua ne è passata tanta da quel “whatever it takes” che ha mandato su tutte le furie B&B (Borghi & Bagnai), gli ideologi di Matteo Salvini, e i ponti ormai sono lì lì per crollare. Anche se il “capitano” leghista continua a detestare l’euro, l’Unione, l’Europa e a sognare una notte Boris Johnson e l’altra Vladimir Putin, travolto dalla pandemia che ha colpito più di altre regioni proprio le sue roccaforti, Lombardia e Veneto, è costretto a ingoiare il boccone indigesto fino al punto da lanciarsi in una proiezione a breve: “Un’alternativa liberale a Giuseppe Conte c’è”,  ha dichiarato il 4 gennaio, “se non hanno voglia di governare noi siamo pronti. Mario Draghi? Non faccio nomi”. Ma basta, non arriviamo subito a conclusioni improvvisate, è meglio mettere in fila, uno dietro l’altra, tutti gli indizi.

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Un po’ Figaro perché tutti lo vogliono e tutti lo cercano (o almeno così sembra). Un po’ deus ex machina perché dovrebbe sciogliere sul palcoscenico italiano l’intreccio micidiale tra pandemia e recessione. Un po’ convitato di pietra, soprattutto per chi solo a sentirlo nominare si fa venire l’orticaria. Una cosa è certa: Mario Draghi non farà il profeta disarmato, è un ruolo che non gli si addice. Riserva della Repubblica sì, ma in nessun modo un re travicello. Tante metafore, persino troppe, per riempire un silenzio quanto mai rumoroso, perché l’italiano più stimato e conosciuto all’estero ha parlato, eccome. Si può persino dire che l’annus horribilis sia stato aperto da un suo denso intervento e chiuso con un suo monito da brivido perché le cose, ha detto, sono persino peggiori di quel che avevamo immaginato. Una sola cosa Draghi evita accuratamente di menzionare: il caso italiano, per lo meno non lo fa apertamente tanto che gli esegeti sono costretti a leggere tra le righe, a interpretare i fondi di caffè, a decrittare i segnali che arrivano da più parti, persino dalla destra sovranista che odia i tecnocrati, gli eurocrati, i banchieri e che per anni ha messo sul banco degli accusati propria la Bce in particolare quella guidata da Draghi reo di aver salvato la moneta comune nel 2012. Di acqua ne è passata tanta da quel “whatever it takes” che ha mandato su tutte le furie B&B (Borghi & Bagnai), gli ideologi di Matteo Salvini, e i ponti ormai sono lì lì per crollare. Anche se il “capitano” leghista continua a detestare l’euro, l’Unione, l’Europa e a sognare una notte Boris Johnson e l’altra Vladimir Putin, travolto dalla pandemia che ha colpito più di altre regioni proprio le sue roccaforti, Lombardia e Veneto, è costretto a ingoiare il boccone indigesto fino al punto da lanciarsi in una proiezione a breve: “Un’alternativa liberale a Giuseppe Conte c’è”,  ha dichiarato il 4 gennaio, “se non hanno voglia di governare noi siamo pronti. Mario Draghi? Non faccio nomi”. Ma basta, non arriviamo subito a conclusioni improvvisate, è meglio mettere in fila, uno dietro l’altra, tutti gli indizi.

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Il 25 marzo, mentre incombe il lockdown, il Financial Times pubblica una serie di articoli su come affrontare le conseguenze della pandemia. E Mario Draghi parla urbi et orbi per la prima volta dopo il suo addio alla Bce nel novembre 2019. Indebitarsi è inevitabile, non ci sono alternative per i governi, scrive. “Dobbiamo proteggere in primo luogo chi rischia di perdere il lavoro, ma c’è bisogno di un approccio più ampio, mobilitando l’intero sistema finanziario pubblico e privato e va fatto subito senza ulteriori ritardi”. Il suo invito apre il confronto nell’Unione europea che dà il via all’utilizzo del fondo salva stati, il Mes, per le spese sanitarie, e al Next Generation Eu. Sono sul tappeto quasi duemila miliardi di euro nei prossimi sei anni.

  

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Il 18 agosto Draghi apre l’annuale meeting di Comunione e Liberazione a Rimini con un discorso che segna uno spartiacque, distinguendo tra debito buono e debito cattivo. Il primo è quello che serve alla crescita, mentre il secondo si esaurisce nell’assistenzialismo. “I sussidi finiscono, ai giovani bisogna dare di più”, proclama tra applausi scroscianti. Fedele al suo imperativo, non ha espresso nessuno giudizio sul governo, ma tutti gli osservatori hanno notato che non ha concesso niente, non ha apprezzato nessuno dei provvedimenti presi, ha parlato soltanto di “un pragmatismo che meglio rispondesse alle mutate condizioni”. Non gli è sfuggito che l’eco al suo articolo di marzo abbia prodotto in Italia un via libera ai bonus come strumento permanente, come strategia di politica fiscale, esaurendo così gli spazi di manovra, nella speranza di ottenere subito una sorta di anticipo sui futuri sostegni europei pur senza ricorrere ai prestiti del Mes. La filosofia del pranzo gratis, così diffusa nello spettro politico italiano, secondo la quale il debito non conta, basta stampare moneta, è diventata una vera e propria ebbrezza fino al punto che il ministro dell’Economia si è trovato a raschiare il fondo del barile. La dimostrazione è nella legge di Bilancio per il 2021, prudente fino all’estremo, perché Roberto Gualtieri ha scoperto di non avere più fieno in cascina. Tanto che 80 miliardi di euro, dei circa 200 richiesti alla Ue, serviranno per coprire voci già considerate nei saldi di bilancio, insomma risorse straordinarie per pagare spese ordinarie, anche a costo di ridurre l’impatto espansivo sull’intera economia. Secondo le previsioni del Tesoro, il debito italiano, salito al 160 per cento del prodotto lordo, tornerà allo stesso livello del 2019 solo tra dieci anni, e anche così ci vorrà molta fortuna e una politica di bilancio stringente: si prevede una crescita media del 4 per cento, due in termini reali più due con l’inflazione e un deficit pubblico che scende dal 10 al 3 per cento in media. Rebus sic stantibus, ovvero con tassi d’interesse pressoché nulli e una politica iper-espansiva della Bce. Più che proiezioni sarebbe da chiamarle scommesse. 

   

A metà dicembre Mario Draghi parla ancora, presentando un rapporto del gruppo di trenta grandi personalità internazionali, redatto da Douglas Elliott di Oliver Wyman e Victoria Ivashina della Harvard Business School, e firmato insieme all’economista Raghuram Rajan. “Il flusso di sussidi pubblici e credito garantito da parte dei governi, sta coprendo una realtà che è molto più preoccupante di quanto possiamo stimare per il momento”, avverte Draghi e aggiunge: “Questa è un’opportunità unica di investire in molti progetti di valore elevato. Se sono vecchi o nuovi non è importante, ciò che conta è che il loro valore sociale sia dimostrabile”. Torna il debito buono e il rapporto del G30 è esso stesso un’agenda per il futuro prossimo venturo. Dal governo non arrivano reazioni, ma Matteo Renzi coglie la palla al balzo per dichiarare insufficienti sia le misure previste nella legge di Bilancio sia il piano per la ripresa sul quale si aprono due incognite: il che fare e chi lo fa, cioè chi gestisce quei 200 miliardi che per l’Italia hanno il sapore dell’ultima spiaggia. Torna di nuovo in scena, così, Mario Draghi. Perché non affidare a lui il piano, come superministro, come commissario, come guida di una task force? E’ quel che sostiene apertamente e da tempo Giorgio La Malfa; con la fondazione intitolata al padre Ugo e insieme all’Assonime, la società che rappresenta le aziende quotate in borsa presieduta da Innocenzo Cipolletta e diretta da Stefano Micossi, ha proposto la nascita di “un istituto specifico per l’esecuzione del piano Italiano, operativo per tutta la durata del Next Generation Eu e guidato da una persona di indubbio prestigio internazionale”. In cima alla lista c’è proprio Draghi insieme a Sabino Cassese e Carlo Cottarelli. Un segnale, anzi di più, una proposta concreta che manda in sollucchero il neonato “Movimento cittadino per Draghi presidente” fondato da un imprenditore di Udine, Stefano Cautero. “Le nostre fila non vantano alcuna figura politica rodata o di spicco”, si sottolinea in una nota, “solo capaci e laboriosi cittadini, di ogni estrazione sociale, di variegata scolarizzazione e provenienza, che vogliono vedere il nostro paese guidato in modo sicuro e capace in questo di difficile momento. Serve un capo del governo sostenuto da tutto il Parlamento che possa, anche con immediatezza, rimuovere vincoli, lacci e lacciuoli che rendono impossibile alla pubblica amministrazione di progettare e spendere con efficacia le sovvenzioni europee in tempi certi e brevi”. Non sappiamo come finirà la baruffa nel e sul governo. Da quel che si capisce ci sarà un rimpasto, magari un Conte ter, riesumando i rituali della Prima Repubblica tanto amati da Paolo Cirino Pomicino. Ma se intanto qualcuno cominciasse a tradurre in misure concrete quel che l’ex governatore per un anno, nell’intero annus horribilis, ha detto e ripetuto?

 

La carta Draghi è pronta per essere giocata, bisogna attendere solo che Sergio Mattarella ne sia convinto superando le sue ultime resistenze. E’ quel che sostiene il direttore del Giornale Alessandro Sallusti e lo ha scritto papale papale in un editoriale del 21 dicembre. Da allora gli osservatori politici hanno scrutato ogni segnale di fumo proveniente dalla presidenza della Repubblica. Tra essi c’è anche una recensione uscita, e probabilmente non a caso, sul Corriere della Sera. Marzio Breda, quirinalista principe dello storico “giornale della borghesia settentrionale”, ha recensito il libro di Paolo Armaroli, costituzionalista già deputato di An, e dedicato ai “due presidenti”, il presidente del Consiglio e quello della Repubblica. I lettori attenti hanno notato alcune osservazioni. Conte secondo Armaroli è diventato “più mattarelliano di Mattarella”. Affermazione sorprendente vista la enorme differenza politica e umana. Nota Breda: “Una metafora che suona da provocazione, se non altro perché glissa su un certo animus vendicativo del premier”, diventato capo del governo quasi per caso, ma poi rimasto a Palazzo Chigi come il paguro Bernardo nella sua conchiglia. “Non occorre essere antipatizzanti per avere qualche riserva su come gestisce l’azione di governo”, è la sferzata di Breda. Una osservazione che ai più sembra anch’essa un messaggio, uno tra i tanti, ma non uno come tanti. 

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E il Supermario sempre più super? Lui non tradisce l’aplomb al quale è rimasto coerente per un trentennio. Tutt’al più indossa un soprabito, contro le antiche abitudini che avevano indotto a definirlo atermico. Non ha preso, invece, un filo di grasso, il che fa pensare che resti affezionato alle barrette energetiche, né mostra capelli bianchi nonostante abbia 73 anni (è nato a Roma il 3 settembre 1947). Draghi è nella capitale, non è chiuso nel buen retiro a Città di Castello; si muove tra la casa ai Parioli, il quartiere del potere borghese, l’ufficio in via Nazionale assegnatogli come governatore onorario, con qualche puntata in Vaticano (a luglio Papa Francesco lo ha nominato nell’Accademia pontificia delle scienze sociali) e una boccata d’aria al Pincio con la moglie Maria Serenella Cappello che ha sposato nel 1973. Sotto i riflettori solo in effigie e lontano dai giornalisti tranne i pochissimi dei quali si fida, ha l’Italia sempre in mente, ma mai oltre la punta della lingua. Si è sbilanciato solo contro la Juventus: romanista da sempre, ha esultato con Aurelio De Laurentiis, suo compagno al liceo Massimo, quello dei gesuiti, perché il Napoli potrà ripetere la partita saltata a causa del Covid-19. Per il resto, Draghi aspetta e fa maturare le messi. Prudente, attento a ogni stormir di fronde, eppure determinato come ha dimostrato in tutto il suo cursus honorum: da direttore generale del Tesoro, quando è stato artefice del piano di privatizzazioni del capitale pubblico più ampio di quello britannico lanciato da Margaret Thatcher; da governatore della Banca d’Italia, quando ha sciolto lacci e lacciuoli alle banche lasciandole libere di fondersi, unirsi, maritarsi (persino troppo secondo i critici che hanno in mente il Monte dei Paschi di Siena e la sciagurata acquisizione dell’Antonveneta) e soprattutto al timone della Banca centrale europea, trasformando in modo probabilmente irreversibile il suo modus operandi, allontanandola dalla ortodossia tedesca e avvicinandola sostanzialmente al modello anglo-americano. Adesso guarda con attenzione non solo dentro il suo paese, ma fuori: attorno, cioè in Europa, e oltre, cioè negli Stati Uniti, consapevole che dalla sconfitta nella Seconda guerra mondiale in poi le sorti politiche dell’Italia sono legate in modo strutturale all’alleanza atlantica. Era evidente durante la Guerra fredda, ma lo è stato anche dopo e lo dimostra la guerra in Kosovo preceduta dalla caduta del governo Prodi. Gli Stati Uniti guidati da Bill Clinton accettarono persino un ex comunista a capo del governo, cioè Massimo D’Alema, purché disposto a far decollare i cacciabombardieri sui cieli della Serbia, come ricordava più volte anche Francesco Cossiga nei suo amletici elogi della follia.

   

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Nel biennio fatale 2010-2012, tra la crisi greca e il salvataggio della moneta unica, non va dimenticato il ruolo di Barack Obama nel premere su Angela Merkel e nell’aprire spazi all’audace manovra di Mario Draghi. Il drammatico passaggio di poteri negli Stati Uniti prelude a un riallineamento anche sul piano internazionale, a cominciare dall’Europa. Joe Biden con un’America lacerata e sanguinante, ha bisogno di assicurarsi una coalizione di volenterosi all’estero per frenare la Cina e contenere la Russia. La Germania, dipendente dal gas russo e artefice del patto euro-cinese è agli occhi dei democratici americani il ventre molle della Ue, l’Italia è il fianco sud, sempre più scoperto, come dimostra il fallimento libico. Vasto programma che ha bisogno di amici capaci, autorevoli, solidi. A Berlino l’incognita è nel dopo Angela. A Roma l’incertezza non riguarda tanto il futuro di Conte e del suo governo, quanto il consolidamento economico e la stabilità del paese. Non è certo un caso se i vertici dei servizi segreti sono una delle questioni più spinose da risolvere in questa mini-crisi di governo. La nuova Amministrazione non dimenticherà facilmente le visite del procuratore generale William Barr in piazza Dante a Roma (quella che è stata chiamata la Langley italiana) per discutere il Russiagate e le intromissioni putiniane a favore della elezione di Trump. Oppure le chiacchierate di Mike Pompeo con Giuseppi. E sono riemerse persino le accuse a Matteo Renzi di aver tramato per conto di Obama. Dopo l’irruzione del “popolo in marcia” nelle aule del Congresso, nient’affatto sorde e vuote, Trump si è suicidato trascinando con sé i repubblicani, tuttavia la politica non dimentica e consuma nel tempo la sua rivincita. In questo nuovo scenario Draghi, con la sua fama e la sua credibilità anche nei confronti dell’establishment americano, darebbe un contributo prezioso a Palazzo Chigi o ancor più al Quirinale anche se quella per il Colle è una corsa piena di trappole che ha sempre ribaltato ogni pronostico: chi è entrato presidente ne è uscito, al più, senatore. Tortuosi sono i giochi, molteplici le insidie, e il fattore tempo è decisivo. Potremo aspettare ancora un anno?

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