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“Per una nuova destra serve il vecchio Fini”. Lettera a Meloni & Co.

Mario Landolfi

Piaccia o no, la fiamma nel simbolo rende il partito della Meloni erede di quello di Fini. Riscoprire il "fattore" F

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Al direttore - Destra italiana e “fattore F”: attrazione fatale. Non più quello evocatore del fascismo nei tempi missini, ma quello che da un decennio indica furiosamente Fini, inteso come Gianfranco. E se del primo l’antica destra di Giorgio Almirante ha pugnacemente difeso la memoria, del secondo l’attuale destra di Giorgia Meloni ha cancellato persino il ricordo. Peggio è capitato solo a Marin Faliero, il doge fellone la cui effigie a Venezia è tuttora ricoperta da un drappo nero.

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Al direttore - Destra italiana e “fattore F”: attrazione fatale. Non più quello evocatore del fascismo nei tempi missini, ma quello che da un decennio indica furiosamente Fini, inteso come Gianfranco. E se del primo l’antica destra di Giorgio Almirante ha pugnacemente difeso la memoria, del secondo l’attuale destra di Giorgia Meloni ha cancellato persino il ricordo. Peggio è capitato solo a Marin Faliero, il doge fellone la cui effigie a Venezia è tuttora ricoperta da un drappo nero.

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A Fini non si perdona (con ragione) di aver sferrato il calcio dell’asino ad un Berlusconi già ammaccato dal “caso Ruby” e messo fuori gioco dai beffardi sorrisetti di Merkel e Sarkozy. Né (ancora con ragione) di essersi accorto fuori tempo massimo delle pendenze giudiziarie del Cavaliere e di alcune sue umane debolezze. Ma a distanza di tempo si può sostenere che all’accusa di deviazionismo politico Fini fosse in qualche modo predestinato. Di “tradimento” e di “attentato all’identità” egli era già pesantemente indiziato ben prima della scissione di Fli, e con largo anticipo sulla sciagurata mozione di sfiducia ricacciatagli in gola dall’abilità manovriera di Berlusconi. Era dai fasti di Fiuggi che il giovane leader imposto da Almirante e ispirato da Tatarella camminava sul filo del sospetto. Se i sussurri non sublimarono in grida, era solo perché in tempi di vacche grasse persino i più irriducibili si riscoprono transigentissimi. Cosicché quando ridusse l’ardente Fiamma missina a fornellino di Alleanza Nazionale, solo in pochi seguirono Rauti. In compenso, più d’uno abbozzò ritenendo la svolta solo un gattopardesco adattamento al bipolarismo elettorale. Non Fini, però, che al congresso di Fiuggi fece seguire, nel ’98, la Conferenza di Verona, concepita sull’illusoria pretesa di trasformare An in un “partito di programma”. Durò mezza giornata. Giusto il tempo per Berlusconi di organizzare il richiamo della foresta sotto forma di “Libro nero del comunismo”. Ne dispensò copie a mo’ di volantini. Un trionfo. A conferma che era ancora quella la musica che mandava in delirio il popolo della destra, non certo i grafici Istat o le tabelle ministeriali. Fini però non mollò e l’anno dopo, alle Europee, imbarca l’antiberlusconiano Mariotto Segni. Liste comuni con il simbolo di An in condominio con l’Elefantino. Nulla viene trascurato perché l’innesto sia seguito da un salasso elettorale. Obiettivo centrato. Ma è in terra di Israele che la tendenza “deviazionista” celebra la propria apoteosi. E quando le agenzie battono la sua dichiarazione sul “fascismo male assoluto” (in realtà, si riferiva alle leggi razziali), per Fini è come un tuffo in una piscina senz’acqua: letale. Fiuggi, Verona, Elefantino, “male assoluto”: “tradimento” in quattro tappe. E tuttavia filotto troppo mirato e in gran parte condiviso con il colonnellume pro-tempore (compreso chi scrive) per fare del fondatore-affondatore un sicario che attende nell’ombra. Insomma, per comprendere il mesto epilogo della parabola finiana occorre ritornare laddove era cominciata, a Fiuggi.

 

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Se sul piano storico, quella svolta era consistita nell’archiviazione del cinquantennale “fattore F”, su quello politico si era tradotta nella pretesa del nuovo partito di navigare in mare aperto persino ora che la “discesa in campo” di Berlusconi gli imponeva di presidiare il lato destro (e sudista) della coalizione. Più che “sdoganato” An, il Cavaliere aveva arginato il suo leader. Ma l’implicito status di liberto a Fini pesava. Così come l’interpretare copioni altrui o ruoli a sovranità limitata. Di destra sì, ma senza ingerenze sullo spartito. Da qui la competizione bella e impossibile con Berlusconi - icasticamente racchiusa nella frustrazione del “che fai, mi cacci?” - sulla quale, specie nella tormentata fase del Pdl, era nel frattempo lievitato anche un contenzioso in cui personale e politico s’intrecciavano fino a confondersi. L’humus ideale di ogni “tradimento”. Ma è realmente tale la strategia che si dipana attraverso svolte annunciate, competizione ostentate o ribellioni sfrontate? Il tradimento è piuttosto un gioco di inganni e di dissimulazioni bardato coi finimenti del servo encomio e del cortigiano inchino. Elementi introvabili nelle fasi del distacco finiano.

 

Persino nella trama ordita in sponda con altri Palazzi, il leader di Fli aveva scoperto le sue carte. Neppure ha tentato di schermirsi dietro il pulpito istituzionale di terza carica dello Stato. La disperata cavalcata verso il disastro, prima politico e poi elettorale, l’ha condotta personalmente. “Peggio che un tradimento, un errore”, si potrebbe dire parafrasando Fouché. E che di errore si tratti, lo conferma il destino di irrilevanza cui si è condannato laddove uno strapuntino al banchetto della storia i traditori lo rimediano sempre. In realtà, Fini aveva puntato d’azzardo sul logoramento della leadership berlusconiana. Ma di fronte aveva un professionista della resurrezione. Infatti il Cavaliere è on e lui off. Tuttavia, a metterli in rotta di collisione non fu solo il (fondato) timore dell’ex-delfino di restare eterno erede di un Re politicamente immortale, ma (nella fase pre-Fli) anche l’ansia di mettere in sicurezza la destra e assicurarle un futuro che prescindesse dalle fortune dell’Alleato. Non avesse tentato il sorpasso sulla corsia sbagliata, un busto in un ideale Mount Rushmore della destra italiana non glielo negherebbe nessuno. Invece è sotto un drappo nero come il doge fellone. E vi resterà fino a quando un gesto di coraggio non ne dichiarerà cessata la damnatio memoriae. Tocca alla destra attuale compierlo, in nome della continuità. Piaccia o no, la fiamma nel simbolo rende il partito della Meloni erede di quello di Fini e fa di gran parte delle rispettive storie politiche una storia comune. Non accettarne le conseguenze per ostinarsi a confinare tra parentesi il nuovo “fattore F” sarebbe un errore. Il nuovismo è un falso mito che condanna all’inconcludenza del presentismo i suoi cultori. Al contrario, sapere da dove si viene è il miglior modo per andare avanti senza smarrirsi.

 

Mario Landolfi
Ex dirigente di An e già ministro delle Comunicazioni

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