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Fiducia e buonsenso ci hanno salvato, alla faccia dello stato-burocrate

Chicco Testa

Sarà mai possibile improntare il rapporto fra lo stato e i cittadini a una maggiore dose di fiducia e di libertà individuale?

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Ma casa mia dove in una stanza lavoro io, in un’altra mia moglie e in una terza mio figlio anche lui in smart working e impossibilitato a ritornare nel paese in cui usualmente lavora che cosa è: un A/2 (civile abitazione) o un A/10 (ufficio)? E se è un ufficio, almeno per buona parte della giornata, sono rispettate le condizioni di sicurezza che si esigono dagli uffici normali? Per fortuna nessuno ha posto queste domande, anzi sì, ho letto un’intervista di un sindacalista che richiedeva lo stato di infortunio sul lavoro per chi, lavorando da casa, dovesse magari picchiare la testa contro la libreria. Ma in questo 2020 sono saltati molti confini e le tecnologie hanno modificato tante altre abitudini, sia nella vita lavorativa – che non tornerà mai più come prima – sia in quella di ogni giorno. Con uno strano paradosso: mentre da un lato le disposizioni del governo, alcune francamente assurde (cito titoli di giornali: “Non sarà obbligatorio dire da chi si va a cena” e “sarà possibile fermarsi a dormire a casa d’altri”) cercavano di normare ciò che è impossibile normare, dall’altra abbiamo dovuto fare tutti, stato compreso, un largo ricorso alla fiducia reciproca e alla flessibilità dei rapporti. Mentre il cervello del burocrate si esercitava a prevedere l’imprevedibile per fortuna gli italiani si sono adattati a fare di necessità, se non virtù, almeno una strada da percorrere con un po’ di buonsenso. Sarà mai possibile estendere il metodo alla vita normale, che speriamo ci aspetti in un non lontano futuro, e improntare il rapporto fra lo stato e i cittadini a una maggiore dose di fiducia e di libertà individuale?

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Ma casa mia dove in una stanza lavoro io, in un’altra mia moglie e in una terza mio figlio anche lui in smart working e impossibilitato a ritornare nel paese in cui usualmente lavora che cosa è: un A/2 (civile abitazione) o un A/10 (ufficio)? E se è un ufficio, almeno per buona parte della giornata, sono rispettate le condizioni di sicurezza che si esigono dagli uffici normali? Per fortuna nessuno ha posto queste domande, anzi sì, ho letto un’intervista di un sindacalista che richiedeva lo stato di infortunio sul lavoro per chi, lavorando da casa, dovesse magari picchiare la testa contro la libreria. Ma in questo 2020 sono saltati molti confini e le tecnologie hanno modificato tante altre abitudini, sia nella vita lavorativa – che non tornerà mai più come prima – sia in quella di ogni giorno. Con uno strano paradosso: mentre da un lato le disposizioni del governo, alcune francamente assurde (cito titoli di giornali: “Non sarà obbligatorio dire da chi si va a cena” e “sarà possibile fermarsi a dormire a casa d’altri”) cercavano di normare ciò che è impossibile normare, dall’altra abbiamo dovuto fare tutti, stato compreso, un largo ricorso alla fiducia reciproca e alla flessibilità dei rapporti. Mentre il cervello del burocrate si esercitava a prevedere l’imprevedibile per fortuna gli italiani si sono adattati a fare di necessità, se non virtù, almeno una strada da percorrere con un po’ di buonsenso. Sarà mai possibile estendere il metodo alla vita normale, che speriamo ci aspetti in un non lontano futuro, e improntare il rapporto fra lo stato e i cittadini a una maggiore dose di fiducia e di libertà individuale?

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L’esperienza non mi rende ottimista e negli ultimi 10 anni sono state iniettate nel sistema Italia dosi di sfiducia e di diffidenza come non mai. Veleni che sono penetrati oltre che nello spirito pubblico in ogni codicillo della nostra già eccessiva giurisprudenza. Quando c’è un problema, uno qualsiasi, la risposta pubblica è prima di tutto: controllare e punire. Siamo diventati tutti, e forse non ci rendiamo conto quanto profondamente, sorvegliati speciali. Colpevoli non ancora individuati secondo le parole del magistrato. E questo ben prima della pandemia. E il magistrato purtroppo ha ragione, perché per chi lavora in Italia è impresa impossibile, anche quando animati da buona volontà, non incorrere in qualche reato. E’ pressoché impossibile sopravvivere ad una visita di un qualche ufficio ispettivo, fiscale, sanitario, di sicurezza, ambientale senza un verbale che non riscontri qualche inadempienza. Sempre più ormai di tipo penale, perché la galera è la giusta punizione per chi sbaglia. La buona fede non è mai ammessa e l’ignoranza della legge, spesso incomprensibile, si combatte solo con stuoli di costosi avvocati. Molti crimini esistono solo perché lo stato li produce. Stato criminogeno, secondo la felice definizione credo di Marco Pannella.

 

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Sorvegliare, impedire punire. Con conseguenze paradossali. Il Piano energetico nazionale (Pniec) varato ai tempi di Di Maio al ministero per lo Sviluppo economico prevede la realizzazione di un ingente numero di nuovi impianti energetici rinnovabili. Comitati, procure e sovrintendenze si battono come leoni perché questo non avvenga con ogni sorta di impedimento. Le sovrintendenze emettono pareri negativi, perché l’impianto in questione “modifica lo stato dei luoghi” (!). Lo stesso dicasi per tutti gli impianti di riciclaggio / trattamento dei rifiuti, nonostante l’adesione entusiastica dell’Italia agli obiettivi ambiziosi della Ue. Cosicché ogni cosa che si realizza, vedi il ponte di Genova, o che si vuole realizzare, vedi il Recovery, si fa solo prevedendo deroghe alla norme esistenti e poteri speciali al posto della normale amministrazione. Una nuova tipologia giuridica si fa largo. La richiesta sempre più diffusa per chi si assume responsabilità di uno “scudo penale”. La richiesta cioè allo stato di essere difesi dallo stato. Fiducia?

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