PUBBLICITÁ

Il potere dei cani

Francesco Palmieri

Hitler, Churchill e la famiglia reale. Pure Joe Biden fa tornare alla Casa Bianca l’amico più fedele dell’uomo. E’ la zoologia applicata alla politica

PUBBLICITÁ

 

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


 

PUBBLICITÁ

"La Retorica del Cane” è una monografia fondamentale, di autore ignoto poiché ancora non è stata scritta per imperdonabile lacuna della cultura universale. O forse, ma non sarebbe meglio, è stata scritta e dimenticata con altrettanto imperdonabile disattenzione. Alla sua mancanza hanno finora bene o male sopperito doviziosi quanto frammentari riferimenti, sparsi tra volumi di storia e narrativa, trattati cinologici, saggi biografici, articoli, fotografie e filmati senza contare pitture, sculture, fumetti o i pettegolezzi tipici di professionisti pressoché estinti tra cui maggiordomi e inviati speciali. In questo pandemico dimenticabile autunno, due fatti analoghi e diversi sono stati registrati dalle cronache candidandosi a nuovi paragrafi della Retorica futura o a tardivi supplementi di quella che fu forse redatta. Andando con ordine, il primo evento ha avuto per artefice il presidente (o despota) del Turkmenistan, dal nome incoraggiante la dislessia di Gurbanguly Berdimuhamedow. Se la vita fosse meno stramba, oggi sarebbe uno stimato dentista nella città di Babarap. Strappato invece dalla politica al suo studio odontoiatrico, assurse a ministro della Salute e quindi a guida dell’ex Repubblica sovietica, succedendo nel 2007 a Saparmyrat Nyyazow, il quale aveva lavorato dal 1990 fino all’attimo del suo mortale infarto per la propria immortalità.

 

Non essendogli da meno, Berdimuhamedow sta accumulando le ragioni per cui produrrà memoria. L’ultima è che ha commissionato una statua d’oro di sei metri per celebrare il cane alabai, varietà da pastore autoctona del Turkmenistan. Il monumento, inaugurato a novembre, si erge al centro di una rotonda nella zona residenziale della capitale Ashgabat, dove alloggiano i dipendenti pubblici e il traffico è più intenso. L’omaggio al maestoso molossoide asseconda la passione del presidente (o despota) per questa razza, che al pari dei cugini asiatici del Tibet, del Caucaso e dell’Anatolia sfodera ancora una ferocia poco mitigata dalle mollezze domestiche per cui è temuta da lupi, predoni e malcapitati nei pressi del suo gregge. Sgorga dal patriottismo la venerazione di Berdimuhamedow per l’alabai, di cui ha donato cuccioli a ospiti di rango speciale come il presidente russo Vladimir Putin. Questo cane è infatti reputato, con il cavallo akhal-teke dal serico pelame che rifrange il sole, fra i tesori del Paese assieme ai tappeti, ai caratteristici monili, a un certo tipo di pecora e di grano e al dutar, strumento a corde dal manico lunghissimo imparentato al liuto. Ma l’omaggio di Berdimuhamedow rappresenta anche un gesto di continuità con il predecessore, poiché fu questi a sancire la dignità dell’alabai trovandogli un posto di riguardo nel suo Ruhnama, “Il libro dello spirito”, testo quasi sacro imposto nelle scuole e con alquanta impudenza nelle moschee per complemento al Corano. Nyyazow vi rielaborò l’epopea del Turkmenistan, delle sue stirpi tribali, dei khan e dei poeti, una fatica per cui il defunto presidente viene tuttora ricordato (tra gli altri motivi si annoverano il divieto della barba, i nuovi nomi ai giorni della settimana, un test di moralità per guidare la macchina e una sua statua rotante che asseconda, come fosse un girasole, l’inclinazione dei raggi sulla Terra).

PUBBLICITÁ

 

Nella competizione scultorea, però, l’attuale leader turkmeno ha acquisito vantaggi sin dal 2015, quando è stato effigiato in una statua equestre montando l’akhal-teke. Berdimuhammedow ha sempre amato cavalcare il mitico destriero persino nelle corse, finché nell’estate 2019 fu disarcionato con brutalità su una pista nel pieno del galoppo. L’incidente non ebbe gravi conseguenze fisiche e dalle biografie ufficiali sarebbe stato espunto come malignità non verificata, se un impietoso spettatore dell’ippodromo non lo avesse testimoniato con un video diventato virale su YouTube. Sono disavventure che, come attesta l’inaugurazione della statua al cane, non hanno scalfito il sentimento del capo turkmeno per gli animali, assai meno soggetto a infiacchirsi rispetto a quello verso i suoi ministri, di tanto in tanto pubblicamente esautorati e processati. Avvertì Konrad Lorenz, che in materia la sapeva lunga: “L’odio per l’uomo e l’amore per le bestie sono una pessima combinazione”. Chi non ricorda le affettuosità che sul terrazzo del Berghof, con la guerra ancora lontana da quei picchi, Adolf Hitler riservava a Blondi, la femmina di pastore tedesco regalatagli da Martin Bormann? Nessuno allora immaginava la fine wagneriana nel bunker di Berlino, dove la cagna avrebbe accompagnato il padrone anche nell’Oltre inghiottendo una capsula di cianuro prima di lui. All’epoca, sul Berghof, s’avvertiva solo il disagio di Eva Braun verso Blondi, non da premonitrice ma da devota agli scottish terrier, goffa e pugnace razza della nemica Albione, di zampe corte e mustacci spavaldi. I cani sono gli unici a ignorare quanto spesso diventino simboli nazionali o del nazionalismo, anche quando la loro origine geografica suscita qualche sfottò.

 

Come quelli di Jerome K. Jerome, che promosse il suo fox terrier Montmorency a personaggio di romanzo mentre derideva i bassotti, “una specie di salsiccia tedesca montata su gambe, che, tra loro, chiamavano cane” (detto con bonarietà precedente a due guerre mondiali). Con ben diversa intenzione, nei frangenti della battaglia d’Inghilterra, il primo ministro Winston Churchill avrebbe eletto a icona combattiva il proprio bulldog, al punto d’essere identificato lui stesso con quel cane (complice l’indubbia affinità somatica). Non ne restò condizionata, com’è noto, la giovane sovrana Elisabetta che intraprese per la lunghissima avventura del suo regno un rapporto appassionato con i welsh corgi pembroke, allevando questa razza sgraziata di piccolo pastore senza mai tradirla, neanche quando i suoi esemplari, addestrati dall’epoca di Guglielmo il Conquistatore a mordere gli stinchi delle pecore per riordinare le greggi, applicavano la medesima tecnica ai polpacci degli ospiti umani nel castello di Windsor. Ma se per un’americana come Gertrude Stein “una rosa è una rosa è una rosa è una rosa”, per un inglese vero un cane non è un cane non è un cane né un cane ma qualcosa di più. Perché con buona pace di tedeschi, turkmeni, francesi e italiani nessun lettore probo potrà contestare al Regno Unito il primato nella cinofilia come forma d’arte o scienza minore. Sospesa tra genetica ed estetica, tra utilità e pura mania fu coltivata tra regge, miniere e brughiere. La regina Vittoria inclinò la sua passione verso i Collie in anticipo di più d’un secolo su Lassie, che lanciò la moda della razza; Edoardo VII, quando era ancora principe di Galles, ebbe in dono un’esotica coppia di Chow-Chow dall’ambasciatore in Cina, assai prima che Konrad Lorenz s’innamorasse di questa razza per la sua derivazione lupina e cominciasse ad allevarla dopo averla ibridata con esemplari da pastore. La Retorica del Cane, se non l’ha già fatto nella sua ipotetica edizione smarrita, dovrà dedicare una robusta appendice alle liaisons canine della corona inglese e alla loro importanza nel recuperare simpatie a un’immagine sovente sciupata a causa di liaisons umane, troppo umane.

 

PUBBLICITÁ

L’ultima notizia dai Windsor, che – come suol dirsi – “ha commosso il web”, è la morte di Lupo, il cocker spaniel nero che aveva allietato dal 2011 la casa del principe William e di Kate Middleton. Sul profilo Instagram della duchessa di Cambridge, che ha annunciato il decesso il 22 novembre scorso, sono fioccati commenti a decine di migliaia, attestando la solidarietà che ogni civiltà evoluta riserva, pur in periodi tetri come questo, a chi perde quel prezioso compagno che non vi chiede mai “se avete ragione o torto, se siete ricco o povero, stolto o saggio, santo o peccatore” (è ancora Jerome, sì, anche se è un po’ retorico qui fa benissimo). Ma l’improvvisa perdita del royal dog Lupo non deve distoglierci dal secondo evento dell’autunno più sopra anticipato, che riguarda sempre l’ineludibile rapporto tra la leadership politica e l’amico più fedele. E dunque l’annuncio è ufficiale, malgrado l’accesa riluttanza del presidente americano Donald Trump a cedere la guida degli Stati Uniti. Sicché, a parecchie miglia di distanza da Londra e da Ashgabat, nell’austera Casa Bianca in Washington torneranno finalmente i cani dopo un quadriennio di assenza che non aveva precedenti da oltre un secolo. Joe Biden rimedierà con il suo arrivo all’indifferenza trumpiana verso i pet in generale: nemmeno un gatto o un pesciolino rosso, non un tordo né un criceto hanno accompagnato The Donald e famiglia nel corso del mandato. E’ stato il classico errore di chi sottovaluta i princìpi introduttivi dell’ars retorica zoologica applicata alla politica, secondo cui qualsiasi grande presidente o piccolo despota bipede è sempre più simpatico se viene effigiato con un quadrupede (così peraltro insegna la storia della pittura occidentale).

PUBBLICITÁ

 

Gli springer spaniel dei Bush, il gatto Socks e il labrador cioccolata dei Clinton, i due inconsueti cani da acqua portoghesi di Barack Obama sostennero senz’alcun dubbio la popolarità dei padroni persino nei momenti più infelici. Per non parlare di illustri predecessori come JFK, che installò alla Casa Bianca un vero e proprio mini zoo sommando a cani e gatti anche cavalli, pony, conigli, qualche papera e un canarino. (Non superò tuttavia in stravaganza Theodore Roosevelt, il cui serraglio includeva tra gli altri una iena ridens, un serpente, varie specie di maiale, un tasso, il pappagallo e una gallina). S’insedieranno con Biden, al numero 1600 di Pennsylvania Avenue, i due pastori tedeschi Champ e Major, quest’ultimo preso in adozione da un canile del Delaware. E se è vero che i cani assurgono a simboli di nazioni e nazionalismi, è altrettanto vero che le loro doti sono talmente indiscutibili sotto ogni latitudine da infrangere qualsiasi barriera etnica, politica e ideologica. Perciò chi pensa al pastore tedesco non pensa mai per prima cosa a Blondi, piuttosto a una idea platonica ombreggiata nel londoniano Zanna Bianca o in Rin Tin Tin, in Rex e nei mille cani poliziotto impegnati in operazioni difficili e rischiose. Eppure pochi ricorderanno che visse in Italia il vero re dei pastori tedeschi (con licenza dell’ex monarca spagnolo Juan Carlos, devotissimo alla razza). Si chiamava Dox e meritò una statua, sebbene più modesta di quella turkmena e relegata sulla via Braccianese a due passi da Roma. Servì nella polizia durante il Dopoguerra, quando ancora non esistevano le unità cinofile. Con l’addestramento che gli aveva impartito il suo compagno inseparabile, il brigadiere siciliano Giovanni Maimone, ottenne risultati leggendari: grazie a Dox furono scoperti e catturati 563 banditi, assassini e rapinatori; rintracciati 136 vecchi e bambini; compiuti 46 salvataggi. Lui restò ferito sette volte conquistando 11 medaglie d’oro e 27 d’argento. Purtroppo la burocrazia statale, quando il cane andò in pensione, proibì a Maimone di ospitarlo ancora nella caserma in cui alloggiava. Intervenne Totò, nelle vesti di principe de Curtis, a farsi carico dello sfrattato (che ebbe alcune parti al cinema e morì a quasi vent’anni nel 1965).

PUBBLICITÁ

 

Eppure flebile, malgrado i presupposti, è la relazione tra i leader politici italiani e i quadrupedi: nella Retorica del Cane basterebbe una nota a pie’ di pagina per compendiare il labrador di D’Alema, i bulldog di Zaia e il barboncino bianco di Berlusconi, anche perché fra noialtri il Dudù per eccellenza resta per soprannome Raffaele La Capria (il quale tra parentesi produsse pagine delicate per il suo meticcio Guappo e per la bassotta Clementina, maestra delle passeggiate nel centro storico di Roma). E sì che meriterebbe maggiore riflessione la presenza dei cani nella moderna letteratura, pur fingendo di dimenticare l’epitaffio molto sentimentale di lord Byron per il suo terranova o il terranova pazzo del Gordon Pym di Poe o il terranova Luath di Barrie, rinominato Nana in Peter Pan. Pur fingendo di dimenticare questo e altro, il lettore che non sia un critico sa (io lo so) che un cane serve a misurare la statura di uno scrittore. Se non riuscite più a dimenticare la fuga della piccola levriera di madame Bovary nella campagna, che abbandonò la padrona come fecero i suoi amanti; se non potete più scordarvi di un mondo che se ne vola giù dalla finestra, sulla pelle tarlata dell’alano Bendicò, verso “un mucchietto di polvere livida”. Se per voi insomma la levriera sta continuando a correre, e quella pelle di alano a cadere, allora sapete benissimo perché Flaubert e Tomasi di Lampedusa sono stati così grandi. Chissà, a proposito, se una Letteratura del Cane è stata già scritta.

 

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ