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Mercati nel panico per Siena

David Allegranti

La storia di Mps ci ricorda che danni può fare la politica alle banche. Lezioni dal vivo per il futuro di Unicredit

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Salvare Mps o salvare il denaro dei contribuenti italiani? La domanda ricorrente si ripropone ancora una volta. L’uscita di scena di Jean-Pierre Mustier da Unicredit apre le porte all’integrazione con la banca di Siena, sempre rifiutata dall’amministratore delegato dimissionario e ora resa più probabile dal suo addio. Addio che arriva, guarda caso, con lo sbarco ai vertici della prima banca italiana di Pier Carlo Padoan, ex ministro dell’Economia, cioè colui che ha fatto comprare il 68 per cento delle quote di Mps, costato ai contribuenti 5,4 miliardi di euro. Una parte della politica (dal presidente della Regione Toscana Eugenio Giani al deputato Stefano Fassina) vorrebbe rinviare la vendita di Mps, temendo ripercussioni sul piano occupazionale, forse inevitabili. Dal Mef da settimane fanno sapere al Foglio che “bisogna decidere, non possiamo lasciare incancrenire la situazione”. Decidere come? E in quale direzione? Per ora si sa soltanto che Mps ha bisogno di un compratore ma che prima ha bisogno di una nuova ricapitalizzazione. E visto che siamo in un’epoca di prepotente ritorno dello Stato (meglio noto come Stato imprenditore), vale la pena tenere a mente la storia della banca senese negli ultimi vent’anni, che ci dice molto, se non tutto, sul rapporto malato fra finanza e politica (Stato compreso). E non solo perché questo rapporto ha consentito a Siena di vivere al di sopra dei propri mezzi a lungo.

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Salvare Mps o salvare il denaro dei contribuenti italiani? La domanda ricorrente si ripropone ancora una volta. L’uscita di scena di Jean-Pierre Mustier da Unicredit apre le porte all’integrazione con la banca di Siena, sempre rifiutata dall’amministratore delegato dimissionario e ora resa più probabile dal suo addio. Addio che arriva, guarda caso, con lo sbarco ai vertici della prima banca italiana di Pier Carlo Padoan, ex ministro dell’Economia, cioè colui che ha fatto comprare il 68 per cento delle quote di Mps, costato ai contribuenti 5,4 miliardi di euro. Una parte della politica (dal presidente della Regione Toscana Eugenio Giani al deputato Stefano Fassina) vorrebbe rinviare la vendita di Mps, temendo ripercussioni sul piano occupazionale, forse inevitabili. Dal Mef da settimane fanno sapere al Foglio che “bisogna decidere, non possiamo lasciare incancrenire la situazione”. Decidere come? E in quale direzione? Per ora si sa soltanto che Mps ha bisogno di un compratore ma che prima ha bisogno di una nuova ricapitalizzazione. E visto che siamo in un’epoca di prepotente ritorno dello Stato (meglio noto come Stato imprenditore), vale la pena tenere a mente la storia della banca senese negli ultimi vent’anni, che ci dice molto, se non tutto, sul rapporto malato fra finanza e politica (Stato compreso). E non solo perché questo rapporto ha consentito a Siena di vivere al di sopra dei propri mezzi a lungo.

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“Il dossier Mps resta problematico. Nel quadro del movimento di aggregazione delle banche italiane, al Tesoro serve trovare un compratore per Siena”, osserva Mario Seminerio nel suo blog Phastidio: “Il problema è che Siena necessita, prima di ciò, di un nuovo aumento di capitale per colmare il buco causato dalla scissione delle sofferenze cedute ad AMCO, oltre che della gestione dell’abnorme contenzioso legale sin qui accumulato e degli inevitabili esuberi post cessione”. Per i contribuenti italiani, scrive Seminerio, “il costo di sistemazione di Mps diverrà molto simile a quello per la sistemazione dei resti delle due banche venete collassate anni addietro, la cui polpa è stata ceduta a Intesa Sanpaolo. Chiediamoci quindi, con la solita domanda retorica, se è valsa la pena fare fuoco e fiamme in Europa per ottenere una improbabile ricapitalizzazione precauzionale di Siena, se questo è il conto finale”. Il mercato, intanto, è in agitazione. Lunedì, dopo l’annuncio delle dimissioni di Mustier, Mps ha guadagnato il 3,01 per cento a 1,162 euro, mentre Unicredit ha perso il 4,96 per cento a 8,643 euro. Che cosa accadrà adesso è difficile dirlo, anche perché dal Mef non arrivano molte dritte, ma si può ragionare intanto su cosa è accaduto fin qui. A partire dagli ultimi anni, cioè da quando lo Stato è entrato in Mps. “La banca è riuscita a chiudere la procedura sui crediti non performanti e onestamente era difficile fare meglio di quel che è stato fatto”, dice al Foglio Angelo Riccaboni, ex Rettore dell’Università di Siena, che ha fatto parte del cda di Banca Mps dal 2017 al 2020 su indicazione del Tesoro. “I vincoli imposti dalla Commissione Europea per la ricapitalizzazione  erano molto forti e i passaggi molto stretti. C’era anche un quadro particolarmente difficile”. E ora? “Lo Stato ha salvato Mps, adesso c’è una difficile decisione da prendere. Io, comunque, mi sono sempre sentito molto autonomo e indipendente. In passato – anche in un passato recente – lo Stato nelle banche ha anche prodotto qualche danno. Ci sono esperienze di interferenze negative”. Ma Siena non ha vissuto al di sopra dei propri mezzi, con tutta quella ossessione per la senesità? “Nel mondo ci sono banche  che producono ricchezza e occupazione. Se funzionano bene stando in una piccola città, qual è il problema? Non è che per definizione sia un modello sbagliato”. La questione semmai, osserva Riccaboni, è cosa succederà in caso di “operazioni straordinarie”: “C’è preoccupazione per l’impatto sociale che l’integrazione con Unicredit potrebbe avere”. Mps ha sempre garantito occupazione ai senesi, e i sindacati da settimane temono per il futuro dei lavoratori. 


Vari tabù sono stati infranti in questi anni. Una riguardava la senesità della banca, perduta da tempo. Il prossimo a cadere riguarderà la tutela dei livelli occupazionali? Dipenderà dall’eventuale tipo di accordo con Unicredit. Il Tesoro sta cercando di rendere appetibile l’acquisto, liberando la banca dei circa 10 miliardi di rischi legali che ne ostacolano la privatizzazione. Ma mica è finita qua. Come ha scritto Reuters a metà novembre, “ai correnti valori di mercato Mps vale poco più di 1 miliardo di euro e, hanno riferito alcune fonti, ha bisogno di almeno 2 miliardi di euro per restare entro i requisiti patrimoniali fissati dalla Banca centrale europea”. C’è però un’altra possibilità, fanno notare alcune fonti al Foglio: e se fosse pronto già un piano B? Se cioè alla fine la fusione con Unicredit non ci fosse e non si trovasse un altro compratore? Oppure, più banalmente, se ci fossero problemi con la ricapitalizzazione? Non è sfuggita a chi segue il dossier Mps l’intervista di David Sassoli a La Stampa lunedì scorso. A un certo punto, il presidente del Parlamento europeo ha parlato della riforma del Mes: “C’è una garanzia molto importante nella riforma proposta: quella che riguarda il sistema bancario. Poi ci potrebbe essere un’assicurazione contro le crisi creditizie, nessuno vuole incendiare la casa, ma è sempre meglio averne una”. Sassoli non l’ha esplicitato chiaramente, ma si riferisce al Single Resolution Board, al secolo Comitato di risoluzione unico, un’agenzia dell’Unione europea che esiste dal 2015, che entra in azione nel caso di fallimento o di rischio di fallimento di una banca dell’Eurozona o degli stati che aderiscono all’Unione bancaria. L’accordo raggiunto lunedì prevede anche l’introduzione del backstop, cioè la garanzia di ultima istanza, per il Single Resolution Board. Il fatto che Sassoli lo dica più o meno apertamente potrebbe significare che il governo italiano già valuta la possibilità di usarlo? Chissà. 

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“Invece di privatizzare Mps, il Governo ha nazionalizzato Unicredit. E’ giusto così, c’è troppo neolibberismo in giro”, dice l’economista Carlo Alberto Carnevale Maffè. Già, che fine ha fatto il mercato? Se lo chiede, parlando con il Foglio, anche il senese Francesco Aldo Tucci, studioso di economia: “Scrive John Cochrane, per lungo tempo professore di economia a Chicago e adesso Senior Fellow della Hoover Institution (Università di Stanford): ‘Le banche rappresentano un classico problema di azzardo morale. In una crisi finanziaria, i governi hanno la tentazione di salvare i creditori bancari. Sapendo che faranno così, i banchieri si assumono un rischio troppo elevato, e le persone prestano a banche troppo rischiose. Più rischiosa la banca, più forte la tentazione da parte dei governi di ricorrere ex-post al bail out’. Questa semplice, ormai quasi banale verità economica sta alla base di molti dei fallimenti dei regolatori nel disciplinare ex ante le banche, soprattutto quando i legami tra banca e politica sono talmente stretti che un eventuale fallimento metterebbe in crisi un sistema di potere consolidato e un’intera comunità di persone”. Insomma, dice Tucci, “come ebbe a sintetizzare efficacemente Michele Boldrin, professore di economia presso la Washington University in St. Louis e la Ca’ Foscari di Venezia, fondatore e al tempo tra i principali frontman del movimento politico Fare per fermare il declino, dopo la sua partecipazione alla assemblea degli azionisti del gennaio 2013, Mps doveva essere (temporaneamente!) nazionalizzata, ‘purgata’, e prontamente venduta a dei privati, per toglierla dalle grinfie della politica e farla tornare solida e competitiva. Boldrin aveva in mente l’esempio del caso Bankia in Spagna, la cui totale privatizzazione è però stata rimandata al 2021, con la prospettiva di fusione con Caixabank (nihil sub sole novi, no?). Un esempio tutto sommato di successo, nonostante i rinvii”. Del resto, osserva ancora Tucci, “il rapporto ingarbugliato e un po’ perverso tra Banca Mps e politica nasce da lontano, già dal dopo-riforma Amato: la Fondazione bancaria Mps che ne nacque ha detenuto a lungo la maggioranza societaria, e il board è sempre stato nominato dai potentati locali, come da Statuto. Oltre ai nominati, molti alti papaveri di Banca e Fondazione versavano laute sottoscrizioni al partito (prima Pds-Margherita, poi Pd), in segno di sincero riconoscimento, come il lettore può supporre.

 

Gli aggrovigliati legami con la politica da locali assunsero ben presto più larga scala (del resto la stessa acquisizione di Banca Antonveneta, ‘peccato originale’ del colosso senese, nasceva da ambizioni spurie del centrosinistra nazionale), con infine, nel lungo periodo di burrasca successivo alla crisi finanziaria del 2008-2009, un do ut des non scritto tra Banca e Governo: sostegno e salvataggio (i Tremonti bond prima, i Monti bond poi) da un lato, massiccia detenzione di titoli di Stato dall’altro, peraltro all’origine delle ingenti perdite sui derivati. Persino l’esplosione dei crediti deteriorati (NPLs, Non-Performing Loans), oggi finalmente in via di risoluzione dopo il sostanziale via libera della BCE alla cessione dei suddetti ad AMCO, sostengono le Associazioni Buongoverno Mps e Pietraserena, a lungo attive in città, non si spiega solo interamente con la recessione: Banca e Fondazione Mps hanno una storia di contributi a pioggia e utili distribuiti allegramente, del resto”. Quanta parte di tali crediti fosse, dice Tucci, “un tentativo di mantenere il consenso elettorale, di ricambiare favori, o di assicurare un tale coinvolgimento con il tessuto produttivo da rafforzare lo status di ‘too big to fail’ (o almeno troppo importante per fallire) rimane assai difficile da scandagliare proprio a causa dell’eccessivo coinvolgimento della politica e delle istituzioni pubbliche nella gestione di un’azienda privata”. E’ questo coinvolgimento che ha consentito a Siena di vivere al di sopra dei propri mezzi. Siena è la città delle grandi ambizioni spezzate, dimezzate, è una città per anni sovradimensionata in ogni suo aspetto. Finanziario, bancario, sportivo, politico. E’ specializzata in grandi progetti a metà, come quello del Duomo Nuovo, i cui lavori per raddoppiarlo dovevano cominciare nel Trecento. E’ una città in cui c’è poco senso del realismo, fuori scala, non è una città “a misura d’uomo”, come si sente dire, ma a misura di sogno. Una catena di illusioni. Dove per anni ci si è illusi di avere la banca migliore del mondo, la banca più sana del mondo, il partito più forte di tutti, la squadra di basket imbattibile. Ma ogni cosa, appunto, era fuori scala. Era fuori scala la Mens Sana, il Siena Calcio, tutto alimentato dai soldi della Banca. Una volta finiti i soldi, è finito il sogno. Era fuori scala anche il Pd, tant’è che nel 2018 ha vinto le elezioni il centrodestra a guida leghista. 


Sulla senesità, Siena ha costruito il suo mito autarchico, è l’unguento per l’equilibrio perfetto di una città appartata, quell’equilibrio che sta fra lo strapaese e lo strapotere, è l’ossessione di una comunità che è riuscita a mantenere integre le sue tradizioni, a tenere in piedi il Palio, l’unica cosa che Siena non può cancellare (al massimo sospendere, come quest’anno), l’unica cosa che compatta destra e sinistra. Un tempo le cose erano più facili, anche se non più semplici. Quando la Fondazione – detta anche la “mucchina da mungere” – era ancora in salute e i soldi non mancavano, quando sul territorio piovevano 233 milioni di erogazioni (2008, l’anno record), quando ancora non erano arrivati i suicidi (uno, in realtà) a spezzare l’incantesimo di una città che pareva coperta da una campana di cristallo, isolata dal mondo, appartata appunto, quando la senesità del Monte ancora non scricchiolava sotto i toc toc del mercato che bussa al portone di Rocca Salimbeni, quando insomma Siena non aveva ancora incontrato il suo cuore di tenebra era tutto più facile. Anche evitare i matrimoni di interesse.

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