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Veltronologia

Walter Netflix. Con Veltroni è tutto "capolavoro"

Carmelo Caruso

Articoli, orazioni funebri, documentari (l'ultimo in arrivo questa settimana). Veltroni è la nostra didattica a distanza. Come da segretario è diventato un aggettivo. E si sprecano lodi per ogni sua opera

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Roma. Ci sarebbe solo un modo per rendergli davvero omaggio: dirgli che non sono vere tutte le lodi che riceve. E infatti le sue interviste sono sempre “formidabili”, i suoi editoriali “illuminanti”, i suoi film “preziosi”, i suoi documentari “necessari” (il prossimo, “Edizioni straordinaria”, è in arrivo questo sabato su Raitre). Ma ci sono anche i suoi romanzi che vengono accostati a quelli del “grande Carlo Emilio Gadda” mentre le atmosfere romantiche, da lui “brillantemente tratteggiate”, addirittura paragonate a quelle del pittore americano Edward Hopper.

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Roma. Ci sarebbe solo un modo per rendergli davvero omaggio: dirgli che non sono vere tutte le lodi che riceve. E infatti le sue interviste sono sempre “formidabili”, i suoi editoriali “illuminanti”, i suoi film “preziosi”, i suoi documentari “necessari” (il prossimo, “Edizioni straordinaria”, è in arrivo questo sabato su Raitre). Ma ci sono anche i suoi romanzi che vengono accostati a quelli del “grande Carlo Emilio Gadda” mentre le atmosfere romantiche, da lui “brillantemente tratteggiate”, addirittura paragonate a quelle del pittore americano Edward Hopper.

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Come può Walter Veltroni credere nella copia del veltronismo, in questa crosta, in questo club che lo celebra? Ogni volta che esce un suo nuovo testo, i giornalisti sono costretti a fare scempio di Simenon. Nel silenzio dell’accademia, con la sola eccezione del definitivo Giulio Ferroni (“il problema non è che Veltroni pubblica gialli, ma che siamo costretti a recensirli”) c’è una foresta di intellettuali, politici, semivip e cardinali che lo tratta da classico, come l’Odisseo polytropos. E’ Veltroni la vera Netflix italiana.

 

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Bisogna infatti avere il coraggio di scrivere che in questo paese così malandato c’è un uomo che è riuscito a farsi aggettivo, un segretario di partito che da segretario aveva scambiato il Pd per il suo cappello (anche le dimissioni come gesto letterario) e che da inviato, opinionista della carta stampata, si è ora convinto di comporre la nuova Recherche. Ieri, si è ad esempio spinto oltre le frontiere dell’ecumenismo e ha intervistato il rabbino Benedetto Carucci Viterbi.

 

E’ il seguito del suo itinerario intorno alla religioni che grazie al Corriere della Sera sta realizzando come Guido Piovene ha fatto in passato con il suo “Viaggio in Italia”. Le puntate precedenti sono il cardinal Zuppi e le monache del monastero di Città della Pieve. A quando la raccolta? Poche settimane fa, si era incontrato con il presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, Gianfranco Ravasi, e si racconta per rimediare a quella sgrammaticatura sui teatri chiusi e le chiese aperte: “Non capisco la ragione”. Così come Veltroni è rimasto colpito dalla “tripla dimensione” di Ravasi, “dal suo pensiero. Profondità, apertura, curiosità intellettuale”, c’è un pezzo di paese che è rimasto colpito dalla sua capacità di declinare il campione Maradona sia sul Corriere che sulla Gazzetta dello Sport e di provare “la telecronaca impossibile” Argentina-Inghilterra del 1986 su La7.

 

Ci sono ormai solo tre cose che si transustanziano: la mano di Maradona, la carezza del Papa e la penna di Veltroni. A Roma, dove ovviamente è stato sindaco juventino (guarda le partite in compagnia di Ezio Mauro e dello scrittore Sandro Veronesi) ricordano ancora del suo nichilismo: riuscì a indossare la sciarpa giallorossa nel giorno dello scudetto. Massimo D’Alema, arcinemico, direbbe ancora: “Se ci penso, mi vibra il baffo”. Chi è rimasto nel Pd, di fede romanista, nota solo: “Quel giorno abbiamo capito di cosa è capace”. Non è vero che ambisca (solo) al Quirinale. In piena campagna referendaria ha voluto dire “no” al taglio dei parlamentari come ha fatto Romano Prodi, ma il suo “no” aveva un’enfasi che ha ferito Nicola Zingaretti. Con Dario Franceschini ha litigato per la decisione del ministro di chiudere i cinema. Per vendicarsi ha allora intervistato Woody Allen su Sette (Esclusivo!). La domanda speciale era questa: “Qual è lo stato del cinema, oggi?”.

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Nel Pd lo chiamano il “compagno Zucconelli”, “l’omino calvo e gentile addetto al Cerimoniale della Direzione”, il funzionario del Pci che organizzava rinfreschi e onoranze funebri. Nei grandi trapassi c’è sempre un passaggio di Veltroni. Dove passa la storia c’è il suo graffito. Gli ultimi funerali: Sergio Zavoli, Gigi Proietti, Peppino Caladarola. Quando nel 2014 il web aveva dato per morto Paolo Villaggio, quello vivo si era giustamente lamentato così: “Al mio funerale non è venuto neppure Veltroni. E’ la prova che non sono morto”. Non è un pettegolezzo. E non se ne vuole fare una colpa, ma solo far capire il senso della notizia di Veltroni.

 

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Nel 2005 – erano le ultime ore di papa Giovanni Paolo II – c’è chi ha visto gli addetti stampa del Campidoglio passare le notti tenendo in mano un fogliettino. Era la dichiarazione di Veltroni da dettare all’Ansa a qualsiasi ora. Dicono che in segreto voglia fare il percorso inverso di Giovanni Spadolini. Altri lo indicano alla presidenza della Rai, ma anche a quella del Tg1. A Raitre, il direttore è Franco Di Mare, giornalista dell’Unità. La sua vice è Ilaria Capitani che è stata capo ufficio stampa del comune di Roma durante la sindacatura Veltroni. E nell’Unità che lui dirigeva (ovviamente benissimo) il suo caporedattore è l’attuale direttore del Corriere, Luciano Fontana. Si vuole dire che Veltroni è ormai la nostra Dad, la sola didattica a distanza. Ministra Azzolina, renda dunque materia di studio il veltronismo e dica basta alla circolazione di testi apocrifi, alle apologie di cui parlavamo all’inizio. C’è solo un modo per farlo contento. Affidargli una cattedra per chiara fama.

 

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