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L’insanità calabrese

Francesco Aiello*

Il problemi della sanità non sono solo di criminalità. Militarizzare il settore non basta: serve una svolta manageriale e meritocratica. Numeri e sfide per il commissario Longo

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Da qualche giorno il nuovo Commissario ad acta della sanità calabrese è il prefetto Guido Longo, il quale dovrà misurarsi con la sfida di ripristinare l’equilibrio finanziario del settore e di aumentarne l’efficienza nell’erogazione di servizi di qualità. E’ un settore importante per l’economia regionale: le spese correnti della sanità pesano l’11 per cento del pil calabrese e assorbono il 76 per cento del bilancio della regione. In breve, in Calabria molto, troppo, ruota attorno al comparto sanitario.  

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Da qualche giorno il nuovo Commissario ad acta della sanità calabrese è il prefetto Guido Longo, il quale dovrà misurarsi con la sfida di ripristinare l’equilibrio finanziario del settore e di aumentarne l’efficienza nell’erogazione di servizi di qualità. E’ un settore importante per l’economia regionale: le spese correnti della sanità pesano l’11 per cento del pil calabrese e assorbono il 76 per cento del bilancio della regione. In breve, in Calabria molto, troppo, ruota attorno al comparto sanitario.  

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Quella di Longo sarà una sfida difficile, perché oltre alle ruberie di variegata natura, in ciascun anello dell’offerta sanitaria regnano inefficienza e disorganizzazione, tant’è che il comparto genera da molto tempo disavanzi di rilevante entità. Nel 2019 il deficit corrente varia in una forbice compresa tra 160 e 175 milioni di euro, cosi come riportato in una nota del think tank OpenCalabria. Seppure avere disequilibri del bilancio sanitario non sia una specificità della Calabria (nel 2019 altre 9 regioni sono in deficit; nel 2006 lo erano tutte  tranne la Basilicata), la particolarità del caso calabrese è che avere i conti in rosso è diventato quasi “normale”: dal Rapporto 2020 del Mef sulla spesa sanitaria si ricava che dal 2006 al 2019 in Calabria la spesa corrente è sempre maggiore dei finanziamenti effettivi (un primato condiviso solo con la Sardegna che, tuttavia, gode di disciplina diversa nella gestione della spesa sanitaria). Oltre a essere persistente, il disavanzo sanitario supera da molto tempo gli standard dimensionali al di là dei quali scatta l’obbligo della sigla di un Piano di rientro (Pdr), la cui prima sottoscrizione è del 2009 (già richiesto nel 2007 dalla regione Calabria). L’altra particolarità della sanità calabrese è, quindi, la durata del regime di riordino degli squilibri finanziari: ben 11 anni. 

  
E’ utile sintetizzare cos’è successo nell’ultimo decennio. La prima particolarità è che dopo la firma del Pdr, si è subito preso atto dell’impossibilità di rispettare gli impegni assunti in tema di contenimento dei costi, con l’implicazione che gli scostamenti rispetto agli obiettivi iniziali furono tanto significativi da rendere necessario il commissariamento. Un piano di “austerità commissariale” che dura ininterrottamente dal 2010, ma che non ha consentito alla Calabria di raggiungere una sostenibile posizione finanziaria. Gli stringenti vincoli del regime commissariale hanno sì calmierato la crescita dei costi, cambiandone anche la composizione, ma hanno avuto devastanti effetti sull’offerta sanitaria. Ecco alcuni dati a riguardo. 

 
In Calabria, nel triennio 2007-09 la variazione della spesa sanitaria era pari al 4,78 per cento all’anno. I costi sono diminuiti annualmente dell’1,29 per cento nel periodo 2010-12 e si sono stabilizzati dal 2013 al 2015.  Dal 2016 in poi, la spesa è aumentata annualmente dell’1 per cento. Nel 2019 essa è pari a 3,5 miliardi di euro, ossia più 0,03 per cento del valore nominale del 2009 (nello stesso periodo si è avuta una variazione del 7 per cento in Italia, dell’8 per cento nelle regioni senza PdR, del 14 per cento delle regioni che hanno siglato un PdR e, addirittura, più 45 per cento nelle autonomie speciali). Il rigore della spesa imposto dal PdR ha cambiato anche la composizione della stessa. Per esempio, la quota di costi per il personale sanitario è diminuita di 8 punti percentuali in 15 anni, passando da 40 per cento nel biennio 2002-03 a poco meno del 32 per cento nel 2018-19, allineandosi, in tal modo, alla media nazionale (che era 35 per cento nel 2002-2003 ed è 30 per cento nel 2018-19), ma rimanendo maggiore della quota del 27,4 per cento delle altre regioni con PdR. Un altro costo di immediato controllo da parte delle regioni è quello della farmaceutica convenzionata, il cui peso sul totale delle spese sanitarie è diminuito in Calabria dal 14 per cento del triennio 2007-09 all’8 per cento negli anni 2017-19 (in Italia questa quota è oggi 6,5 per cento e si attesta a 7,2 per cento nelle altre regioni con PdR). 

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Le ipotesi su cui si basa l’intero processo di far allineare tra regioni la composizione della spesa sanitaria sono due. Da un lato si assume che l’organizzazione dell’offerta sanitaria sia omogena nel paese e, dall’altro lato, si ipotizza che la produttività delle risorse (umane e non) dell’intero comparto sia uguale da regione a regione. Ora, dopo anni di compressione dei costi si è capito che queste due ipotesi non sono vere e, al momento, spiegano sia il basso impatto della spesa sia i disequilibri gestionali della sanità calabrese. 

 
Occorre anche evidenziare come in Calabria le attività per ripristinare l’equilibrio finanziario facendo leva in via esclusiva sul contenimento della spesa non siano state neutre sulla dotazione strutturale del settore. Per esempio, in pochi anni la rete ospedaliera è stata smantellata chiudendo o depotenziando l’operatività di molti ospedali di piccola dimensione. L’effetto immediato è la riduzione dei posti letto disponibili da 4,47 per mille abitanti nel 2007 a 2,54 nel 2018 (dati Istat). L’obiettivo era recuperare risorse sfruttando le economie di scala nell’offerta sanitaria e favorire la transizione dal regime ordinario a quello diurno. Tuttavia, è fallita la riorganizzazione territoriale dei servizi sanitari che doveva supplire alla riduzione del tasso di ospedalizzazione. Per esempio, il territorio calabrese rimane povero di strutture sanitarie e socio-sanitarie: nel 2018 i posti letto su 10.000 residenti nelle strutture residenziali sono 18,92 contro una media italiana di 41,16. Nello stesso anno, i posti letto nelle strutture semi-residenziali sono 0,93 per 10.000 residenti in Calabria e 9,87 in Italia. La mancata razionalizzazione della sanità di prossimità è stata anche alimentata dalla riduzione del personale sanitario e, in particolare, di tecnici e infermieri che rappresentano le figure professionali su cui si basa l’assistenza territoriale. La distanza col resto del paese è marcata: nel 2018, la Calabria ha una dotazione di 4,76 infermieri per mille abitanti contro una media italiana di 5,74 (il picco di 6,49 è nel nord est). In estrema sintesi, oltre al mancato riequilibrio economico-finanziaro si è avuto anche il fallimento nella riorganizzazione dell’offerta sanitaria in grado di facilitare la transizione verso un modello di sanità con servizi territoriali complementari a quelli ospedalieri. 

 
L’esito di questo processo è il livellamento verso il basso della qualità dei servizi e, quindi, il mancato rispetto dei livelli minimi fissati dal Comitato dei Livelli essenziali di assistenza (Lea). La Calabria non li rispetta e, quando lo fa, ottiene valutazioni di poco superiori ai valori minimi fissati dal ministero della salute. Se fino al 2017 la Calabria è stata sempre valutata “inadempiente” da parte del Comitato Lea, nel 2018 ottiene un punteggio pari a 162, ossia solo 2 punti in più la soglia (160) che discrimina tra essere o meno adempiente. Rimane, comunque, la regione con il valore più basso dei punteggi Lea in un anno, il 2018, in cui si è avuto un generalizzato miglioramento della qualità in tutto il paese. Oltre agli indicatori Lea, è utile tener conto anche della percezione dei residenti: le indagini multiscopo dell’Istat indicano che nel 2010 su 100 pazienti ricoverati, solo 25 dichiarano di essere molto soddisfatti dei servizi di assistenza medica e 23 di quelli infermieristici. Nel 2018 la qualità percepita è diminuita a 21,4 per l’assistenza medica e a 20,1 per quella infermieristica. 

 
La bassa qualità dell’assistenza sanitaria di matrice pubblica genera molti effetti. Il primo in ordine di importanza è il non soddisfacimento della domanda di servizi sanitari da parte dei residenti che subiscono una violazione del diritto alla salute. Il secondo effetto riguarda il mercato della sanità privata, che ha spazi non tanto per una sana competizione e virtuosa integrazione con la componente pubblica, ma per l’inefficienza della stessa: non soddisfare i Lea spinge, in senso letterale, i pazienti verso altre soluzioni, che diventano, quindi, non l’esito di una scelta razionale tra più alternative, ma una costrizione dovuta all’assenza di opportunità. Alcuni paradossi sono evidenti: i residenti si accollano il peso delle elevate imposte addizionali regionali necessarie per contribuire alla copertura dei disavanzi annuali generati, in gran parte, da ruberie, disorganizzazione e inefficienze, e su una quota crescente della popolazione grava anche il costo  addizionale di ricorrere a prestazioni offerte da strutture private e dal sistema delle professioni mediche di specialisti regionali ed extra regionali. In questo secondo caso, è ricorrente anche l’effetto trascinamento sulla mobilità sanitaria verso altre regioni sollecitata, quando ritenuta necessaria, dai medici extra regionali, i quali indirizzano i pazienti preferibilmente verso i centri di provenienza. 

 
La mancanza di dati disaggregati non consente di capire con esattezza quanta mobilità sanitaria sia indotta dalla qualità dell’offerta regionale e, pertanto, sia comprimibile facendo leva su un recupero di efficienza. Qualche considerazione può essere fatta guardando ai dati aggregati. Dal 2009 al 2019, la mobilità passiva vale in media 255 milioni di euro all'anno, ossia, in totale, 2.81 miliardi di euro. Immaginando che il 50 per cento (per essere prudenti) dipenda dalla bassa qualità dei servizi regionali, un’efficiente riorganizzazione del comparto genererebbe, a parità di costi, significative riduzioni dello stock di debito della sanità calabrese che a oggi vale attorno a 1,2/1,5 miliardi di euro. Sì, attorno. Sembrerà strano, ma nel 2020 i dati di bilancio delle amministrazioni sanitarie non consentono di conoscere con certezza il debito della sanità calabrese. E’ cosa nota, tant’è che il commissario Longo dovrà regolarizzare “le poste debitorie relative all’Asp di Reggio Calabria e quelle eventualmente presenti negli altri enti del Servizio sanitario regionale”. 

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E’ evidente che siamo difronte a un circolo vizioso in cui gli originari squilibri finanziari impongono rigore nella gestione economico-finanziaria (più imposte addizionali regionali e controllo della spesa), senza preservare gli standard qualitativi minimi dei servizi. A valle, le inefficienze gestionali e sistemiche non consentono di minimizzare i disavanzi correnti, generano costi sociali non indifferenti e alimentano il debito del settore tramite il canale dell’obbligata mobilità sanitaria.
Il punto è capire cosa fare per consentire alla Calabria di avere una sanità pubblica efficiente. E’ certo che le linee di azione del nuovo commissario devono essere diverse rispetto a quelle attuate nei ultimi dieci anni di esperienza commissariale. D’altra parte, non è più tollerabile giocare a tavolino con i costi sanitari, dato che la spesa pro-capite è già la più bassa in Italia (pari nel 2019 a 1.083 euro per abitante, ossia il 7,6 per cento in meno della media nazionale). Questi giochi contabili hanno ridotto al minimo i servizi anche perché non si è adottata alcuna azione per capire come impiegare al meglio le risorse disponibili. I tagli hanno amplificato, piuttosto che sanare, le sacche di inefficienza. 

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Cosa fare è formalmente contenuto nel decreto di nomina di Longo, che è chiamato a perseguire ben 26 obiettivi avvalendosi di una struttura di 25 persone messe a disposizione dalla regione. Dalla nomina traspare in modo chiaro che la scelta del Consiglio dei ministri non è unicamente figlia di un approccio punitivo contro i “cattivi calabresi”, ma è il frutto di valutazioni che tanto hanno a che fare con il bisogno di modernizzare l’offerta sanitaria  (non a caso, nel decreto di nomina i termini “razionalizzazione” ed “efficientamento” ricorrono spesso). In breve, fare i “vigili” e “militarizzare il settore” è ritenuto necessario, ma non  sufficiente per soddisfare i fabbisogni sanitari dei residenti. Serve ripensare e rafforzare in chiave manageriale l’intera governance del settore con l’implicazione di operare un radicale spoil system nei segmenti più opachi e più deboli del comparto. Oggi, più che mai, le posizioni apicali della sanità calabrese devono essere assegnate con criteri meritocratici, allontanando la politica locale e nazionale da queste scelte, in modo da premiare le competenze e non le appartenenze. Servono sì nuovi dirigenti sanitari, ma diventa fondamentale introdurre serrati controlli amministrativi, moderni e snelli modelli organizzativi, trasparenti relazioni con la sanità privata, un uso capillare della tecnologia, rendere tracciabile tutta la spesa. Serve ricostruire la rete dell’assistenza territoriale, occorre prevedere periodiche verifiche nei posti di lavoro   sanzionando i nullafacenti e premiando i tantissimi meritevoli. Per fare tutto questo un commissario non è sufficiente, perché per liberarsi da incrostazioni amministrative, bad practices gestionali e pervasiva corruzione è necessaria l’azione d’urto di una squadra di esperti (diversa dai 25 della struttura commissariale) in grado di stravolgere il modus operandi che, purtroppo, contraddistingue gran parte della filiera sanitaria (dagli uffici delle Asp alle corsie degli ospedali). 
E’ proprio in questo perimetro dell’ambiente lavorativo che la sfida di Longo diventa ancora più difficile. Dovrà sì “pulire” il settore, ma è chiamato anche ad implementare programmi che incentivino, valorizzino e attraggano competenze in modo tale che alla fine del suo mandato avremo una sanità con conti in ordine e più servizi. Ma soprattutto capace di autodeterminarsi perché si sarà finalmente deciso di puntare sul merito e su una nuova cultura del lavoro.



*Francesco Aiello è professore ordinario di Politica Economica, UniCal e fondatore di OpenCalabria

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