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L'emendamento "Robin Hood"

La patrimoniale e le altre tribolazioni di Matteo Orfini, paladino delle cause perse

Il deputato Pd già presidente del partito, braccio destro dalemiano, giovane turco e commissario pd a Roma, si lancia sulla scia di Piketty

Marianna Rizzini

L'emendamento, a prima firma Orfini e Nicola Fratoianni di LeU, ha ricevuto critiche da opposizione e maggioranza. Ma Orfini insiste: "Il Pd ne discuta laicamente. Anche sui Decreti sicurezza mi dicevano no". 

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Nemmeno per sogno. Questo ha risposto Matteo Orfini, deputato pd, ex presidente dello stesso partito, a chi, ieri, provasse a chiedergli conto del cosiddetto “emendamento patrimoniale” alla manovra, da lui presentato con il collega Nicola Fratoianni di LeU. “Nemmeno per sogno lo ritiriamo, il Parlamento valuterà”, diceva Orfini, sottolineando l'obiettivo al di là dal muro insormontabile di critiche che piovevano sul suo capo, e non soltanto dall'opposizione: “Noi contiamo di convincere un po' di persone, le cose cambiano, anche quando dicevo di abolire i Decreti sicurezza mi dicevano di no”, spiegava agli scettici il deputato, non un neofita della cause apparentemente (e a volte veramente) perse.

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Nemmeno per sogno. Questo ha risposto Matteo Orfini, deputato pd, ex presidente dello stesso partito, a chi, ieri, provasse a chiedergli conto del cosiddetto “emendamento patrimoniale” alla manovra, da lui presentato con il collega Nicola Fratoianni di LeU. “Nemmeno per sogno lo ritiriamo, il Parlamento valuterà”, diceva Orfini, sottolineando l'obiettivo al di là dal muro insormontabile di critiche che piovevano sul suo capo, e non soltanto dall'opposizione: “Noi contiamo di convincere un po' di persone, le cose cambiano, anche quando dicevo di abolire i Decreti sicurezza mi dicevano di no”, spiegava agli scettici il deputato, non un neofita della cause apparentemente (e a volte veramente) perse.

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Ci sono state infatti, nella sua lunga carriera, cause mezze-vinte, dalla battaglia sui Decreti sicurezza a quell'“aprite i porti” che Orfini ha pronunciato varie volte nel momento duro delle chiusure salviniane, e ci sono state cause rimaste sospese nella storia di un quarantacinquenne che in vita sua, nell'area ex Pci-Pds-Ds-Pd, ne ha viste di tutti i colori, quasi di anni ne avesse ottanta. Orfini ha infatti cominciato a fare politica nell'altro mondo – pre Seconda e Terza Repubblica – e cioè nella storica sezione Mazzini (quartiere Prati), popolata da iscritti di nome Massimo D'Alema e Nicola Zingaretti nonché teatro, come ha scritto Francesco Cundari su questo giornale, di un “gigantesco processo di autoanalisi collettiva” sul cambio del nome al Pci: “Negli anni Novanta, una delle prime notizie di cui veniva informato il neoiscritto (a quella che era ormai una sezione del Pds) consisteva nel fatto che lì 'aveva vinto il No'…”,inteso il voto al congresso della Svolta.

 

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Che quella fosse o meno una primigenia causa persa nessuno si sogna ormai neanche di domandarselo. Fatto sta che a Orfini, uno che agli albori della carriera, con indosso giacche rigorosamente non firmate, si faceva strada tanto nell'organizzazione di partite a biliardino quanto in quella delle campagne elettorali, è capitato di peggio del sentirsi dire da Matteo Salvini “sei da arresto immediato” per l'idea (ispirata dall'economista neomarxista Thomas Piketty) di togliere a coloro che stanno un po' meglio (e anche su questo c'è un dibattito) per dare a chi sta peggio. 

 

Non c'entra Robin Hood. Ci sono stati infatti i giorni infernali del 2014 in cui a Orfini, ex braccio destro dalemiano a Italianieuropei, ex responsabile Cultura nel Pd bersaniano, già Giovane turco e poi ufficiale di collegamento tra renziani e resto del mondo, toccarono gli onori e soprattutto gli oneri di commissario del Pd romano, nel bel mezzo di Mafia Capitale. E in quel caso, partendo dal Laurentino 38, in piedi su una sedia, il neo-commissario, cui toccò anche la gestione per così dire collegiale del complicato caso Marino (Ignazio, l'ex sindaco), auspicò non soltanto che il partito romano venisse “raso al suolo” ma che in generale il Pd “tornasse in periferia”. E a forza di dirlo la periferia gli tornò nel piatto – sempre come causa persa – nella battaglia per il seggio parlamentare nel 2018 (poi Orfini è stato eletto, ma a Torre Maura e Torre Angela dovette faticare non poco).

 

Per non dire di quest'anno, il 20 e 21 settembre scorso: niente periferia, in compenso il compito di tenere alta, nel Pd, la minoritaria bandiera del “No” al referendum sul taglio dei parlamentari: “E' una sfida quasi impossibile che merita di essere combattuta fino all'ultimo”, diceva Orfini: “Per questo sono qui, per difendere i valori della Costituzione…”. Invece sull'imposizione patrimoniale, intervistato da Repubblica, due giorni fa, si augurava che qualcuno seguisse: “E' una proposta giusta. Il Pd ne discuta. Laicamente. Non credo che il vice segretario Andrea Orlando o il ministro Peppe Provenzano possano esserne pregiudizialmente contrari”. Wishful thinking deluso: ieri dal gruppo pd alla Camera arrivavano parole non entusiaste (della serie: l'emendamento è il frutto “di una iniziativa libera ma individuale di alcuni deputati del Pd”). Hai voglia a dire, come ripeteva Orfini, che “siamo in un momento di gravissima crisi e chiedere un contributo a chi ha di più non pare una bestemmia”. Dagli alleati di governo a Cinque Stelle, via Luigi Di Maio, arrivava un altro niet. Non restava dunque, al deputato, che sollevare alta la bandiera della causa persa, consolandosi con il successo su Facebook delle sue copiatissime playlist, vizio-vezzo a cui si è aggiunto, in tempi pandemici, il tentativo di cimentarsi nell'arte della panificazione.

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