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Il virale ritorno degli errori

Daniele Rielli

Dalla mancanza di una reale strategia per salvaguardare salute “e” economia al gioco delle parti di chi ieri era incendiario e oggi pompiere. Dall’immaginario “modello italiano” alla dissoluzione del modello lombardo. No, non è andato tutto bene

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Un collega svizzero-tedesco mi invia su WhatsApp un video che mostra un politico elvetico invitare timorosamente i suoi cittadini a tenere comportamenti responsabili contro il Covid, subito dopo nel montaggio appaiono le immagini di governatori e sindaci italiani che questa primavera minacciavano fisicamente – nei modi più coloriti e quasi sempre in dialetto – i loro concittadini che non rispettavano le norme previste dal primo lockdown. Quelle immagini, che allora avevano fatto il giro del mondo, sembrano ora provenire da un’Italia parallela, una nazione con poco in comune con quella in cui viviamo. Per cui mi sono sentito in seria difficoltà nello spiegare al mio amico che l’anziano in apertura della parte italiana del video, quello che invocava i lanciafiamme, ora si nasconde dietro un dito, scarica il barile sul governo e per giustificare la propria inazione s’inserisce in una delle più perniciose tradizioni del suo territorio invocando fantomatici complotti contro di sé e la propria gente.

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Un collega svizzero-tedesco mi invia su WhatsApp un video che mostra un politico elvetico invitare timorosamente i suoi cittadini a tenere comportamenti responsabili contro il Covid, subito dopo nel montaggio appaiono le immagini di governatori e sindaci italiani che questa primavera minacciavano fisicamente – nei modi più coloriti e quasi sempre in dialetto – i loro concittadini che non rispettavano le norme previste dal primo lockdown. Quelle immagini, che allora avevano fatto il giro del mondo, sembrano ora provenire da un’Italia parallela, una nazione con poco in comune con quella in cui viviamo. Per cui mi sono sentito in seria difficoltà nello spiegare al mio amico che l’anziano in apertura della parte italiana del video, quello che invocava i lanciafiamme, ora si nasconde dietro un dito, scarica il barile sul governo e per giustificare la propria inazione s’inserisce in una delle più perniciose tradizioni del suo territorio invocando fantomatici complotti contro di sé e la propria gente.

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Non più tardi di ottobre una persona con le sue sembianze e il suo nome garantiva l’imminenza di durissimi e irrevocabili lockdown. E’ un altro caso di universi paralleli: dopo l’Italia parallela, il governatore parallelo. Curiosamente gli abitanti della sua regione avevano votato in massa Vincenzo De Luca, questo il nome dell’uomo che da condottiero si era ridotto a cavillatore nel giro di una notte di proteste o poco più, proprio perché percepito come un uomo forte in grado di timonare la nave nella tempesta attraverso decisioni univoche e per nulla collegiali, simile in questo a Luca Zaia, altro governatore che in un contesto economico, sociale e geografico molto diverso si era visto ricompensare dalle urne per aver tenuto un linea simile, con però una differenza fondamentale: il Veneto la pandemia l’aveva presa in pieno già alla prima ondata – e Zaia al di là dei suoi meriti si era ritrovato in casa uno come Andrea Crisanti – mentre i lanciafiamme di De Luca erano sempre rimasti meramente teorici.

 

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Nel mondo di dopo, quello cioè della seconda ondata, persino io che in tempi non sospetti non ho mai creduto che sarebbe andato tutto bene – slogan forse in quel momento emotivamente comprensibile ma pur sempre idiota – pensavo comunque che non avremmo più ripetuto certi errori marchiani né alcune aperte imbecillità; la migliore, ovvero la peggiore, delle quali fu quella di mandare signorilmente in Cina quelle mascherine che poi sarebbero mancate nei reparti ospedalieri italiani travolti dall’emergenza. Ci furono allora lentezze e sottovalutazioni colpevoli nella misura in cui a un governo si richiede di agire con prudenza e con una certa lungimiranza rispetto alle minacce che si annunciano sistemiche. Già ai primi di gennaio di quest’anno si sarebbe dovuta capire l’entità della minaccia che avrebbe potuto colpire il paese e ci si sarebbe dovuti strutturare di conseguenza.

 

Una valutazione costante e tempestiva dei rischi alla sicurezza nazionale rientrerebbe nei compiti di un governo, pare anche superfluo doverlo ricordare. Non è un compito agevole, ma candidarsi a cariche politiche non è un atto obbligatorio. Non fu così e ci ritrovammo in breve con le persone che in alcune aree del paese morivano in casa senza che nessuno le venisse a prendere, i telefoni dei servizi sanitari occupati, i tamponi introvabili, gli ospedali pieni, i camion che portavano via le bare, la retorica deprimente delle canzoni ai balconi, la richiesta di eroismo a medici e infermieri, ovvero la tacita ammissione di una malagestione strutturale perché il buon funzionamento di un organismo sociale si vede precisamente dalla sua capacità di non richiedere atti di eroismo ai suoi ai cittadini.

 

Lo stesso personale medico prima celebrato come eroico oggi, cioè solo pochi mesi dopo, è vissuto con un fastidio da larga parte del paese se si permette di ricordare come la situazione si sia fatta nuovamente insostenibile, con la differenza che questa volta era tutto ancor più prevedibile visto che la letteratura sulle seconde ondate delle epidemie è sterminata e univoca: il ritorno alla normalità in assenza di un’eradicazione della malattia o di efficaci misure mediche di contenimento (leggi vaccino) significa il ritorno della pandemia, talvolta anche in forme aggravate.

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Oggi molti di quei poteri locali che in primavera invocavano misure più stringenti le provano tutte per tenere aperti più scuole, negozi, ristoranti, bar e uffici possibili. Nella follia mimetica i gruppi si sono rovesciati: ora è la compagine dei governatori che sembra vivere su un pianeta dove non prendere misure per il contenimento non è una scelta che si paga con le vite umane dei malati di Covid e degli altri degenti che rimangono senza cure per via del collasso dei sistemi sanitari. La leggerezza con cui i governatori sostengono decisioni che comportano di fatto la morte di migliaia di persone ha del surreale, assomiglia a una distopia e del genere b-movie. L’economia, si dirà. Meglio morire che morire di fame. A parte che tecnicamente non è quasi mai meglio morire che subire danni economici anche pesanti, senza impelagarci in questioni, pur vere, di valori umani che vanno oltre il denaro, c’è anche il particolare non irrilevante che mentre la morte è una condizione non risolvibile, la disgrazia economica non ha lo stesso grado di definitività. E comunque non è nemmeno questo il punto, quanto il fatto che la scelta tra salute ed economia è un dilemma mal posto perché una gestione oculata dell’epidemia, senza le follie e il lassismo estivo e magari un breve lockdown di due settimane a ottobre, sarebbe stato molto meglio anche per l’economia, nei limiti del fatto che in una situazione come questa una quota di danno ci sarà sempre e cercare di evitare ogni danno significa soltanto moltiplicarlo, barattare cioè l’oggi per molti domani. Il problema fra salute e economia è mal posto perché invece di nascere da un’analisi organica della situazione è frutto piuttosto di quel coagularsi sempre in divenire di interessi particolari e corporativi che è stato ed è il vero motore dell’agire politico nell’Italia pandemica.

 

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Il tema qui è enorme e al tempo stesso epocale perché tocca con mano i limiti funzionali delle democrazie occidentali nell’affrontare situazioni di emergenza, e in particolar modo tocca i limiti ancora più stringenti di una democrazia traballante e avvitata su sé stessa come quella italiana. Concretamente questo significa ad esempio che neppure in estate le autorità sono state in grado di organizzare un’indagine epidemiologica a campione e obbligatoria, ovvero al di fuori delle catene di contagio note, un’indagine che permettesse di capire l’effettiva portata della prima ondata, numeri sui quali ancora oggi possiamo fare soltanto delle stime, e questo ci porta ad agire largamente alla cieca rispetto al reale impatto del virus sulla salute pubblica. Come sia possibile prendere decisioni informate, strategiche, efficaci e intelligenti senza dati di questo tipo resta un mistero. O meglio si sa: è impossibile. Che a nessuno sia venuto in mente di organizzare una grande indagine di questo tipo alla fine del primo lockdown è un altro dei tanti capitoli surreali di questa vicenda e fa il paio con l’incomprensibile – se si eccettua la necessità di rendere la vita facile ai politici – mancanza di trasparenza e di dettaglio che ancora oggi, durante la seconda ondata, contraddistingue i dati messi a disposizione dei ricercatori indipendenti e dei media. Significa, sempre nel concreto, che non è esistita in questi mesi una visione di insieme del paese, né una reale strategia di priorità per salvaguardare salute e economia, ma solo un procedere a tentoni.

 

La dimostrazione principale di questa mancanza è che non è stato messo in piedi neppure il grado zero di una strategia di contrasto, ovvero un miglioramento dell’organizzazione sanitaria: in estate non c’è stato il potenziamento della medicina sul territorio e l’aumento della capacità di testing e quello delle postazioni di terapie intensive è stato insufficiente e tardivo. Abbiamo in compenso visto un paese che in omaggio al criterio di gestione corporativa della crisi sembrava di colpo composto solo di ristoratori, proprietari di bar, appartamenti su Airbnb e discoteche e poi in autunno di stadi di calcio, di cinema e teatri.

 

Che dire di tutti gli altri comparti dell’economia – enormemente maggioritari non essendo l’Italia un chiringuito su una spiaggia – che per effetto di questo genere di lobbying si sono ritrovati pochi mesi dopo nuovamente in condizioni che mettono a dura prova la loro sopravvivenza? Invece che sovvenzionare chi doveva stare chiuso e tenere aperti tutti gli altri ci si è mossi per tentativi, finendo per danneggiare tutti. Peggio ancora, cosa dovrebbero dire tutti quei dipendenti che oggi sono obbligati ad andare al lavoro, magari con i mezzi pubblici, perché non possono fare altrimenti e rischiano molto concretamente di venire infettati da un virus potenzialmente mortale e a questo punto diffusissimo? E’ questa la maggioranza silenziosa a cui non si dà mai importanza perché al contrario dei prepotenti, degli sciroccati e dei negazionisti non fa notizia, non genera click, non alza l’audience, non fa rumore: sono solo persone che cercando di mettere assieme il pranzo con la cena rischiano la vita per mancanza di alternative. Ugualmente sfregiati dalle riaperture estive, comprese quella indiscriminata delle frontiere turistiche e migratorie, sono stati tutti gli italiani che a prezzo di grandi sacrifici personali hanno rispettato rigorosamente il primo lockdown, pagando costi economici e psicologici enormi. Costi che in estate le autorità non hanno voluto rispettare, contando cinicamente anche sul fatto che l’unica alternativa politica, Matteo Salvini, non avrebbe offerto alcuna maggiore garanzia alla popolazione.

 

Fra le follie collettive a cui abbiamo assistito un posto d’onore spetta, purtroppo, alla totale dissoluzione del modello lombardo con la città di Milano, incensata per anni come avamposto del futuro in un paese altrimenti condannato, che si è rivelata, almeno sotto il profilo sanitario e politico, il ventre molle di una nazione in ginocchio. Anche qui colpisce, invitando a riflettere sugli aspetti psicologici di questa disfatta, l’incredibile sequela di errori e affermazioni difficilmente comprensibili da parte dei due leader locali, Attilio Fontana e Giuseppe Sala. Dei tanti ne cito soltanto due: la reazione rancorosa di Sala nei confronti del povero governatore della Sardegna che all’inizio dell’estate chiedeva giustamente i test ai lombardi che volevano entrare nella sua regione, fino a quel momento quasi libera dal Covid, e fu trattato da molti sui media come un razzista. Come sia poi andata a finire lo sappiamo tutti. Per non parlare dello sdegno con cui i governatori della Lombardia e delle altre regioni più colpite rifiutarono a giugno la riapertura differenziata dei territori alla fine del lockdown, decisione dalla quale è dipesa molto probabilmente una parte importante della seconda ondata, visto che al momento della riapertura l’incendio in quelle zone era tutt’altro che domato.

 

Non che la lezione sia servita a qualcosa, visto che le autorità locali lombarde a una settimana dalla nuova messa in zona rossa (tempo che ormai anche un bambino sa essere del tutto insufficiente al contenimento) chiedono già riaperture. Anche qui reazione emotiva, partigianeria, irrazionalità hanno avuto la meglio rispetto a una gestione organizzata e data-driven della pandemia. In questi mesi non è solo la ripetizione degli errori a essersi fatta assurdo conclamato, ma lo è anche la ripetizione degli argomenti che hanno agevolato l’avvento di questa situazione, il principale dei quali è anche il più provinciale, ovvero il passare dal farsi i complimenti da soli (l’immaginario “modello italiano”) al compiacersi che in fondo gli altri non fanno poi tanto meglio, avendo però cura di fare cherry picking sui casi da citare, per cui bene le disastrose Spagna, Francia e Inghilterra, meno adatta allo scopo è la Germania, del tutto inadatti invece tutti quei paesi asiatici, Cina in primis, che dopo aver implementato misure di contenimento draconiane ora sono tornati alla normalità e hanno un’economia che tira, grazie anche ai dispositivi medico-sanitari che continuano a venderci. Ma i lockdown sono nemici dell’economia, non è vero?

 

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