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E se la chiave per avere uno stato più efficiente fosse un salario adeguato?

Claudio Cerasa

Il problema del commissario di governo in Calabria visto attraverso la sua busta paga. Perché sarebbe ora di rivedere la norma, nata dal pensiero unico anti casta, che impone un tetto allo stipendio dei dirigenti pubblici

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E se il problema del commissario calabrese fosse anche legato alla presenza di uno stipendio ridicolo? Sui giornali del fine settimana, è capitato, a chi scrive, di leggere un articolo molto interessante dedicato a un tema sportivo solo apparentemente laterale. La storia è quella sollevata da Lewis Hamilton – pilota della Mercedes, pilota della Formula 1, neo campione del mondo dopo esserlo già stato nel 2008 con la McLaren e nel 2014, 2015, 2017, 2018 e 2019 sempre con la Mercedes, pilota più vincente della storia della Formula 1 – che giovedì scorso durante una conferenza stampa tenuta in Bahrein ha risposto a un giornalista su un tema molto dibattito quest’anno nel mondo dello sport: il tetto ai salari. Franz Tost, uno dei vertici dell’Alpha Tauri, una delle case automobilistiche che partecipano alla Formula 1, giorni fa ha suggerito di introdurre nel campionato automobilistico più importante del mondo un tetto salariale di dieci milioni di euro all’anno. E di fronte a questa prospettiva il pilota della Mercedes, che ha uno stipendio pari a 30 milioni di euro all’anno, ha risposto in modo sincero e intelligente: “Noi siamo le star delle corse. Ci sono dei tetti salariali ad esempio nella Nfl e nella Nba ma lì i campioni possono sfruttare al massimo la propria immagine. In Formula 1 invece il salario è nelle mani dei team.

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E se il problema del commissario calabrese fosse anche legato alla presenza di uno stipendio ridicolo? Sui giornali del fine settimana, è capitato, a chi scrive, di leggere un articolo molto interessante dedicato a un tema sportivo solo apparentemente laterale. La storia è quella sollevata da Lewis Hamilton – pilota della Mercedes, pilota della Formula 1, neo campione del mondo dopo esserlo già stato nel 2008 con la McLaren e nel 2014, 2015, 2017, 2018 e 2019 sempre con la Mercedes, pilota più vincente della storia della Formula 1 – che giovedì scorso durante una conferenza stampa tenuta in Bahrein ha risposto a un giornalista su un tema molto dibattito quest’anno nel mondo dello sport: il tetto ai salari. Franz Tost, uno dei vertici dell’Alpha Tauri, una delle case automobilistiche che partecipano alla Formula 1, giorni fa ha suggerito di introdurre nel campionato automobilistico più importante del mondo un tetto salariale di dieci milioni di euro all’anno. E di fronte a questa prospettiva il pilota della Mercedes, che ha uno stipendio pari a 30 milioni di euro all’anno, ha risposto in modo sincero e intelligente: “Noi siamo le star delle corse. Ci sono dei tetti salariali ad esempio nella Nfl e nella Nba ma lì i campioni possono sfruttare al massimo la propria immagine. In Formula 1 invece il salario è nelle mani dei team.

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I piloti sono il valore aggiunto e in questo sport devono guadagnare in base a ciò che producono. Non capisco perché le stelle del futuro debbano venire penalizzate”. Il discorso di Hamilton può apparire impopolare, agli occhi dei demagoghi, ma il pilota della Mercedes ha il merito, con semplicità, di centrare un punto, dicendo una cosa che solo apparentemente può apparire scontata: se si chiede a un pilota di Formula 1 di assumersi un rischio gigantesco, come quello di gareggiare a velocità supersoniche in una pista, e se quel pilota produce non solo risultati ma anche valore aggiunto, che senso ha porre dei tetti a salari che meriterebbero di essere stabiliti solo dal mercato?

 

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Dopo aver letto il ragionamento di Hamilton, siamo tornati alle pagine di cronaca politica, dominate dall’incredibile storia dei mancati commissari alla Sanità calabrese, e con un piccolo volo pindarico ci siamo posti una domanda forse un po’ pazza: e se il problema del commissario calabrese fosse legato anche (anche) alla presenza di uno stipendio non adeguato? La storia a cui facciamo riferimento riguarda una prassi nota della Pubblica amministrazione italiana introdotta con una legge che ha mosso i primi passi nel 2011: il tetto ai dirigenti della Pa introdotto dal governo Monti ed entrato in vigore il primo maggio del 2014. La legge la conoscete tutti: nessun dipendente pubblico può avere uno stipendio che superi i 240 mila euro lordi all’anno. Ai tempi, in una stagione in cui il pensiero unico anti casta aveva preso in ostaggio le migliori menti della borghesia italiana, tutti si affrettarono a riconoscere quanto fosse saggia la scelta fatta di tagliare gli stipendi dei manager pubblici e quanto fosse saggia la scelta fatta di trasformare le più alte cariche della Pubblica amministrazione in mestieri non sospettabili di essere accettati solo sulla base di una demoniaca logica del profitto. In questi anni, il tetto ai 240 mila euro ha avuto sì l’effetto di sfamare la pancia dei professionisti della demagogia ma ha avuto anche un effetto di segno opposto: costringere molti grandi manager che lavorano nel pubblico a lavorare a condizioni non di mercato, rendere il mondo della Pubblica amministrazione un luogo non adatto all’attrazione dei migliori talenti, impedire al pubblico di poter concorrere con il privato per accaparrarsi i migliori professionisti in circolazione, trasformare i lavori ai vertici del mondo pubblico in lavori fatti più sulla base di uno spirito di servizio che sulla base di un giusto riconoscimento economico (spirito di servizio che nei casi meno fortunati può nascondere l’attesa di favori futuri). E in una stagione in cui, per forza di cose, il pubblico tornerà ad avere una sua centralità, e in una stagione in cui in altre parole al pubblico sarà chiesto di essere produttivo come un’azienda privata, viene da chiedersi se per avere uno stato più efficiente non sia il caso, per provare ad attrarre il meglio che c’è in giro, di eliminare il tetto ai salari.

 

Certo. Si potrebbe dire che questo ragionamento sarebbe credibile in presenza di uno stato disposto a premiare più le competenze che le appartenenze ed è possibile che ragionare sui salari possa essere non un modo per attirare i migliori ma solo un modo per dare più soldi a quelli di oggi. Ma se si prova a fare un passo in avanti nella riflessione – e se si prova a capire cosa cambierebbe se lo stato potesse pagare secondo criteri di mercato chi si assume un rischio importante – si capirebbe meglio il succo di un ragionamento magnificamente sintetizzato tempo fa da Pietro Ichino in un acronimo perfetto: Smart. L’acronimo, che in realtà è stato coniato dalla letteratura giuridica anglosassone, è stato utilizzato anni fa da Ichino per inquadrare bene quale potrebbe essere un modo per rendere più al passo con il mercato il lavoro ai vertici dell’universo del pubblico e la parola Smart contiene tutti i requisiti necessari: specific, measurable, achievable, repeatable e timely.

 

L’individuazione di questi requisiti e di questi obiettivi renderebbe rigorosa la responsabilizzazione di un manager pubblico, porterebbe la responsabilizzazione a cascata dai vertici fino all’ultimo impiegato di una società pubblica, e la maggiore retribuzione dei vertici potrebbe avvenire anche senza stravolgere le regole attuali introducendo un principio semplicemente elementare: un premio legato ai risultati conseguiti, certificati, come suggerisce Ichino, “da organi di valutazione nei quali la maggioranza rappresenta entità esterne all’amministrazione: cittadinanza, utenti specifici, e così via”. Insomma, aggiunge ancora Ichino, ci vorrebbe una quinta riforma delle amministrazioni pubbliche (dopo le riforme Cassese, Bassanini, Brunetta e Madia, peraltro abortita per effetto della sentenza-mascalzonata della Corte costituzionale), ci vorrebbe il coraggio di chiedere che i vertici del pubblico vengano pagati seguendo logiche meno di stato e più di mercato, ci vorrebbe il coraggio di dire che è proprio in un momento di difficoltà che il paese ha bisogno di incoraggiare al massimo i suoi talenti, ci vorrebbe il coraggio di chiedere uno svincolo dal tetto accompagnandolo a uno svincolo sulla inamovibilità dei dipendenti pubblici e ci vorrebbe un cambio di mentalità, su questi temi, che in molti chiedono ma che nessuno ha il coraggio di invocare fino in fondo. Un paese che ha bisogno di crescere e che per crescere ha bisogno dello stato è un paese che ha bisogno di mettere al centro dello stato ciò che di meglio offre il paese. E a maggior ragione un paese che ha bisogno di risolvere in fretta alcuni problemi di difficile risoluzione piuttosto che incartarsi sul nome giusto “disponibile” ad assumersi un rischio come quello di governare la Sanità commissariata della Calabria dovrebbe chiedersi se i problemi nella scelta del commissario – i commissari di governo di solito prendono al massimo 100 mila euro lordi, di cui una metà fissa e una metà legata al risultato – ci sarebbero anche in presenza di una retribuzione per i commissari all’altezza della sfida. La risposta forse la conoscete già.

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