PUBBLICITÁ

La Calabria sotto tutela

David Allegranti

Non c’è solo la sanità commissariata. Anche la politica e la società lo sono Indagine sul presente calabrese, che ha bisogno di istituzioni e mercato

PUBBLICITÁ

La Calabria sta ancora aspettando un commissario straordinario per la sanità. Ieri in Consiglio dei ministri doveva arrivare la decisione di affidare l'incarico a Narciso Mostarda, responsabile della Asl Roma 6, ma il veto dei Cinque stelle, in quanto Mostarda sarebbe troppo vicino al Pd, ha bloccato tutto. E così il governo ha ora chiesto ad Agostino Miozzo, coordinatore del comitato tecnico scientifico, di accettare il posto di commissario.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


La Calabria sta ancora aspettando un commissario straordinario per la sanità. Ieri in Consiglio dei ministri doveva arrivare la decisione di affidare l'incarico a Narciso Mostarda, responsabile della Asl Roma 6, ma il veto dei Cinque stelle, in quanto Mostarda sarebbe troppo vicino al Pd, ha bloccato tutto. E così il governo ha ora chiesto ad Agostino Miozzo, coordinatore del comitato tecnico scientifico, di accettare il posto di commissario.

PUBBLICITÁ

  


 

PUBBLICITÁ

"La Calabria è come il ripostiglio, il garage, la cantina di casa: perché sia ordinata devi crearti uno spazio di disordine che incaselli tutti gli elementi entropici”, riassume al Foglio Vincenzo Tavernese, intellettuale e vicesindaco di Marina Di Gioiosa, di fronte al caos di queste ultime settimane che hanno messo la Calabria al centro del dibattito pubblico. “Così, la gente pippa a Milano ma i guasti prodotti dal traffico di droga si vedono in Calabria. I calabresi vanno a curarsi in Lombardia e quindi pagano le strutture milanesi, che migliorano sempre di più, ma il disavanzo viene trasferito in Calabria per garantire a loro di essere l’eccellenza”, dice ancora Tavernese: “Fuori insomma si prendono i nostri pazienti e anche i nostri medici: quello che ha curato Boris Johnson non solo è calabrese, ma si è laureato e specializzato in Calabria”. La Calabria è anche una Regione sotto tutela. Una tutela sciatta però, come dimostra questa storia infinita di commissariamenti e dimissioni di commissari, ché per gestire la spesa pubblica sanitaria si preferiscono i generali dei carabinieri in pensione o quelli che fanno i negazionisti con le mascherine degli altri, anziché degli appropriati ragionieri. Ed essendosi suicidati politicamente quelli, il carabiniere pensionato e il negazionista della mascherina, il governo di Roma è passato alla fase successiva: bruciare nomi sui giornali alla ricerca di quello giusto, a effetto, che faccia fare ooohh ai bambini e non risolva in definitiva niente, come peraltro dimostrano gli ultimi dieci anni di Sanità controllata. Il chirurgo di guerra, il prefetto: pare un fantacalcio o uno scambio di figurine. Commissariata la sanità, commissariato il Pd, fino a qualche tempo fa commissariata anche la Lega. La politica e la vita pubblica calabrese sono in prestito. Ora c’è pure un presidente facente funzione, Antonino Spirlì, in attesa che giungano le elezioni regionali di primavera, sperando che il reggente di danni ne faccia pochi.

 

Nel frattempo, chi può scappa; se è malato va a curarsi in Lombardia, se vuole studiare va all’estero. Chi ci resta è, dunque, sotto tutela. Commissariato in una Regione la cui economia era già stagnante prima dell’emergenza sanitaria, figurarsi adesso. Lo scorso anno il Pil calabrese in termini reali risultava ancora inferiore di 14 punti percentuali rispetto ai livelli del 2007, dice l’ultimo rapporto della Banca d’Italia sull’economia regionale della Calabria pubblicato a giugno: “Gli indicatori disponibili ne indicano per il 2020 un’ulteriore caduta. La velocità di ripartenza dipenderà in parte dalla durata dell’epidemia e dall’efficacia delle misure di contrasto dell’emergenza; tuttavia, come accaduto anche dopo le crisi del periodo 2008-2014, vi potrebbero influire negativamente i fattori strutturali che caratterizzano l’economia regionale e ne condizionano soprattutto la produttività e i livelli di investimento”.

 

Chi può, scappa (qualcuno torna anche, eh). Tuttavia, dice al Foglio Florindo Rubbettino, editore liberale, “i calabresi che vanno via non sono in fuga, semplicemente corrono. Perché se non li fai competere in una cornice che garantisca il merito, vanno a cercarsi la gara altrove. Le persone innovative hanno una spinta maggiore al cambiamento e quel che rimane è una Calabria conservatrice. Dunque serve che chi rimane si adoperi molto per cambiare; chi se n’è andato e ritorna deve fare qualcosa per rafforzare l’avanguardia di questa Regione”. Epperò, obietta Tavernese, “lo sviluppo si concentra in determinate aree e tendenzialmente la ricchezza, la popolazione e le competenze vanno concentrandosi in centri pochi di potere. E’ lì che si accumulano riserve umane dalla Calabria: non è un caso che queste persone corrano a Londra, a New York, a Francoforte e i più sfortunati a Milano. L’impoverimento e la spoliazione di una terra, legati al fenomeno migratorio, non colpiscono tutti alla stessa maniera”. Quindi questo calabrese emigrato non va pensato come se fosse uno Hobbit, che abbandona la placida Contea per il bisogno di avventura. No, se ne va per autorealizzarsi o per sopravvivenza. Sono due visioni opposte della società calabrese, quella di Tavernese e quella di Rubbettino, interessanti entrambe.

PUBBLICITÁ

 

PUBBLICITÁ

Basta il mercato a risolvere tutto? “Non sono sicuro che il mondo là fuori, in Toscana e in Lombardia, funzioni perché c’è il capitalismo realizzato. Se funziona è perché funziona lo stato, non solo la concorrenza”, dice al Foglio il professor Giulio Citroni, docente di Scienza Politica all’Unical, fiorentino emigrato in Calabria, a Cosenza, da una decina d’anni: “La debolezza economica calabrese viene dalla debolezza politico-istituzionale. Non serve più mercato ma più istituzioni. I problemi della Calabria sono gli stessi dell’Italia (la lentezza della giustizia colpisce tutto il paese), solo più drammatizzati”. Poi c’è il resto, la ‘ndrangheta, certo. Ma non si può esaurire tutto il discorso sul malessere calabrese con la mafia. 

 

PUBBLICITÁ

Rubbettino insiste: mentre fuori, le intelligenze calabresi sono libere di scorrazzare, confrontandosi con il mercato libero (mercato delle idee, del lavoro), in Calabria “manca una cosa molto semplice: un pezzo di territorio libero e quando dico libero intendo non solo dalla mafia e dal malaffare. Va costruita una mentalità libera, un ecosistema aperto in cui le migliori intelligenze abbiano la possibilità di sprigionare le loro energie: economia di mercato, apertura, concorrenza. I calabresi invece sono da una parte schiacciati tra clientelismo e paternalismo e dall’altra da burocrazia e bizantinismi. Non può esserci questa cornice di società libera se prima non si rompono queste catene. E la responsabilità è della società civile prima che della politica”. Servirebbe dunque anche un’altra cosa che oggi non esiste, spiega Rubbettino: una sana frizione fra società civile e classe politica. “Ma questa tensione non c’è. Non c’è dialettica, in alcuni momenti chiave ci sono rivendicazioni, richieste di aiuto e più protezione. C’è rassegnazione, assuefazione, a molti fa pure comodo. Servirebbe uno sforzo immane, si può fare”. Anche i Cinque stelle, che in Calabria come in altre zone del Mezzogiorno dal 2018 in poi hanno ottenuto enormi consensi, fanno parte della “continua offerta di protezione”, mentre ci sarebbe invece bisogno di libertà. “Basti vedere come lo stesso governo ha affrontato questa situazione di emergenza, di fatto non stimolando una responsabilità ma garantendo mance a destra e a sinistra”. Anche l’uso massiccio della figura del commissario risponde a questo canone, un invito costante rivolto ai calabresi a non sentirsi responsabili: “C’è questa idea di terra irredimibile, per cui si manda l’agente esterno. Io invece penso che il problema vada affrontato stimolando la reazione autoctona con energie interne, legittimate, che conoscano il territorio. Spero comunque che questa crisi finalmente faccia capire a livello nazionale che la Calabria non deve essere l’ultimo pensiero, ma un laboratorio di innovazione e che se proprio si decide di ricorrere a interventi esterni, quantomeno che lo si faccia ad alto livello e con serietà. Tanto più se, come si è visto fin qui, i risultati non sono stati entusiasmanti”. Non è un caso, probabilmente, che i risultati siano deludenti. 

 

“Dal mio punto di vista di politologo, cerco di guardare alle debolezze politiche e istituzionali da cui poi discende molto di tutto il resto; quindi il problema della politica clientelare, delle istituzioni deboli, che poi sono le istituzioni politiche ma sono anche le istituzioni della società civile”, dice il professor Citroni. “Penso alla debolezza delle associazioni industriali e dei gruppi di interesse; da questa debolezza discende una fatica a organizzare e anche immaginare il cambiamento. Nella teoria dei giochi, si chiama dilemma della selezione avversa, per cui vengono sistematicamente selezionate le persone peggiori”. Lo si è visto in azione, con i commissariamenti romani. Sarebbe meglio dunque che dal prossimo governo regionale arrivi un legittimato assessore competente alla Sanità. Anche perché, appunto, quel che s’è visto finora è tutt’altro che eccellente. Insomma, altro che l’inviato da Roma. Serve una classe dirigente locale all’altezza, non qualche paracadutato. 

 

La Calabria, spiega ancora Tavernese, “è un trampolino di lancio per tanti, che forse stavolta s’è inceppato. Si è forse capito che non si può ragionare sempre e solo come se, per utilizzare una terminologia romana, si spedisse in una riottosa provincia un prefetto che poi assumerà un incarico più prestigioso alla corte imperiale. Succede in tantissime carriere, nelle forze dell’ordine, tra i magistrati, nelle carriere politiche. Basti pensare al fatto che Rosy Bindi e Nicola Morra sono diventati presidenti della Commissione antimafia per il fatto che sono stati eletti in Calabria, pur non capendo niente né di Calabria né di mafia. Ma non solo non ci capiscono, nemmeno vogliono capirci”. Prevale una logica dell’alterità in chi arriva in questa Regione. Tavernese, a testimonianza di questa ricerca spasmodica di alterità ricorda un’intervista di qualche anno fa di Federico Cafiero De Raho, procuratore di Reggio Calabria, nella quale spiegava che lui prima giocava sempre a tennis: “Oggi non lo posso più fare perché anche quello determina entrare in un circolo, avere rapporti con persone. Cosa penserebbe il cittadino se mi vedesse insieme a persone che io reputo perbene ma che invece hanno rapporti che io ignoro. Penserebbero tutti ad una procura inaffidabile”.  E’ un atteggiamento simile al 1984 orwelliano, dice Tavernese, “come se esistesse un reato di atteggiamento psichico; vivi e pensi secondo un certo modo perché ci sono i buoni a dirti cosa fare e cosa pensare, secondo un regime di demarcazione. In 1984 c’era, non a caso, il partito interno e il partito esterno. Come se da una parte ci fossero i buoni e dall’altra i non buoni. Sono decenni che sui media si porta avanti questa narrazione. Ma le cose sono più complesse. Non puoi non conoscere il territorio che devi amministrare. Non puoi isolarti e limitarti a una certa conoscenza delle cose. Allo stesso modo, anche se hai indagini ben condotte, come fai a vagliarne la bontà affidandoti solo a esse, che non restituiscono la totalità e la contezza di ciò che sta avvenendo?”. Sicché, vale per la politica per la sanità ma anche per il giornalismo, bisogna essere vicini a ciò che si racconta o si indaga. Domanda: ma la Calabria sotto tutela è in grado di autodeterminarsi? “Può essere imbarazzante domandare se la Calabria sia in grado di autodeterminarsi politicamente, se la Calabria sia in grado di riprogrammare e ripianificare le politiche dei settori più sensibili della vita dei suoi cittadini”, dice al Foglio Serena Minnella, Cultrice della materia in Political Philosophy for Global Issues dell’Università Dante Alighieri di Reggio Calabria, membro del Garante metropolitano per l’infanzia e l’adolescenza della Città metropolitana di Reggio Calabria. “Se questa autodeterminazione è dare la Calabria ai calabresi, allora va chiarito di quali mani parliamo e di cosa dovrebbero fare. Le mani sono quelle dei politici eletti o da eleggere, che scelgono quali politiche attivare; sono quelle dei dirigenti apicali, che conoscono il flusso di denaro pubblico e la sua distribuzione; sono quelle degli impiegati pubblici, che ricevono documenti, pratiche, richieste; sono quelle dei cittadini che hanno il diritto di chiedere, accedere, conoscere, usufruire”.

 

Tutte queste mani, dice Minnella, “dovrebbero – dovremmo – schierarsi nettamente dalla parte del nostro bene. Dovremmo decidere di riportare la situazione alla normalità, all’accesso misurato. Dovremmo rinunciare a una civiltà dell’avidità e dello spreco, del sotterfugio. Dovremmo sbarazzarci della nostra marcata ambiguità, della nostra abilità nel nascondere e della nostra maestria nel confondere. Non può dirsi che fino a oggi la Calabria non si sia autodeterminata; anzi, è così, si è autodeterminata nella dinamica atavica che le è congeniale, quella dell’autodistruzione. E’ un sistema che si alimenta nella propria capacità di sottoporsi al supplizio, fustiga sé stessa come atto di forza. Davanti allo specchio si squarta la schiena e sanguina soddisfatta della sua resistenza al dolore, ed è questo che orgogliosa di mostrare agli altri, vicini di casa e non. Affermare queste parole è doloroso, perché include una responsabilità collettiva che oggi è sproporzionata e i suoi danni non si producono soltanto a colpi di fatture pagate tre o quattro volte in sanità, ma si producono anche con comportamenti che rendono incerto l’accesso ai diritti che fondano la comunità”. L’esempio che si potrebbe ricordare è quello dell’ignoto cittadino della provincia dell’impero calabrese, dice Minnella, “che grazie a qualche amico in ospedale riesce ad anticipare la visita scalzando la lista d’attesa lunga tanti mesi. E’ un sistema che impone la sopravvivenza al contrario: a un male che esiste si può rispondere soltanto con un altro male, di segno diverso. A questo punto viene la questione in concreto: i fatti di questi giorni hanno messo la Regione e il paese nella condizione di far dimettere due commissari e una terza persona ha rinunciato all’incarico, qualunque siano state le sue ragioni. Quando si sceglieranno i candidati presidente alle prossime elezioni e quando si dovranno fare le giunte regionali, i nomi di coloro che occuperanno gli scranni più alti come dovrebbero essere individuati? Gli assessorati dove i fondi sono più cospicui a quali persone dovrebbero essere assegnati? E’ qui la domanda nascosta di ogni autodeterminazione: quali qualità deve avere una personalità per essere capace di sedere su una di quelle poltrone? Un buon curriculum? Ottime relazioni con politici e stakeholders? Abilità lobbistiche? Oppure si tratta di questioni di personalità e il suo più grande sacrificio sarà rinunciare di agire in alcuni casi secondo il canone della competenza per favorire quello della spietatezza?”. 

 

Insomma è forse la spietatezza quella che serve alla Calabria. Quella che tiene la Regione e la politica nazionale ancorate ai veri problemi. Sulla sanità per esempio: “La ricerca spasmodica di un nome mediaticamente corretto da collocare, prolungando l’ormai interminabile commissariamento, sposta l’attenzione dai problemi veri all’interno degli ospedali”, dice Marco Schirripa, assegnista di ricerca in Diritto Comparato, ex membro della Direzione nazionale del Pd. Un esempio su tutti, dice Schirripa: l’ospedale spoke di Locri interessa 42 comuni, per un totale di circa 150 mila abitanti (che in estate aumentano vertiginosamente) e svolge più o meno 50 mila prestazioni l’anno al pronto soccorso: “Attualmente mancano i primari di radiologia, urologia, pediatria, anestesia, oncologia, anestesia, pronto soccorso e ortopedia. Con una carenza di personale medico e paramedico così spaventosa quale commissario potrebbe assicurare una adeguata tutela della salute ai cittadini della Locride senza ricorrere alle stabili assunzioni di cui sopra?”.

 

La domanda puntuale di Schirripa si porta sempre appresso la solita risposta: la fuga. Per cercare di essere assunti altrove. Solo che la Calabria continuerà ad avere bisogno di medici. “L’emigrazione è un piccolo paradosso del rapporto tra azione collettiva e individuale. Nell’emigrazione c’è una tensione fra le scelte individuali e il destino del luogo in cui si è”, riprende Citroni. “Per l’individuo sono molte le occasioni convenienti per andarsene piuttosto che per cercare di soddisfare i propri bisogni in Calabria, perché un posto di lavoro, una casa una cura sono più facili da trovare fuori. Anche i ragazzi che fanno attivismo politico poi spariscono, perché il lavoro, la famiglia, il mondo li porta fuori; non è mancanza di volontà, ma anche chi è attivo si ritrova a distanziarsi fisicamente. Adesso che le assemblee sono online, recuperi chi è fuori, ma è la prima volta che accade e non è detto che duri e non so neanche se abbia senso”. La distanza fisica è una costante calabrese. Si è distanti perché si lascia la Regione, ma si è distanti anche al suo interno, perché i collegamenti non funzionano o sono assenti. Anche i collegamenti politici e sociali non vanno granché. Pensiamo al ruolo dei sindaci, osserva il fiorentino Citroni: “Quando ero in Toscana, i sindaci facevano parte di una rete di partito e dell’Anci Toscana; avevano insomma una rete di protezione, di sostegno, di aiuto, di collaborazione. In Calabria invece sono senza partito e senza Anci, vanno dai prefetti, che magari non sono sempre di alto livello”. La Roma che ti commissaria, dunque, resta sempre una speranza. Da lì arrivano le risorse, i commissari, i prefetti. L’autodeterminazione resta una chimera.

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ