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Fiducia e legittimità, quel che manca all'Italia

Giuliano Ferrara

Gli Stati Uniti e noi, due sistemi diversi. Là la politica forma le corti, ma tutti hanno fiducia bipartisan nel fatto che le toghe saranno imparziali esecutori della legge. E poche regole, ma sanzioni certe se le infrangi

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Quando i francesi votano il presidente, a pochi minuti dalla chiusura delle urne in tv si assiste al gioco delle immaginette sovrapposte sullo sfondo del Palazzo dell’Eliseo, l’ultima volta il mezzobusto di Marine Le Pen e quello di Emmanuel Macron, e subito dopo un istante di suspense appare il volto di chi ha vinto. Notaio, funzionario e prefetto sono la nostra triade euronapoleonica. Negli Stati Uniti, come stranoto, non si conta il voto popolare con metodo centralizzato, con il contorno di un facile gioco di proiezioni statistiche e l’esito in tempo reale, si contano i voti dei singoli stati che inviano una delegazione di grandi elettori nel Collegio elettorale. Sicché tutto è più lungo e complicato, c’è il numero magico di 270 da raggiungere per diventare presidente eletto, il dubbio sugli stati in cui i risultati, quando non ci sia una valanga per l’uno o per l’altro, sono in bilico, e infine c’è il ruolo di controllo e decisione sulla conta da parte dei giudici, a volte più cavallerescamente con Bush vs Gore nel 2000 e a volte più cupamente e minacciosamente come con Trump vs Biden or ora.

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Quando i francesi votano il presidente, a pochi minuti dalla chiusura delle urne in tv si assiste al gioco delle immaginette sovrapposte sullo sfondo del Palazzo dell’Eliseo, l’ultima volta il mezzobusto di Marine Le Pen e quello di Emmanuel Macron, e subito dopo un istante di suspense appare il volto di chi ha vinto. Notaio, funzionario e prefetto sono la nostra triade euronapoleonica. Negli Stati Uniti, come stranoto, non si conta il voto popolare con metodo centralizzato, con il contorno di un facile gioco di proiezioni statistiche e l’esito in tempo reale, si contano i voti dei singoli stati che inviano una delegazione di grandi elettori nel Collegio elettorale. Sicché tutto è più lungo e complicato, c’è il numero magico di 270 da raggiungere per diventare presidente eletto, il dubbio sugli stati in cui i risultati, quando non ci sia una valanga per l’uno o per l’altro, sono in bilico, e infine c’è il ruolo di controllo e decisione sulla conta da parte dei giudici, a volte più cavallerescamente con Bush vs Gore nel 2000 e a volte più cupamente e minacciosamente come con Trump vs Biden or ora.

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I giudici in America sono elettivi o di nomina politica, quelli supremi sono a vita, mentre in Europa sono una casta togata vincitrice di concorsi e un ordine che si autogoverna e si autodetermina le carriere. Anche negli Stati Uniti ci sono giudici politicizzati o giudici corrotti, normale, ma del sistema americano è parte questa per noi (in particolare noi italiani) misteriosa caratteristica: la politica forma le corti, ma tutti hanno fiducia bipartisan nel fatto che le toghe saranno imparziali esecutori della legge, questione di etica pubblica, di formazione del ceto, di esposizione a un’opinione generale intrisa di severità puritana, non incline a compromessi in fatto di giustizia.

 

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Nel processo elettorale a nessuno è venuto in mente, non ai liberal e nemmeno a Trump che sollecitava pronunciamenti legali in suo favore, che i tutori del diritto avrebbero favorito riconteggi o blocchi dello scrutinio a richiesta, senza indizi massicci o prove, senza sostanza per ottenerli. Pensate se Davigo Di Pietro De Magistris o Palamara fossero arbitri della cernita dei voti nei nostri collegi elettorali: chi si fiderebbe, chi se ne starebbe sereno a aspettare il loro responso? Eppure teoricamente da noi la politica, che di là dall’oceano nomina e decide, non mette becco.

 

Si dice che il presidente scelto dagli elettori a Washington è proclamato come eletto, con tutte le guarentigie della transizione compreso lo spazio aereo sorvegliato e altro (quando l’avversario non è un Truce ex arancione, ora grigio di capelli), dall’Ap, l’Associated Press, un organo della stampa. E’ vero, per tradizione il call degli stati diventa notizia e fatto pubblico quando è rilanciato come dato inoppugnabile dall’Ap. Anche i media, così divisivi per altri motivi, sono come i giudici depositari di una grande fiducia, in realtà. Lo stesso per i funzionari pubblici che, non importa se in stati governati da maggioranze repubblicane o democratiche, devono in effetti a scrutinio ultimato definirlo, comunicarlo, formalizzarlo. Fiducia, anche lì. Perfino il comportamento dei Grandi Elettori, che devono ratificare la scelta del popolo votando secondo i suoi desiderata per l’uno o per l’altro, non è normato da altro che non sia la fiducia, e solo in alcuni stati c’è una legge obbligante per questi elettori di secondo grado. I tentativi di delegittimazione ci sono, ma nonostante un voto che comincia per posta mesi prima, e che nel caso recente si è prodotto con una valanga di lettere e formulari, e malgrado diverse leggi locali per le procedure elettorali, tutte stabilite stato per stato, con eventuali ricorsi giudicati dalle corti, niente da fare, la legittimità si produce in mezzo a quello che a noi pare un caos decentrato e inafferrabile.

 

Ci ha sempre stupito il fatto che in molte parti d’America ti puoi sposare sulla base di dichiarazioni d’amore e fedeltà, in un fiat pochissimo documentale o burocratico, e anche divorziare a razzo, e che in un albergo potevi dire, fino a non molto tempo fa, di chiamarti George Washington o Napoleone Bonaparte, senza ulteriori indagini della réception. Poi però se infrangi la legge, la sanzione è durissima e inevitabile, la pena certa e ravvicinata nel tempo, insomma tutto un sistema che è il contrario del nostro. E fiducia, questo ingrediente decisivo a cui noi opponiamo dappertutto sistemi di regole, vuol dire tradizione e senso comune, cose che valgono perfino dopo quattro anni di deragliamenti di tipo allucinogeno in questi due campi.

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