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l'allarme di gentiloni

Recovery time. I ritardi italiani nelle riforme visti da Bruxelles

Valerio Valentini

Entro gennaio la Commissione europea attende semplificazione normativa e strutture straordinarie per la spesa dei fondi. Il governo pensa a inserirle in legge di Bilancio, che è già di 300 articoli. Ma il tempo è poco, e il Pd mormora

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La tentazione non si pone perché in fondo di soldi ce n’è pochi, vista la situazione. Ma altrimenti davvero Roberto Gualtieri ci penserebbe su, a fare quel che confessa di sognare parlando con gli amici, certe volte: “Comprare il tempo”. Lo dice pensando all’inesistenza di ore lasciate libere, nella trafila quotidiana del suo lavoro al Mef. Ma forse lo dice anche pensando a quel problema che angoscia lui e mezzo governo, e ormai anche una buona parte del Parlamento, su su fino ai nostri diplomatici di Bruxelles: il tempo, appunto. O meglio, la sua mancanza. 

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La tentazione non si pone perché in fondo di soldi ce n’è pochi, vista la situazione. Ma altrimenti davvero Roberto Gualtieri ci penserebbe su, a fare quel che confessa di sognare parlando con gli amici, certe volte: “Comprare il tempo”. Lo dice pensando all’inesistenza di ore lasciate libere, nella trafila quotidiana del suo lavoro al Mef. Ma forse lo dice anche pensando a quel problema che angoscia lui e mezzo governo, e ormai anche una buona parte del Parlamento, su su fino ai nostri diplomatici di Bruxelles: il tempo, appunto. O meglio, la sua mancanza. 

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Perché certo, la pandemia impone nuovi impegni e stravolge qualsiasi tabella di marcia. Ma lassù, a Bruxelles, un segnale di chiarezza dall’Italia se lo attendono sul Recovery fund. Non tanto sul piano nazionale delle riforme: che, sia pure in forma ancora parziale, è stato fatto pervenire alla Commissione. Il punto sta semmai nel lavoro preparatorio, nel dissodamento del terreno arido dell’iperburocrazia italica. Bisogna insomma dimostrare ai partner europei, non più tardi di metà gennaio, che abbiamo un percorso chiaro, e possibilmente rapido, di riforme, sia per quel che riguarda la semplificazione normativa sia sul tema della gestione dei finanziamenti. Come verranno individuate, nel dettaglio, le opere da finanziare coi 208 miliardi del Next generation Eu? E come potremo offrire garanzie che poi, aperti i cantieri, non ci si impantanerà come al solito?

 

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E insomma se Paolo Gentiloni s’è sentito in dovere di lanciare un avviso ai naviganti con tanto di intervista al Corriere, imbellettando col garbo e la malizia che gli sono propri un messaggio di preoccupazione sui ritardi italiani sulla via del Recovery, è perché a Bruxelles, tra i corridoi del Palazzo Berlaymont, i dubbi e le perplessità, e pure qualche malevolo ricorso si luoghi comuni sull’inconcludenza italica risuonano più acuti. 
E così alle scadenze formali si aggiungono quelle politiche. A marzo l’Olanda andrà al voto: e dopo le elezioni l’inflessibilità nei confronti del Recovery è quasi sicuro che aumenti, per cui è probabile che dall’Aia qualcuno chiederà come mai le tanto attese riforme promesse dall’Italia non sono state fatte, e tirerà il famoso freno d’emergenza che impedirà, o quanto meno rallenterà, l’erogazione dei fondi. Vincenzo Amendola, ministro per gli Affari europei, fa buon viso a cattivo gioco: difende gli sforzi che il governo sta facendo, e poi però si sbraccia per sollecitare i suoi colleghi a darsi una mossa, a convocare un tavolo politico dove affrontare, finalmente in modo prioritario, il tema del Recovery.

 

In verità, è scontato che solo in parte, si tratterà di riforme strutturali. Per lo più, bisognerà trovare delle specifiche discipline normative in deroga rispetto alla legge ordinaria. “Occorre rafforzare la capacità di progettazione e di spesa anche definendo una struttura ad hoc che possa disporre di poteri sostitutivi”, ha detto due settimane fa Gualtieri alla festa del Foglio. E a Palazzo Chigi hanno sgranato gli occhi: perché il ricorso a strutture commissariali e a procedure semplificate nell’ambito del Recovery è quello che anche i tecnici di Conte hanno in mente. E anzi, delle bozze di articolati sul tema sono già pronti, custoditi nei cassetti del premier. Solo che con Gualtieri non se n’è ancora parlato, e di tempo per confrontarsi ce n’è sempre meno.

 

Al punto che, almeno nei pensieri di chi dirige la macchina a Palazzo Chigi, bisognerà utilizzare la legge di Bilancio come veicolo per introdurre queste riforme, per preparare il campo al Recovery che verrà, con buona pace dei puristi della materia che obiettano sul fatto che nelle finanziarie di fine anno le norme ordinamentali è bene che non vengano inserite. Non c’è tempo per appassionarsi ai dibattiti in punto di diritto. Anzi il problema è proprio quello: il tempo.

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Perché la legge di Bilancio avrebbe dovuto essere presentata al Parlamento – a proposito di rigore – il 20 ottobre. E invece, se tutto andrà bene, l’analisi della manovra partirà alla Camera all’inizio della prossima settimana. Di lì partiranno le audizioni, la discussione degli emendamenti coi relativi accapigliamenti di rito, prima della discussione in Aula: il tutto, beninteso, in un mese al massimo. Perché poi la manovra dovrà andare a Palazzo Madama, dove i senatori sono già rassegnati a sedute a oltranza tra Natale e Capodanno, con la consapevolezza di non poter comunque cambiare nulla, perché a quel punto il tempo per una terza lettura a Montecitorio non ci sarebbe. Anche per questo il dem Fabio Melilli, il presidente di quella commissione Bilancio della Camera che sovrintenderà al traffico, due giorni fa s’è rivolto al governo chiedendo che la legge di Bilancio arrivi il prima possibile e che arrivi “in forma asciutta ed essenziale”, così da consentire un’analisi attenta del dossier. E chissà se già lo sapeva che, nelle bozze che circolano, la legge di Bilancio è già un monstrum di 300 articoli. E che, in assenza di una regia chiara, e con gli uffici della Ragioneria dello stato presi da un lavoro sfibrante sui tanti interventi straordinari richiesti dalla pandemia, gli incartamenti continuano a lievitare, accogliendo le varie e variegate proposte dei ministeri. Ci vorrebbe tempo, per coordinare il lavoro. Ma il tempo, appunto, non c’è.

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