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Spiegare, persuadere. I doveri di un’autorità a legittimazione flebile

Giuliano Ferrara

La tutela della salute pubblica e le proibizioni tassative, intrusive, esistenziali, e i divieti che si rincorrono da una fonte di decisione oggi frammentata. Bisogna mantenere una grandissima calma

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Lasciamo da parte quatto camorristi e turbolenti che si accaniscono sui cassonetti nella notte a Napoli, e veniamo al dunque. Mai nell’arco delle nostre vite, boomer e millennial e non so più cosa confusi, mai abbiamo incontrato quella speciale declinazione dell’autorità che è la proibizione tassativa, intrusiva, esistenziale. Lasciamo stare la metafora del semaforo rosso che è sciatta: qui non si evita lo scontro, si vieta l’incontro. Lasciamo stare. Qui non si dice solo cosa devi fare per strada o in luoghi pubblici, si danno indicazioni rigorose sui contatti perfino in casa; qui non si mettono imposte e gabelle, si chiudono attività, si mette fuorilegge il lavoro, forse la scuola; eccetera. La rivolta è nelle cose, l’insubordinazione è istintuale, la parola coprifuoco sembra fatta per la violazione. La procedura selettiva, poi, è una rappresentazione canonica dell’ingiustizia o una sua efficace simulazione: un conto è dire tutti a casa per fermare il drago, un conto è dire tu sì tu no, questo si può fare e questo no, il tutto senza un orizzonte, senza che si intraveda la fine dell’incubo se non in modo nebuloso.

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Lasciamo da parte quatto camorristi e turbolenti che si accaniscono sui cassonetti nella notte a Napoli, e veniamo al dunque. Mai nell’arco delle nostre vite, boomer e millennial e non so più cosa confusi, mai abbiamo incontrato quella speciale declinazione dell’autorità che è la proibizione tassativa, intrusiva, esistenziale. Lasciamo stare la metafora del semaforo rosso che è sciatta: qui non si evita lo scontro, si vieta l’incontro. Lasciamo stare. Qui non si dice solo cosa devi fare per strada o in luoghi pubblici, si danno indicazioni rigorose sui contatti perfino in casa; qui non si mettono imposte e gabelle, si chiudono attività, si mette fuorilegge il lavoro, forse la scuola; eccetera. La rivolta è nelle cose, l’insubordinazione è istintuale, la parola coprifuoco sembra fatta per la violazione. La procedura selettiva, poi, è una rappresentazione canonica dell’ingiustizia o una sua efficace simulazione: un conto è dire tutti a casa per fermare il drago, un conto è dire tu sì tu no, questo si può fare e questo no, il tutto senza un orizzonte, senza che si intraveda la fine dell’incubo se non in modo nebuloso.

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La “salute pubblica”, come ci dice la storia, è la quintessenza del giacobinismo, della dittatura commissaria, dello stato d’eccezione. Il privato, l’associazione, l’amicizia, la socialità, la comunicazione diretta e perfino il semplice contatto diventano prerogative del potere esecutivo, che ne stabilisce i limiti. Si deforma in modo mostruoso la faccia dello stato che scruta e indaga nelle vite degli altri, nella tua vita. Il vecchio modo di legittimare questo immenso potere era la palingenesi rivoluzionaria in nome del popolo, la salvezza della repubblica, una libertà di grado superiore, il destino della nazione. Con l’esercizio ultimativo del potere si attaccava il privilegio aristocratico, si demoliva il sistema royaliste e assolutista, si difendeva il limes dai barbari, si ergevano l’etnia e la lingua e la cultura nazionale a difesa dei sacri confini. La fonte della decisione fatale era unica. Ora è frammentata, i divieti si rincorrono, si rincorrono le conferenze stampa dei presidenti di regione, le varianti di città. Ora la legittimazione procede da fonti e ragioni decisamente più modeste: una giostra di numeri difficili da interpretare sebbene tremendi al suono, il carotaggio quotidiano nei contagi, il concetto matematico dell’Esponenziale, i pareri di virologi epidemiologi e altri uomini di scienza, le incursioni controverse sul tasso di letalità, l’appello ai diritti dei nonni, tutta roba dettagliata, sminuzzata, priva di carisma valido per tutti. Poi vedi un supereroe che si chiama Ibrahimovic, quasi quarant’anni, due metri di Svezia e Balcani, passaggi dolci e precisi, gol, poi contagio beffato e sbeffeggiato, guarigione immediata e di nuovo assalti alla porta del nemico, assist, gol, trionfo della vita. Che cosa legittima l’autorità a trattarti come un malato potenziale, a limitarti, incastrarti, impedirti nell’identità sociale e nel lavoro?  

           

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Bisogna mantenere una grandissima calma. Un’autorità minore, così come appare proceduralmente nelle democrazie liberali, così contendibile, così tremolante, così dipendente da varianti infinite, negoziati, raccordi, coordinazioni, un’autorità di questo genere non si può permettere di decretare e basta, deve spiegare, deve persuadere, deve ristorare, come si dice quando folle organizzate fanno scoppiare petardi di rivolta urbana al grido “vogliamo i soldi” o classi dirigenti confindustriali alludono a possibili serrate se non arrivano i fondi. La via dell’efficacia e della forza di dissuasione delle misure, quando la dittatura non è commissaria ma più pianamente sanitaria, è una via tortuosa, piena di insidie, da percorrere con saggezza e con astuzia. Sarebbe magnifico risolverla dicendo “arrestiamoli tutti”, ma prima di fare la faccia feroce bisogna fermarsi, guardarsi allo specchio, e valutare la faccia debole e triste dell’autorità a legittimazione flebile.

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