PUBBLICITÁ

Viale (Mazzini) del tramonto

Salini ha capito che in Rai è finita: "Che silenzio quando cammino nei corridoi"

Il manager del atv di stato nel cono d'ombra. Capitò anche a Luigi Gubitosi e poi ad Antonio Campo Dall'Orto

Salvatore Merlo

L'amministratore delegato Fabrizio Salini riceveva cento telefonate al giorno, ora agli amici racconta che “è tanto se ne ricevo trenta”. E’ come se l’azienda, il gran corpo di bestia dotato di vita propria, l’avesse fiutato: è finita, il potere non è più là. Non è più lui. Ed ecco l’eterna ritualità del settimo piano di Viale Mazzini, sempre la stessa storia, che si ripete sempre uguale

PUBBLICITÁ

Riceveva cento telefonate al giorno, ora agli amici racconta che “è tanto se ne ricevo trenta”. Prima entravano continuamente nella sua stanza direttori di rete, dei tg, i manager, quelli delle risorse umane, del cerimoniale e del cosiddetto “financing”, in un turbinio che sembrava non finire mai.  Inviti, proposte, richieste, suppliche.  Ora invece, in quelle stanze dell’amministratore delegato che sembrano una nave da crociera, tra le boiserie, la scrivania, il divano in pelle umana e l’immenso tavolo rotondo, a volte  gli capita persino la fortuna di restare da solo con i suoi pensieri. E’ come se l’azienda, il gran corpo di bestia dotato di vita propria, l’avesse fiutato: è finita, il potere non è più là. Non è più lui. Così adesso quando ne parla agli amici, Fabrizio Salini la prende un po’ a ridere  e racconta che “ai tempi in cui  lavoravo per la Fox feci la serie ‘Boris’.   Era uno sberleffo satirico rivolto   alla Rai. Ma ‘Boris’ è nulla in confronto a quello che davvero è la Rai”. E allora bisogna proprio immaginarselo l’amministratore delegato della televisione pubblica, il padrone della Rai (ma in scadenza) che arriva a Viale Mazzini, attraversa il cortile accanto all’eponimo cavallo, e già subito s’accorge che qualcosa non va.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Riceveva cento telefonate al giorno, ora agli amici racconta che “è tanto se ne ricevo trenta”. Prima entravano continuamente nella sua stanza direttori di rete, dei tg, i manager, quelli delle risorse umane, del cerimoniale e del cosiddetto “financing”, in un turbinio che sembrava non finire mai.  Inviti, proposte, richieste, suppliche.  Ora invece, in quelle stanze dell’amministratore delegato che sembrano una nave da crociera, tra le boiserie, la scrivania, il divano in pelle umana e l’immenso tavolo rotondo, a volte  gli capita persino la fortuna di restare da solo con i suoi pensieri. E’ come se l’azienda, il gran corpo di bestia dotato di vita propria, l’avesse fiutato: è finita, il potere non è più là. Non è più lui. Così adesso quando ne parla agli amici, Fabrizio Salini la prende un po’ a ridere  e racconta che “ai tempi in cui  lavoravo per la Fox feci la serie ‘Boris’.   Era uno sberleffo satirico rivolto   alla Rai. Ma ‘Boris’ è nulla in confronto a quello che davvero è la Rai”. E allora bisogna proprio immaginarselo l’amministratore delegato della televisione pubblica, il padrone della Rai (ma in scadenza) che arriva a Viale Mazzini, attraversa il cortile accanto all’eponimo cavallo, e già subito s’accorge che qualcosa non va.

PUBBLICITÁ

Nessuno gli corre incontro. Nessuno  tenta di spalancare la porta al suo passaggio  (“cosa – dice agli amici – che  con un certo imbarazzo ho sempre cercato di evitare, senza successo”). Qualcosa non va, appunto. Ma quella di Salini   è ancora soltanto una sensazione.  Un brivido infinitesimale del pensiero. Tanto che, quando l’amministratore delegato raggiunge l’ascensore, quello diretto, quello  a fermata unica, trattiene il respiro. Scaramanzia.  Preme il pulsante. Suspense. Quasi si aspetta che nemmeno l’ascensore gli risponda. Così resta piacevolmente sorpreso nello scoprire che invece funziona.  Solo che non appena raggiunge il mitico settimo piano,  il settimo cielo, quello con  gli uscieri in divisa, le porte blindate e le  vetrate, ecco che la sensazione si fa certezza: qualcosa proprio non va.  Il corridoio è vuoto. Le mille tane che vi si affacciano sono tutte chiuse. Domina un silenzio ostile come quello delle favole, appena incrinato dal cigolio di un carrello carico di faldoni che, come nella canzone Modugno, non si sa da dove viene né dove va. Lui è ancora l’amministratore delegato, ma l’azienda, la bestia, ha già capito che non lo è più.
   

Ed ecco l’eterna ritualità del settimo piano, sempre la stessa storia, che si ripete sempre uguale. Capitò a Luigi Gubitosi, il direttore generale che segnò il passaggio dal montismo al renzismo, il manager preso dal mercato la cui parabola si esaurì d’improvviso, quando il Rottamatore fiorentino dopo la parentesi di Enrico Letta s’affacciò con prepotenza sul proscenio della politica chiudendo una stagione per aprirne un’altra. Breve ma intensa. E capitò di nuovo ad Antonio Campo Dall’Orto, quando sempre lui, il Rottamatore, iniziò a non rispondergli più al telefono. “No, il presidente non c’è”. “E’ occupato”. “Sì, richiamerà”. “No il presidente è andato a sciare all’Abetone”. Click. E allora tutti, dal settimo piano in giù, capirono che Campo Dall’Orto era andato. Forse ancora prima che se ne accorgesse lui stesso. E’ fatta così la Rai. Pure l’ultimo degli uscieri, che sono tutti anziani, conosce almeno sei ministri di ogni governo degli ultimi trent’anni. “Da come piegano la testa quando passi tu, capisci se sei ancora vivo o se sei morto. Osservarli è un utile esercizio”. Così ora tocca a Fabrizio Salini tastare la solitudine. Ora che il Pd è tornato forte. Ora che Nicola Zingaretti vuole decidere  sui decreti sicurezza come sulla Rai. Ora che Luigi Di Maio, come prima Renzi con Campo Dall’Orto, non chiama più al telefono. E tutti lo sanno. E lo capiscono. E lo raccontano. E se lo ripetono.  Tocca a lui, adesso. Ecco dunque l’ultimo direttore generale e il primo amministratore delegato della tivù pubblica, eccolo mentre respira l’aria del tramonto nel posto più chiuso del mondo. A Viale Mazzini, appunto. Dentro a quegli stanzoni da clinica privata, con gli arredi da vecchia Iri degli anni Settanta, lì dove la misura del potere è data dal numero di piante che si ha nella stanza.  Tra i corridoi tutti uguali, un labirinto che sembra fatto per perdersi e quasi ricordare a ogni passo cosa sia l’immutabile burocrazia dell’ultima grande azienda di stato. “Attorno a me ci sono tre categorie di persone”, confida sempre Salini agli amici, sorridendo: gli attendisti, i movimentisti e i lealisti. “I primi fiutano senza mettere la testa fuori dalla tana. I secondi fiutano e si danno da fare con i politici dalla mattina alla sera”. E i terzi? I terzi forse sono i più fessi di tutti. Perché ancora non lo hanno mollato. “Un giorno arriverò qua e scoprirò che non solo non mi aprono la porta, ma che proprio la porta non si apre affatto. Me l’avevano detto che qui funziona così. Solo che non ci credevo”. E invece è tutto vero. Altro che “Boris”.

PUBBLICITÁ

PUBBLICITÁ