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Eterna tenaglia

Governo diviso sulle chiusure: il dilemma di Conte tra imprese e Covid

Salvatore Merlo

Produttività o salute? Il premier rivive il dubbio di sei mesi fa. I timori delle regioni del nord e le telefonate di Confindustria

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Eterno schema eterna tenaglia: la salute o la produttività? Chiuso a Palazzo Chigi, Giuseppe Conte osserva l’incastrarsi  di un mosaico che già conosce perché già lo ha visto comporsi sotto i suoi occhi sei mesi fa, quando tutto iniziò. L’aumento dei contagi, il rito del bollettino della Protezione civile, i litigi tra stato centrale e regioni, le Asl che vanno per i fatti loro, il calcio che vuole continuare a giocare, i virologi che tornano da Fabio Fazio in prima serata… Ieri Confindustria e Confcommercio si sono fatte sentire, in privato. “Attenti che se chiudete di nuovo noi moriamo”. E allora Palazzo Chigi ha smentito: non pensiamo a nuove chiusure per bar e ristoranti.

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Eterno schema eterna tenaglia: la salute o la produttività? Chiuso a Palazzo Chigi, Giuseppe Conte osserva l’incastrarsi  di un mosaico che già conosce perché già lo ha visto comporsi sotto i suoi occhi sei mesi fa, quando tutto iniziò. L’aumento dei contagi, il rito del bollettino della Protezione civile, i litigi tra stato centrale e regioni, le Asl che vanno per i fatti loro, il calcio che vuole continuare a giocare, i virologi che tornano da Fabio Fazio in prima serata… Ieri Confindustria e Confcommercio si sono fatte sentire, in privato. “Attenti che se chiudete di nuovo noi moriamo”. E allora Palazzo Chigi ha smentito: non pensiamo a nuove chiusure per bar e ristoranti.

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Poche parole, lasciate filtrare dalla presidenza del Consiglio ieri pomeriggio, rendono in un lampo l’interezza di un dilemma, sempre lo stesso. “Non c’è nessuna intenzione da parte del governo di chiudere ristoranti, bar e locali come si legge su alcune testate, né di anticiparne l’orario di chiusura introducendo di fatto un coprifuoco”. La crudele betoniera del tempo non cessa mai di rigirare e rimescolare gli stessi drammatici ingredienti. Era febbraio, sei mesi fa,  quando il professor Galli dell’ospedale Sacco di Milano spiegava che fin quando non si sarebbe raggiunto il picco, i contagi sarebbero raddoppiati ogni quattro giorni. Quattordicimilacinquecento contagiati il 12 marzo, ventinovemila contagiati il 16 marzo, cinquantottomila il 20 marzo, centosedicimila il 24… E così via.  Si avvertivano un turbamento e un presentimento di catastrofe che si sarebbero fatti sempre più forti. Virus  veloce e  decisioni complicate: che fare? Quali interessi tutelare, e in che misura?  Anche allora la serie A litigava con il governo, e decideva cosa fare in autonomia. Oggi ci sono le Asl, come quella di Napoli. Si va in ordine sparso. E anche allora le chiusure incontravano i timori, giustificati, delle categorie produttive, terrorizzate. Tutto quell’insieme di timori che a Milano avrebbe preso la forma di una campagna promossa anche dal sindaco Beppe Sala: “Milano non si ferma”. Mentre Luca Cordero di Montezemolo, sul Foglio, ritornava quasi nel ruolo di presidente di Confindustria, e allora diceva  che “sì, bisogna chiudere le aziende che non garantiscono la sicurezza dei lavoratori. Perché la salute viene prima di ogni altra cosa. Però bisogna chiuderle per poco tempo. Perché ci sono aziende che se non riaprono in tempi veloci, non riapriranno mai più”.

 

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Intanto però i contagi raddoppiavano davvero. Ogni giorno. Il 23 marzo, a Bergamo, all’ospedale Papa Giovanni XXIII, gli ottanta posti di terapia intensiva erano già tutti occupati. Di lì a poco si sarebbe cominciato a scegliere chi intubare e chi no. Prima i giovani. A quel punto il governo decise, nella tragedia. Nella notte di mercoledì 25 marzo venne chiusa per decreto l’intera industria meccanica, dopo i negozi, i ristoranti, i bar, gli alberghi. Centomila imprese con quasi due milioni di lavoratori. Tutto fermo. Una bestia imponente, capace di esportare all’estero per 175 miliardi di euro e capace di fatturarne oltre 500, si era spenta.  Erano i giorni in cui Conte citava il film su Churchill,       “The darkest hour”, l’ora più buia. Un film sul coraggio e la forza anche personale di un capo di governo. Ed ecco che ieri sera, malgrado i numeri dei contagi non siano ancora minimamente paragonabili a quelli di marzo, di fronte al presidente del Consiglio si è manifestato lo stesso dilemma di allora: la salute o la produttività. Anche intorno a Conte, le squadre e le linee di pensiero sono quelle di allora. C’è una parte del governo che vorrebbe chiudere e un’altra che vorrebbe aspettare, confidando nella capacità di contenere il virus, stavolta. Ci sono le mascherine. Le persone sono avvertite. La prudenza acquisita, assieme alla consapevolezza. Gli ospedali si sono organizzati. Conte d’altra parte  ha sempre applicato la regola della gradualità. Prudenza. Adelante con juicio.  

 

“Ma vi do una notizia: la seconda ondata è già in atto”, diceva sabato il ministro Francesco Boccia. Mentre gli imprenditori soffocati tremano all’idea di nuove chiusure, di orari contingentati. E ieri mattina, dopo lettura dei quotidiani,  delle indiscrezioni su possibili nuove strette, le linee telefoniche di Palazzo Chigi si sono fatte bollenti: Confindustria, Confcommercio, i presidenti delle regioni del nord. E allora: “Non c’è nessuna intenzione da parte del governo di chiudere ristoranti, bar e locali”. Ma ieri notte, in una delle tante bozze del Def, le parole “chiusura selettiva” assumevano una loro inequivocabile concretezza. 
 

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