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Recovery Chigi

L'urgenza di un'agenda Zinga

Il miracolo di Sleepy Zinga ora è alla prova del futuro. E nel futuro, oltre a un'idea su Palazzo Chigi, c'è una svolta possibile al governo. Se non ora, quando?

Claudio Cerasa

I grillini indeboliti, i nemici divisi, i posti chiave conquistati nella gestione dei fondi europei. E poi un bilancio dei primi diciotto mesi da segretario (dove i successi raggiunti sono arrivati anche grazie a un'agenda non propria). Il miracolo di Sleepy Zinga ora è alla prova del futuro. E nel futuro, oltre a un'idea su Palazzo Chigi, c'è una svolta possibile al governo. Se non ora, quando?

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Lo hanno descritto finora come un politico senza qualità, come un leader senza carisma, come un capo senza visione, come una guida senza direzione, come un segretario senza agenda e non c’è dubbio che lo stile della sua leadership, la leadership di Sleepy Zinga, offra spesso il fianco alle critiche degli osservatori più maliziosi e ai borbottii dei democratici più nostalgici.
 
Eppure, a diciotto mesi dalla sua elezione alla guida del Pd, Nicola Zingaretti, che per sua stessa ammissione rappresenta l’anti leader per eccellenza, è riuscito a fare quello che in pochi avrebbero scommesso che sarebbe riuscito a fare. E nel giro di un anno, rispondendo probabilmente meglio di ogni altro leader di partito all’improvvisa domanda di normalità, ha impresso alla politica italiana un nuovo equilibrio che ha permesso al Pd di ritrovarsi nella condizione in cui si trova oggi: essere il partito centrale di questa legislatura pur essendo uno dei partiti meno rappresentativi di questo Parlamento.
 
Sleepy Zinga, nel giro di un anno, non ha avuto solo il merito oggettivo di ridare vitalità al Pd ma ha avuto anche il merito di imporre al governo un’agenda europeista (sì Mes), di combattere per avere un uomo Pd in un ruolo chiave in Europa (Gentiloni), di impossessarsi degli snodi cruciali dell’esecutivo (i soldi del Recovery passeranno prima di tutto sotto gli occhi di Gualtieri e Amendola), di correggere la deriva filocinese dell’Italia (chiedere a Di Maio), di trasformare l’abbraccio con il M5s in un problema più per il M5s che per il Pd (chiedere a Dibba), di non regalare ai populisti il sì alle riforme costituzionali (il taglio dei parlamentari non è un fine, è un mezzo), di mostrare quanto nella partita contro i populismi ci siano poche alternative al Pd (i progetti di Matteo Renzi e Carlo Calenda, entrambi usciti dal Pd alla fine dello scorso anno, stentano a decollare), di mettere a nudo i limiti della leadership salviniana (il nazionalismo ormai viene ripudiato anche da Meloni) e di creare nel centrodestra una frattura tra partiti europeisti e quelli non europeisti tale da aver fatto avvicinare molto l’agenda di uno dei partiti dell’opposizione (Forza Italia) all’agenda dei partiti di governo (sull’Europa sintonia totale).
 
Zingaretti può piacere come può non piacere ma i risultati ottenuti dal Pd sotto la sua leadership-non leadership sono oggettivi e risultano ancora più sorprendenti se si sceglie di osservare la traiettoria imboccata dal Pd nell’ultimo anno, non nascondendoci una verità difficile da non riconoscere. Ovverosia che alla radice di alcuni dei successi ottenuti da Sleepy Zinga c’è l’adesione a una linea politica che il segretario del Pd avrebbe preferito non seguire. Pensate al governo rossogiallo: Zingaretti, dopo la rottura tra Pd e M5s sulla Tav, provò in tutti i modi ad andare a votare e cercò persino di stringere un patto per le elezioni con il suo nemico Matteo Salvini. Pensate al presidente del Consiglio: Zingaretti, dopo aver accettato di far partire l’esecutivo, provò in tutti i modi a evitare che a guidare il governo della discontinuità fosse quello che considerava il presidente del Consiglio meno in grado di marcare la discontinuità con il suo stesso governo, ovvero Giuseppe Conte. Pensate anche alla tenuta del governo: Zingaretti, dopo aver accettato di far partire il governo Conte, ha provato in tutti i modi a capire, prima della pandemia, se vi fossero possibilità per capitalizzare alle elezioni la crescita del consenso del Pd e il crollo del consenso del M5s.
 
Si potrebbe dire, sbagliando, che il Pd di Zingaretti ha ottenuto buoni risultati facendo l’opposto di quello che voleva fare Zingaretti, ma sarebbe un’affermazione ingenerosa perché in realtà, anche in queste circostanze, emerge una qualità della leadership-non leadership di Zingaretti: sapersi adattare alle situazioni che si presentano e saper trarre il massimo anche dalle condizioni più avverse. E qui, dopo aver parlato un po’ di passato e un po’ di presente, il nostro piccolo ragionamento non può che proiettarsi sul futuro. Dal giorno dopo le regionali, come molti avranno notato, Zingaretti ha tentato di imprimere una nuova agenda al governo assumendo toni inusuali per una leadership che tende in modo naturale a essere poco divisiva. C’è chi dice che il cambio di registro (sì Mes, subito, senza storie; superiamo il bicameralismo paritario, subito senza storie; presentiamo i progetti per il Recovery fund, subito, senza storie) sia legato anche all’ambizione di Zingaretti di fare un salto dal governo della regione (il Lazio) al governo del paese (il Viminale). La storia però della volontà di Zingaretti di lasciare la sua regione per andare a ricoprire il ruolo di ministro non trova riscontro (semmai, l’unica strada potrebbe essere quella di porsi un giorno come alternativa a Conte, nel caso di un difficile ma non impossibile allargamento di questa maggioranza).
 
E in verità il dinamismo del poco dinamico Zingaretti è più probabile che abbia altre finalità non meno interessanti. Una più esplicita e più scoperta: fare squadra con Renzi (con cui il segretario del Pd ha stretto da tempo un patto di non aggressione) per allontanare la rotta del governo dalla palude del grillismo. Una molto più difficile e forse più fantasiosa: valutare, a un certo punto della storia, se la maggioranza più adatta a guidare la stagione del Recovery fund sia quella che non ha la forza di attivare il Mes (ovvero quella attuale) o sia invece quella che avrebbe la forza di attivare il Mes (ovvero parte di quella attuale con l’aggiunta, come sogna Gianni Letta e anche Zinga, di Forza Italia). Agenda, Europa, governo, Recovery. Il futuro del governo è tutto qui, e mai come oggi è nelle mani del Pd.

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Lo hanno descritto finora come un politico senza qualità, come un leader senza carisma, come un capo senza visione, come una guida senza direzione, come un segretario senza agenda e non c’è dubbio che lo stile della sua leadership, la leadership di Sleepy Zinga, offra spesso il fianco alle critiche degli osservatori più maliziosi e ai borbottii dei democratici più nostalgici.
 
Eppure, a diciotto mesi dalla sua elezione alla guida del Pd, Nicola Zingaretti, che per sua stessa ammissione rappresenta l’anti leader per eccellenza, è riuscito a fare quello che in pochi avrebbero scommesso che sarebbe riuscito a fare. E nel giro di un anno, rispondendo probabilmente meglio di ogni altro leader di partito all’improvvisa domanda di normalità, ha impresso alla politica italiana un nuovo equilibrio che ha permesso al Pd di ritrovarsi nella condizione in cui si trova oggi: essere il partito centrale di questa legislatura pur essendo uno dei partiti meno rappresentativi di questo Parlamento.
 
Sleepy Zinga, nel giro di un anno, non ha avuto solo il merito oggettivo di ridare vitalità al Pd ma ha avuto anche il merito di imporre al governo un’agenda europeista (sì Mes), di combattere per avere un uomo Pd in un ruolo chiave in Europa (Gentiloni), di impossessarsi degli snodi cruciali dell’esecutivo (i soldi del Recovery passeranno prima di tutto sotto gli occhi di Gualtieri e Amendola), di correggere la deriva filocinese dell’Italia (chiedere a Di Maio), di trasformare l’abbraccio con il M5s in un problema più per il M5s che per il Pd (chiedere a Dibba), di non regalare ai populisti il sì alle riforme costituzionali (il taglio dei parlamentari non è un fine, è un mezzo), di mostrare quanto nella partita contro i populismi ci siano poche alternative al Pd (i progetti di Matteo Renzi e Carlo Calenda, entrambi usciti dal Pd alla fine dello scorso anno, stentano a decollare), di mettere a nudo i limiti della leadership salviniana (il nazionalismo ormai viene ripudiato anche da Meloni) e di creare nel centrodestra una frattura tra partiti europeisti e quelli non europeisti tale da aver fatto avvicinare molto l’agenda di uno dei partiti dell’opposizione (Forza Italia) all’agenda dei partiti di governo (sull’Europa sintonia totale).
 
Zingaretti può piacere come può non piacere ma i risultati ottenuti dal Pd sotto la sua leadership-non leadership sono oggettivi e risultano ancora più sorprendenti se si sceglie di osservare la traiettoria imboccata dal Pd nell’ultimo anno, non nascondendoci una verità difficile da non riconoscere. Ovverosia che alla radice di alcuni dei successi ottenuti da Sleepy Zinga c’è l’adesione a una linea politica che il segretario del Pd avrebbe preferito non seguire. Pensate al governo rossogiallo: Zingaretti, dopo la rottura tra Pd e M5s sulla Tav, provò in tutti i modi ad andare a votare e cercò persino di stringere un patto per le elezioni con il suo nemico Matteo Salvini. Pensate al presidente del Consiglio: Zingaretti, dopo aver accettato di far partire l’esecutivo, provò in tutti i modi a evitare che a guidare il governo della discontinuità fosse quello che considerava il presidente del Consiglio meno in grado di marcare la discontinuità con il suo stesso governo, ovvero Giuseppe Conte. Pensate anche alla tenuta del governo: Zingaretti, dopo aver accettato di far partire il governo Conte, ha provato in tutti i modi a capire, prima della pandemia, se vi fossero possibilità per capitalizzare alle elezioni la crescita del consenso del Pd e il crollo del consenso del M5s.
 
Si potrebbe dire, sbagliando, che il Pd di Zingaretti ha ottenuto buoni risultati facendo l’opposto di quello che voleva fare Zingaretti, ma sarebbe un’affermazione ingenerosa perché in realtà, anche in queste circostanze, emerge una qualità della leadership-non leadership di Zingaretti: sapersi adattare alle situazioni che si presentano e saper trarre il massimo anche dalle condizioni più avverse. E qui, dopo aver parlato un po’ di passato e un po’ di presente, il nostro piccolo ragionamento non può che proiettarsi sul futuro. Dal giorno dopo le regionali, come molti avranno notato, Zingaretti ha tentato di imprimere una nuova agenda al governo assumendo toni inusuali per una leadership che tende in modo naturale a essere poco divisiva. C’è chi dice che il cambio di registro (sì Mes, subito, senza storie; superiamo il bicameralismo paritario, subito senza storie; presentiamo i progetti per il Recovery fund, subito, senza storie) sia legato anche all’ambizione di Zingaretti di fare un salto dal governo della regione (il Lazio) al governo del paese (il Viminale). La storia però della volontà di Zingaretti di lasciare la sua regione per andare a ricoprire il ruolo di ministro non trova riscontro (semmai, l’unica strada potrebbe essere quella di porsi un giorno come alternativa a Conte, nel caso di un difficile ma non impossibile allargamento di questa maggioranza).
 
E in verità il dinamismo del poco dinamico Zingaretti è più probabile che abbia altre finalità non meno interessanti. Una più esplicita e più scoperta: fare squadra con Renzi (con cui il segretario del Pd ha stretto da tempo un patto di non aggressione) per allontanare la rotta del governo dalla palude del grillismo. Una molto più difficile e forse più fantasiosa: valutare, a un certo punto della storia, se la maggioranza più adatta a guidare la stagione del Recovery fund sia quella che non ha la forza di attivare il Mes (ovvero quella attuale) o sia invece quella che avrebbe la forza di attivare il Mes (ovvero parte di quella attuale con l’aggiunta, come sogna Gianni Letta e anche Zinga, di Forza Italia). Agenda, Europa, governo, Recovery. Il futuro del governo è tutto qui, e mai come oggi è nelle mani del Pd.

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