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Dieci anni senza Cossiga

Chat coi giornalisti, felpe dei vigili. Lo prendevano per pazzo, ma era molto di più. E da populista ha anticipato tutti

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Il 17 ottobre di dieci anni fa ci lasciava un simpatico pazzo. Remigio De Leonardis era un famoso pazzerello che chi aveva la ventura di salire per via del Tritone, a Roma, facilmente avrebbe incontrato. Palleggi, motteggi, a volte improperi, con una strana antenna tipo Teletubbies in testa, aveva cuffione, e bretelle: diceva frasi sconnesse, ma in maniera gentile. Era un Pasquino moderno, parte dell’urbanistica della città. Bloccava il traffico a piazza Barberini, poche centinai di metri dal Quirinale. A un certo punto De Leonardis venne pure indagato, e non per intralcio al traffico, bensì per un reato molto più grave, e strano: vilipendio al capo dello Stato. Nello specifico, il capo dello Stato era Francesco Cossiga: l’allora presidente della Repubblica si era infatti fermato, un giorno, come amava fare, per mandare in crisi cerimoniale e scorte. Aveva bloccato il corteo per parlare con lui, De Leonardis. Il pazzo di piazza Barberini però non fu per niente contento di quella invasione di campo, pure della massima autorità repubblicana: non gradì e anzi dette in escandescenze: e cerimoniale e scorte dovettero placcarlo, e parti pure per eccesso di zelo quel processo appunto per vilipendio.  

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Il 17 ottobre di dieci anni fa ci lasciava un simpatico pazzo. Remigio De Leonardis era un famoso pazzerello che chi aveva la ventura di salire per via del Tritone, a Roma, facilmente avrebbe incontrato. Palleggi, motteggi, a volte improperi, con una strana antenna tipo Teletubbies in testa, aveva cuffione, e bretelle: diceva frasi sconnesse, ma in maniera gentile. Era un Pasquino moderno, parte dell’urbanistica della città. Bloccava il traffico a piazza Barberini, poche centinai di metri dal Quirinale. A un certo punto De Leonardis venne pure indagato, e non per intralcio al traffico, bensì per un reato molto più grave, e strano: vilipendio al capo dello Stato. Nello specifico, il capo dello Stato era Francesco Cossiga: l’allora presidente della Repubblica si era infatti fermato, un giorno, come amava fare, per mandare in crisi cerimoniale e scorte. Aveva bloccato il corteo per parlare con lui, De Leonardis. Il pazzo di piazza Barberini però non fu per niente contento di quella invasione di campo, pure della massima autorità repubblicana: non gradì e anzi dette in escandescenze: e cerimoniale e scorte dovettero placcarlo, e parti pure per eccesso di zelo quel processo appunto per vilipendio.  

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Lo racconta Filippo Ceccarelli, lo Svetonio della prima repubblica, nel suo librone “Invano”. E pare un bel modo o angolo per raccontare i dieci anni dalla morte del pazzo al Quirinale, Cossiga appunto, Francesco: nato a Sassari il 26 luglio 1928 e morto a Roma il 17 agosto 2010, ampiamente commemorato nei giorni scorsi dal suo successore Mattarella. Aveva fatto una carriera bestiale, Cossiga, in tempi in cui non si parlava ancora di sorteggiare i politici, e addirittura questi, non ancora vituperati – oggi pare incredibile – erano rispettati e mettevano a disposizione dello Stato talenti altrimenti spendibili in altre carriere più redditizie. Era stato ministro dell’Interno, Cossiga, presidente del Senato, e poi appunto della Repubblica. Irreprensibile e serio e dotato di occhialoni a televisore, con cravatta incorporata, come imponeva il look penitenziale della Democrazia cristiana, il suo sofferto partito. Tutto normale, salvo che una volta raggiunta l’agognata vetta, aveva sbroccato. Lo sbrocco si manifestava sotto vari profili: rapporto esuberanza coi giornalisti, utilizzo e invenzione fantasiosa di simboli del potere, mobbizzazione di colleghi. Gli italiani, da sempre abituati a non credere in alcun tipo di Stato, hanno però fiducia nel suo capo. Del resto è la figura più simile a un monarca, siede nel luogo dei monarchi (e prima, dei papi): e generalmente è un maturo signore rassicurante e saggio. Di qui lo sgomento che li colse con Cossiga.

“Sì, è vero, a volte si chiudeva in bagno per telefonare di nascosto ai giornalisti, anche se mi aveva giurato che non l’avrebbe fatto”, dice oggi al Foglio l’ambasciatore Ludovico Ortona, che fu il portavoce di Cossiga al Quirinale e poi scrisse un bel memoriale su quegli anni. “Dopo si pentiva. ‘Ludovì, l’ho fatto di nuovo’, diceva, dopo essersi asserragliato con un telefonino di ultima generazione”, perché la mania tecnologica era un’altra delle passioni cossighiane (“e sì, è vero anche che le aziende gli mandavano gli ultimi ritrovati da testare, lui era appassionatissimo”). Oggi parrebbe tutto normale, “oggi chissà quanto si divertirebbe, sarebbe un twittatore folle”, riflette l’ambasciatore Ortona, diplomatico di lungo corso. “Forse avrebbe Tik Tok”. Oggi tutto normale, e però non bisogna dimenticare che quelli erano altri tempi: il presidente era la parte più sacra dello Stato, quella “dignified”: c’era l’apparato e il rispetto dell’apparato. Uno non valeva uno. Cossiga invece a un certo punto inizia a fregarsene. Una mattina si sveglia e dà la nomina a cavaliere della Repubblica a tutte le giornaliste che seguono il Quirinale: Federica Sciarelli, Barbara Palombelli, Leslie Guglielmetti di Telemontecarlo e Cinzia Paladini di Canale 5.  Non una gran cosa, certo. Un divertissement, dice oggi Ortona. Ma di divertissement non era mai sazio.  La mania delle uniformi e dei vessilli. Oggi normalissimo, anche qui: indossare maglie e felpe e tute e mimetiche di Polizia Vigili del fuoco Protezione civile, anche da prestare a morose: ma allora colpiva l’occhio e il cuore. Cossiga volentieri indossava e cambiava, cambiava e indossava (anche: un copricapo da pellerossa, con le piume).  Vessillologo, scrive Ceccarelli: vessillologo e tecnologo. Da una parte la pazzia si esprimeva  con l’ossessione per segni e simboli: studio esasperato dell’araldica: design di livree e stemmi e bandiere e passionaccia per il casato Windsor (senza pur parlare molto l’ostico inglese).  “Ma lo capiva bene”, dice Ortona.

Gli appassionati potranno trovare in Rete un fantasmagorico documentario, prima dei “The Crown”, sulla famiglia reale, del 1992. Si chiama “Elizabeth R: A Year in the Life of the Queen”, e documenta, oltre alle classiche misurazioni dei posti tavola di valletti con metro lineare, le visite di Stato di Lech Walesa e di  Cossiga; il quale, preso da una strana, crescente frenesia, parla con la principessa Margaret, poi con Elisabetta, a cui rifila una scultura-centrotavola bronzea o ottonata; “l’ho fatta fare apposta per vostra maestà, glielo dica, glielo dica!” (intima all’interprete).  Elisabetta dice “oh, it’s lovely”, ma lui quasi sbrocca dall’emozione quando lady Diana mostra un album di famiglia di lei con Carlo. “Beautiful boys! Beautiful boys” si eccita Cossiga, estasiato, di fronte alla principessa forse non ancora triste.

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E un altro Beautiful intercetta la pazzia di Cossiga: a un certo punto, nel 1991, Colette Rosselli, moglie di Indro Montanelli, a Unomattina rivelò che Ridge Forrester si sarebbe fatto prete. Era stata informata della svolta mistica dal capo dello Stato, disse, fan della soap, tramite certi canali suoi privilegiati (di lì telefonate impazzite a capistruttura, direttori di Rete, inquietudine nel Paese reale e in Rai). E poi ancora: le bandierine di sua concezione da issare sulle auto e sul pennone del Quirinale (come appunto una Union Jack italica: se non sventolano, avremmo imparato, il presidente non era in sede).  E i soprannomi affibbiati ai politici: a un certo punto cominciò: Occhetto era lo zombie coi baffi, Rutelli Cicciobello, Violante il piccolo Vyshinsky. Loro, i soprannominati, ci rimanevano malissimo, dice Ortona, ma anche qui oggi è un uso che ispirerebbe tenerezza (e non funzionerebbe: se Salvini desse del Vishinski a chicchessia, nessuno capirebbe di cosa si parla).

Era allora un tema serio la pazzia di Cossiga, anzi Kossiga con la K – “soprannome che gli veniva da prima, da quando era ministro dell’Interno”, per i fatti relativi all’uccisione della studentessa Giorgiana Masi a una manifestazione nel 1977. I migliori cervelli del Paese se ne occupavano. Giravano le ipotesi più strane. Certo, il caso Moro l’aveva devastato. Ma non si escluse alcuna pista: si pensò perfino a un avvelenamento tipo Navalny: si ipotizzò che fosse stato contagiato dal piombo contenuto nel vasto vasellame presidenziale (trentottomila pezzi, altro che “The Crown”). Qualcuno pensò di affiancargli dei tutori: i suoi amici Dc valutarono di affidarlo all’anziano don Giovanni Masia, che era stato suo padre spirituale a Sassari; o, per sovrappiù, a due preti “rosminiani irlandesi”, racconta sempre Ceccarelli,  di San Giovanni a Porta Latina, dove Kossiga aveva piamente aspettato l’elezione (e qui siamo in piena commedia all’italiana, con quei democristiani che nei momenti di crisi si rifugiavano in conventi e parrocchie, come oggi al Papeete). 

Cossiga anzi Kossiga venne messo in stato d’accusa e si dimise, a pochi mesi dalla fine del suo mandato, e nessuno finora ha mai capito se c’era o ci faceva.  “Aveva capito che se faceva il matto se lo filavano, altrimenti no”, racconta oggi Ortona. Pensava a “come fare a farsi ascoltare. Usando la sua ironia”. Forse aveva capito che iniziava l’epoca in cui contava più l’immagine del contenuto. Si veniva del resto da “un partigiano come presidente”, come cantava Toto Cutugno, dal Pertini-stuntman che voleva calarsi nel pozzo di Vermicino e scorrazzava con le sue Maserati con portapipe di radica custom; e poi ci sarebbe stato il grande moralizzatore Scalfaro e poi il grande unificatore Ciampi: in mezzo, lui, il pazzariello, il fool.

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Gli piacevano l’intrigo, il potere, il corteggio di ragazze però paterno e non marpione - e invece mistero fittissimo sulla moglie Giuseppa, Peppa, tenuta segregata come la mamma di Angelica nel “Gattopardo”. Non risiedeva al Quirinale, Cossiga, tornava sempre a dormire a casa, in Prati, con cortei e scorte massimaliste che lo divertivano e oggi sconvolgerebbero. “Non è un caso politico. E’ un caso clinico”, disse De Mita. Comunque, un caso.

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Il Cossiga post Quirinale è un altro capitolo della saga: c’è quell’indimenticabile reperto tv con Palamara, era il 2008 e Cossiga era già ex, e dunque ancora più scatenato. A Sky Tg24 intervenne come quasi sempre a sorpresa, al telefono, e si parlava delle dimissioni rassegnate nella mattina dall’allora Guardasigilli, Clemente Mastella, dopo gli arresti domiciliari a cui era stata sottoposta la moglie. Di fatto la fine del governo Prodi, che una settimana più tardi di dimetterà da presidente del Consiglio. Le parole dell’allora presidente dell’Associazione nazionale magistrati sul ruolo dei giudici non piacciono a Cossiga, che lo definisce più volte “tonno”, “perché ha un nome da tonno”; con quell’accento acuto sulla o, tónno, e insiste più volte (anche col rafforzativo “Faccia da tonno”). “Dalla faccia, io ho fatto politica cinquant’anni e vuole che non riconosca uno dalla faccia?”. La conduttrice, Maria Latella, è stravolta. Ma questo episodio appartiene appunto al dopo-settennato, al Cossiga unchained, al Cossiga pubblicista, informatore di Dagospia, e retroscenista in proprio dietro pseudonimo (“Franco Mauri” su Libero e “Mauro Franchi” sul Riformista). Liberato anche dall’ultimo tabù (un’altra volta dirà sempre in tv e a sorpresa che “Mario Draghi è un vile affarista”).

E rimane il mistero del come è del perché un tipo  del genere arrivò mai al Quirinale. “Io sono sempre stato scelto perché non contavo niente, non ero appoggiato da nessuno”, disse  Kossiga a Claudio Sabelli Fioretti.  “Non facevo paura a nessuno. Come quando nominano un nero presidente di una società americana. Lo nominano perché non conta niente. Io sono il nero della politica italiana”. Il nero  Cossiga era dunque solo un grigio costituzionalista sardo, molto attento alle formalità, sempre rimasto un po’ in secondo piano. Solo questo? Il travet della politica che una volta “arrivato” dà fuori di matto?

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Pare un po’ troppo facile. “Oggi si ricordano solo le sue battute”, dice l’ambasciatore Ortona. Che avanza la teoria: lui diceva quello che gli altri non volevano sentire. Anzi, quello che gli altri ipocritamente gli chiedevano ma poi non volevano mettere in pratica. “I politici salivano al Quirinale chiedendo riforme, ma poi non avevano nessuna intenzione di metterle in pratica”. “Come nel 1991 col famoso messaggio alle Camere”; Inoltre, “Cossiga  chiedeva al Paese di capire quello che stava succedendo. Ma i politici non capivano niente. L’aveva colpito molto in particolare una conversazione con Mitterrand che ebbe nel 1990. Quello è un paese vero, disse.  Il muro era crollato, cambiavano gli scenari internazionali, ma da noi invece si faceva finta di niente”. “Vengo da un vero paese e qui mi ritrovo con le litigate tra Leoluca Orlando e padre Pintacuda”, disse. Insomma la spiegazione politica e non psichiatrica è: in Italia si discute solo di beghe interne mentre intorno il mondo cambia – tutto molto attuale anche oggi.

 . 

Ma Cossiga appariva – o lo fecero apparire –  come un corpo estraneo, corpo estraneo e un po’ scappato di casa, pur se di stanza al Quirinale. E anche in questo pare un precursore, un visionario: picconava, esternava, protestava, come oggi i politici inneggiano alla lotta, ben saldi alle poltrone di governo (e questi neologismi: picconare ed esternare, che nacquero con lui, erano sue invenzioni o dei giornalisti? “Dei giornalisti”, dice l’ambasciatore).

Fare il pazzo però gli costava, a Kossiga. “L’uomo era molto sensibile, molto”, dice ancora l’ambasciatore Ortona. “Le accuse lo ferivano. Soffriva terribilmente. Diventava ancora peggio quando si sentiva attaccato e maltrattato. Gli altri lo sapevano e lo aizzavano. Non era Andreotti, che riusciva a farsi dire qualunque cosa facendosela scivolare addosso”. E i rapporti tra i due com’erano? “C’è un carteggio. Le lettere di Cossiga erano di cinque pagine, quelle di Andreotti di mezza. E Andreotti a un certo punto tirò fuori la storia di Gladio. Senza preavvertirlo. Cossiga stette malissimo”. Ma come è possibile essere ipersensibili e far carriera fino al Quirinale? “Era geniale. Si è laureato a 19 anni. E’ stato sempre il primo dappertutto. Il più giovane presidente del Consiglio, del Senato, della Repubblica. Era un po’ eccezionale”.

“Sono quello che ha combinato di meno”, diceva invece Kossiga di sé. “Ho causato un sacco di guai. Sono stato il peggiore presidente della Repubblica e il più inutile. Sono stato un velleitario. Sono stato dannoso. Ho fatto venir meno la funzione di una delle grandi istituzioni dello Stato. La mia presidenza era priva di qualunque autorità reale”, e qui c’è la civetteria cossighiana, la profezia del fallito di successo. Morirà appunto nel 2010, come il suo alter ego, il pazzo di piazza Barberini. In un raro video su Youtube, eccolo, De Leonardis, che parla: “quasi otto anni di pratica artistica. Pianeti di luce riflessa! Stella di luce propria!”, dice, felice, all’obiettivo, in una nenia fantastica di nonsense. Sotto, i commenti ormai d’epoca: “Un linguaggio forbito... Credo sia frutto di una forte cultura... Mi spiace sia finito messo alla berlina da chiunque” scrive un utente. “Lo trovavo inquietante ma divertente”, un altro. “Lo vedevo spesso e sentendolo parlare in modo forbito capii trattarsi di un uomo di cultura, cortesia e benestante”, un altro ancora. E un ultimo, definitivo, lapidario: “andava capito”.

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