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Piano con la festa

Paolo Cirino Pomicino

Perché la fragilità del sistema politico influenzerà la legislatura in modo negativo. Occhio ai grillini

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Una continuità politica instabile quella che esce dalle ultime elezioni regionali. Il centro destra non ha espugnato le due roccaforti della sinistra, Toscana e Puglia, ma ha guadagnato una nuova regione, le Marche, che da 25 anni era appannaggio della sinistra e ha aumentato complessivamente i propri voti. Il Partito democratico che temeva una cocente sconfitta in Puglia e Toscana ha retto benissimo e contende alla Lega il posto del primo partito. Si direbbe dunque un pareggio in termini calcistici che produce però un immobilismo complessivo nell’azione del governo la cui stabilità comunque è ampiamente confermata. Al contrario resta il lento spegnimento dei 5stelle che in tutte le regioni non superano il 10 per cento e il cui profilo, ancorché da sempre sgangherato, si sta liquefacendo. Questo dato è l’elemento di instabilità politica di una maggioranza parlamentare che in uno dei contraenti rappresentava il 32 per cento del paese e oggi ne rappresenta molto meno del 10 per cento. Naturalmente non è solo un dato numerico. I cinque stelle latitano sul terreno programmatico e in particolare su cosa fare delle notevoli risorse che l’Europa sta mettendo a disposizione degli Stati membri e della Italia in particolare e continua a giocare contro la presunta casta dei parlamentari quasi che fossero, a prescindere dalle qualità di ciascuno, il male assoluto. Una visione autoritaria che né Zingaretti né altri nel Pd contrastano con la dovuta determinazione per una analoga, ancorché diversa, fragilità culturale. Il lento sfaldarsi dei 5stelle nasce anche dal fatto che non sanno chi sono perché che nati come lo furono dalla mente di un visionario come Gianroberto Casaleggio e dalla forza del più grande giullare della storia dell’unità di Italia. Scomparso purtroppo il primo il secondo ha capito che quelli che lo hanno seguito o vanno nelle braccia del Pd o scompaiono in maniera ingloriosa definitivamente. L’instabilità, però, non è solo della maggioranza ma è dell’intero sistema afflitto come è da un nanismo politico che mal si addice ad una società moderna e ad uno dei paesi più industrializzati del mondo. Lo ha detto molto bene Bonaccini nei giorni scorsi. Sino a quando il Pd è al 22 per cento, ha detto il presidente della Emilia, il paese affannerà e le alleanze saranno obbligate con chiunque ci sta. Altro che l’antica politica dei due forni che presuppone un grande partito di massa che superi abbondantemente il 30 per cento potendo così scegliere tutto ciò che ritiene più utile al paese. Questo partito da venticinque anni non c’è più. Le puntate al 40 per cento o giù di lì prima di Renzi e poi dello stesso Salvini si sono rapidamente evaporate perché figlie di una emozione e non di una cultura e inoltre perché privi di leader periferici che la consolidavano nei territori. Nella seconda repubblica questo è avvenuto con Bossi e oggi in quelle antiche regioni del nord quel modello regge ancora ma non si è espanso all’intero territorio nazionale ed anzi già presenta segni di erosione. Questa fragilità del sistema politico influenza decisamente ogni esecutivo lasciando spazi di governo a poteri diversi da quelli legittimati. Quanto diciamo è drammaticamente testimoniato da ciò che questo sistema sinora ha prodotto nel paese nei suoi 26 anni di vita e continua a farlo anche in questi mesi. Forse dobbiamo ricordare a noi stessi che negli ultimi 26 anni l’Italia è cresciuta di media dello 0,8 per cento l’anno, la povertà si è raddoppiata e la disoccupazione da tempo è a due cifre. Subito prima della pandemia l’Italia cresceva di uno o due decimali avendo chiuso il 2019 con uno striminzito 0,3 per cento e tutti gli indicatori economici e finanziari non brillavano mentre il mezzogiorno d’Italia perdeva centinaia di migliaia di posti di lavoro. Bene, ora le risorse ci sono ma il governo e le forze di maggioranza tranne che elencare titoli non sanno ancora cosa fare e da dove cominciare mentre l’opposizione non gli è da meno. Noi sappiamo che nulla è immutabile ma sappiamo anche che partiti dai nomi strambi e spesso ridicoli se non si arricchiscono di una identità precisa come avviene in tutta Europa non potranno mai avere una visione di quale paese gli italiani vorrebbero avere e men che meno in quale quadro geopolitico l’Italia dovrà muoversi senza perdere, come è avvenuto nel caso della Libia, posizioni autorevoli guadagnati in anni ed anni di saggezza politica e di grande autorevolezza ampiamente riconosciuti da tutti i leader africani. Ora abbiamo Di Maio e il Mediterraneo è preda di Erdogan.

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Una continuità politica instabile quella che esce dalle ultime elezioni regionali. Il centro destra non ha espugnato le due roccaforti della sinistra, Toscana e Puglia, ma ha guadagnato una nuova regione, le Marche, che da 25 anni era appannaggio della sinistra e ha aumentato complessivamente i propri voti. Il Partito democratico che temeva una cocente sconfitta in Puglia e Toscana ha retto benissimo e contende alla Lega il posto del primo partito. Si direbbe dunque un pareggio in termini calcistici che produce però un immobilismo complessivo nell’azione del governo la cui stabilità comunque è ampiamente confermata. Al contrario resta il lento spegnimento dei 5stelle che in tutte le regioni non superano il 10 per cento e il cui profilo, ancorché da sempre sgangherato, si sta liquefacendo. Questo dato è l’elemento di instabilità politica di una maggioranza parlamentare che in uno dei contraenti rappresentava il 32 per cento del paese e oggi ne rappresenta molto meno del 10 per cento. Naturalmente non è solo un dato numerico. I cinque stelle latitano sul terreno programmatico e in particolare su cosa fare delle notevoli risorse che l’Europa sta mettendo a disposizione degli Stati membri e della Italia in particolare e continua a giocare contro la presunta casta dei parlamentari quasi che fossero, a prescindere dalle qualità di ciascuno, il male assoluto. Una visione autoritaria che né Zingaretti né altri nel Pd contrastano con la dovuta determinazione per una analoga, ancorché diversa, fragilità culturale. Il lento sfaldarsi dei 5stelle nasce anche dal fatto che non sanno chi sono perché che nati come lo furono dalla mente di un visionario come Gianroberto Casaleggio e dalla forza del più grande giullare della storia dell’unità di Italia. Scomparso purtroppo il primo il secondo ha capito che quelli che lo hanno seguito o vanno nelle braccia del Pd o scompaiono in maniera ingloriosa definitivamente. L’instabilità, però, non è solo della maggioranza ma è dell’intero sistema afflitto come è da un nanismo politico che mal si addice ad una società moderna e ad uno dei paesi più industrializzati del mondo. Lo ha detto molto bene Bonaccini nei giorni scorsi. Sino a quando il Pd è al 22 per cento, ha detto il presidente della Emilia, il paese affannerà e le alleanze saranno obbligate con chiunque ci sta. Altro che l’antica politica dei due forni che presuppone un grande partito di massa che superi abbondantemente il 30 per cento potendo così scegliere tutto ciò che ritiene più utile al paese. Questo partito da venticinque anni non c’è più. Le puntate al 40 per cento o giù di lì prima di Renzi e poi dello stesso Salvini si sono rapidamente evaporate perché figlie di una emozione e non di una cultura e inoltre perché privi di leader periferici che la consolidavano nei territori. Nella seconda repubblica questo è avvenuto con Bossi e oggi in quelle antiche regioni del nord quel modello regge ancora ma non si è espanso all’intero territorio nazionale ed anzi già presenta segni di erosione. Questa fragilità del sistema politico influenza decisamente ogni esecutivo lasciando spazi di governo a poteri diversi da quelli legittimati. Quanto diciamo è drammaticamente testimoniato da ciò che questo sistema sinora ha prodotto nel paese nei suoi 26 anni di vita e continua a farlo anche in questi mesi. Forse dobbiamo ricordare a noi stessi che negli ultimi 26 anni l’Italia è cresciuta di media dello 0,8 per cento l’anno, la povertà si è raddoppiata e la disoccupazione da tempo è a due cifre. Subito prima della pandemia l’Italia cresceva di uno o due decimali avendo chiuso il 2019 con uno striminzito 0,3 per cento e tutti gli indicatori economici e finanziari non brillavano mentre il mezzogiorno d’Italia perdeva centinaia di migliaia di posti di lavoro. Bene, ora le risorse ci sono ma il governo e le forze di maggioranza tranne che elencare titoli non sanno ancora cosa fare e da dove cominciare mentre l’opposizione non gli è da meno. Noi sappiamo che nulla è immutabile ma sappiamo anche che partiti dai nomi strambi e spesso ridicoli se non si arricchiscono di una identità precisa come avviene in tutta Europa non potranno mai avere una visione di quale paese gli italiani vorrebbero avere e men che meno in quale quadro geopolitico l’Italia dovrà muoversi senza perdere, come è avvenuto nel caso della Libia, posizioni autorevoli guadagnati in anni ed anni di saggezza politica e di grande autorevolezza ampiamente riconosciuti da tutti i leader africani. Ora abbiamo Di Maio e il Mediterraneo è preda di Erdogan.

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