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Un bel voto contro il partito della gnagnera

Claudio Cerasa

Il  messaggio che arriva dal referendum (sì al 70%) e le lezioni che arrivano dalle regionali (sì, ci sono alternative al salvinismo). Buone notizie per chi si augura che l’Italia esca in fretta dalla stagione della fuffa

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Al referendum vince il Sì, in Puglia resiste Michele Emiliano, in Toscana si afferma Eugenio Giani, in Campania trionfa Vincenzo De Luca, in Veneto spopola Luca Zaia, in Liguria si afferma Giovanni Toti, le Marche vanno a Francesco Acquaroli, nel governo si rafforza il Pd, nell’opposizione si indebolisce il salvinismo e nell’attesa di conoscere i dettagli numerici del voto alle regionali ci sono già alcune considerazioni di fondo che si possono fare sull’esito di queste elezioni. E se si ha la pazienza di andare oltre il risultato del referendum e oltre il risultato delle regionali ci sono buone ragioni per dire che la politica degli estremismi esce indebolita da questa doppia tornata elettorale. La prima ragione ha a che fare con il referendum costituzionale. Il referendum vinto dal fronte del Sì non era un referendum sul governo (la riforma in Parlamento è stata approvata dal 97 per cento dei parlamentari) e non era neanche un referendum sul grillismo (il taglio al numero dei parlamentari lo chiedono tutti i partiti della Repubblica da circa trent’anni) e per quanto ci sia qualcuno nella maggioranza tentato dal trasformare il Sì alla riforma costituzionale in una vittoria del governo (non è così, nonostante lo sforzo generoso del gruppo Gedi e di Repubblica di trasformare questo referendum in un referendum sul grillismo) la verità è che la vittoria del Sì al taglio del numero dei parlamentari (circa il 70 per cento) è una buona notizia in primo luogo perché permette di scongiurare un pericolo che l’Italia avrebbe corso in caso di vittoria del No: l’irriformabilità delle nostre istituzioni politiche anche per aspetti minori. In questo senso, è incoraggiante che le istituzioni italiane non siano da considerare del tutto irriformabili (una terza vittoria di fila del No a un referendum costituzionale, dopo le vittorie del No del 2006 e del 2016, avrebbe messo probabilmente una pietra sopra a ogni tentativo di riforma istituzionale). In questo senso, è incoraggiante che la maggioranza ieri abbia ricordato che il taglio del numero dei parlamentari non è un fine ma è un mezzo per rendere più efficiente il Parlamento (il Pd ha il compito ora di dare concretezza alla sua promessa di integrare questa riforma imponendo nell’agenda della maggioranza l’introduzione della sfiducia costruttiva, la valorizzazione del Parlamento in seduta comune e l’approvazione rapida di una legge proporzionale). Ma, su questa scia, è incoraggiante anche ciò che emerge con nettezza dalle elezioni regionali.

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Al referendum vince il Sì, in Puglia resiste Michele Emiliano, in Toscana si afferma Eugenio Giani, in Campania trionfa Vincenzo De Luca, in Veneto spopola Luca Zaia, in Liguria si afferma Giovanni Toti, le Marche vanno a Francesco Acquaroli, nel governo si rafforza il Pd, nell’opposizione si indebolisce il salvinismo e nell’attesa di conoscere i dettagli numerici del voto alle regionali ci sono già alcune considerazioni di fondo che si possono fare sull’esito di queste elezioni. E se si ha la pazienza di andare oltre il risultato del referendum e oltre il risultato delle regionali ci sono buone ragioni per dire che la politica degli estremismi esce indebolita da questa doppia tornata elettorale. La prima ragione ha a che fare con il referendum costituzionale. Il referendum vinto dal fronte del Sì non era un referendum sul governo (la riforma in Parlamento è stata approvata dal 97 per cento dei parlamentari) e non era neanche un referendum sul grillismo (il taglio al numero dei parlamentari lo chiedono tutti i partiti della Repubblica da circa trent’anni) e per quanto ci sia qualcuno nella maggioranza tentato dal trasformare il Sì alla riforma costituzionale in una vittoria del governo (non è così, nonostante lo sforzo generoso del gruppo Gedi e di Repubblica di trasformare questo referendum in un referendum sul grillismo) la verità è che la vittoria del Sì al taglio del numero dei parlamentari (circa il 70 per cento) è una buona notizia in primo luogo perché permette di scongiurare un pericolo che l’Italia avrebbe corso in caso di vittoria del No: l’irriformabilità delle nostre istituzioni politiche anche per aspetti minori. In questo senso, è incoraggiante che le istituzioni italiane non siano da considerare del tutto irriformabili (una terza vittoria di fila del No a un referendum costituzionale, dopo le vittorie del No del 2006 e del 2016, avrebbe messo probabilmente una pietra sopra a ogni tentativo di riforma istituzionale). In questo senso, è incoraggiante che la maggioranza ieri abbia ricordato che il taglio del numero dei parlamentari non è un fine ma è un mezzo per rendere più efficiente il Parlamento (il Pd ha il compito ora di dare concretezza alla sua promessa di integrare questa riforma imponendo nell’agenda della maggioranza l’introduzione della sfiducia costruttiva, la valorizzazione del Parlamento in seduta comune e l’approvazione rapida di una legge proporzionale). Ma, su questa scia, è incoraggiante anche ciò che emerge con nettezza dalle elezioni regionali.

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Dato numero uno: il ridimensionamento della leadership salviniana (in Veneto, la lista Zaia ha superato di gran lunga la lista della Lega, che ha preso un terzo dei voti andati a Zaia; gli unici candidati vincenti del centrodestra sono quelli che hanno un profilo distante da quello salviniano, vedi le Marche di Acquaroli, vedi la Liguria di Toti, vedi appunto il Veneto di Zaia; il candidato più vicino a Salvini, Susanna Ceccardi, ha perso, come già aveva perso qualche mese fa un’altra candidata molto vicina a Salvini, Lucia Borgonzoni in Emilia-Romagna). Dato numero due: il ridimensionamento della centralità dell’alleanza strutturale tra Pd e M5s (in Liguria Pd e M5s vanno insieme e perdono, come avevano perso già in Umbria, in Campania e in Toscana il centrosinistra è riuscito a vincere anche senza allearsi con il M5s). Dato numero tre: il ridimensionamento di ogni progetto alternativo a quello del Pd (in Puglia la lista di tutti i centristi, da Italia viva ad Azione, è intorno al tre per cento, mentre l’alleanza con il partito di Renzi, in Toscana, è stata importante, anche se forse non decisiva, per il Pd nella vittoria contro la Ceccardi). Dato numero quattro: la presenza, sullo scacchiere della politica, di un bipolarismo di fatto che vede nel Pd il perno unico dell’alleanza contro il centrodestra a trazione populista (con il M5s passato nel giro di tre anni dall’essere la prima forza del paese a essere la quarta). Dato numero cinque: il possibile ribaltamento dei ruoli tra il Partito democratico e il M5s (dato che verrà verosimilmente confermato anche alle elezioni comunali dove è altamente probabile che nessun grillino raggiunga il ballottaggio) con il conseguente riflesso positivo (si spera) sugli equilibri della maggioranza di governo.

 

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Ci sono poi molti altri spunti di riflessione che si potrebbero ricavare curiosando con un po’ di attenzione tra i risultati registrati ieri (e a proposito di schiaffetti all’antipolitica, l’affluenza molto alta, 51,75 per cento per il referendum con il 52,91 per cento per le regionali, è un’altra notizia niente male) ma per non perdersi nei dettagli e provare a mettere a fuoco la fase che ci aspetta all’indomani delle elezioni vale la pena portare avanti il livello della discussione provando ad allargare la nostra inquadratura su quella che è la vera partita che si pone oggi di fronte alla maggioranza e all’opposizione: provare a crescere. Vale per la maggioranza, che da oggi in poi avrà il dovere di dimostrare di possedere una visione sul futuro del paese diversa dall’essere solo un argine a Matteo Salvini (più Mes, meno M5s). Ma vale anche per l’opposizione, che da oggi in poi avrà il dovere di dimostrare ai suoi elettori se ha la capacità oppure no di costruire un’alternativa al governo (e anche un’alternativa al salvinismo) un po’ più efficace rispetto alla sterile politica del no. E una volta compreso che no, non era un referendum sul grillismo; e che no, non era un referendum sul populismo; e che no, non era un referendum sul governo; e che no, la democrazia non era a rischio per un taglio del numero dei parlamentari; ora, messo tutto in chiaro, si potrà tornare tutti a occuparsi un po’ meno del nulla e un po’ più di cose serie. Meno gnagnera, più Recovery, grazie.

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