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Il Pd verso le regionali

Come evitare il galleggiamento. Tutti gli altri referendum di Zingaretti

Il giorno dopo le regionali, il segretario del Pd dovrà abbandonare ogni equilibrismo

Valerio Valentini

Che fare col Mes, se il M5s minaccia di votare coi sovranisti? E il rimpasto? Il segretario del Pd davanti alla necessità di imporre l'agenda al grillismo. Anche per evitare di finire commissariato

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Roma. Quello su cui tutti concordano, nel gioco di posizionamenti che anima questa vigilia di regionali, è che così le cose non vanno. E allora, nell’incertezza di una direzione criticata, di un’identità che si fa  fumosa appena ci si allontana dall’imperativo  un po’ scontato del fermare le destre, le soluzioni prospettate finiscono col divergere radicalmente. E ciascuno si convince delle proprie ragioni. Stefano Bonaccini, ad esempio, le reazioni un po’ sdegnate che ha ascoltato dopo il suo appello all’unità  (“Renzi e Bersani? Tornino  nel Pd”) le ha accolte con l’animo sereno di chi sa che lunedì, quando le urne daranno il loro responso, sia gli schifiltosi della sinistra, sia gli oltranzisti di Italia viva, capiranno che di acqua in cui nuotare ce n’è poca, là fuori. Extra ecclesiam nulla salus, predica colui che a capo della chiesa vorrebbe porsi, con la legittimazione di chi governa l’unica parrocchia davvero in salute, e cioè quella emiliana.  Ed è per questo che ha suggerito ai suoi sostenitori la cautela: “Ho fatto solo un ragionamento di buon senso. Se altri polemizzano,  non mi interessa”. E sul fronte opposto, Goffredo Bettini sorride sornione, e a chi gli chiede se Zingaretti condivide il suo teorema di ritorno al binomio Margherita e Ds,  esibisce la calma dei saggi: Nicola ci arriverà”. 

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Roma. Quello su cui tutti concordano, nel gioco di posizionamenti che anima questa vigilia di regionali, è che così le cose non vanno. E allora, nell’incertezza di una direzione criticata, di un’identità che si fa  fumosa appena ci si allontana dall’imperativo  un po’ scontato del fermare le destre, le soluzioni prospettate finiscono col divergere radicalmente. E ciascuno si convince delle proprie ragioni. Stefano Bonaccini, ad esempio, le reazioni un po’ sdegnate che ha ascoltato dopo il suo appello all’unità  (“Renzi e Bersani? Tornino  nel Pd”) le ha accolte con l’animo sereno di chi sa che lunedì, quando le urne daranno il loro responso, sia gli schifiltosi della sinistra, sia gli oltranzisti di Italia viva, capiranno che di acqua in cui nuotare ce n’è poca, là fuori. Extra ecclesiam nulla salus, predica colui che a capo della chiesa vorrebbe porsi, con la legittimazione di chi governa l’unica parrocchia davvero in salute, e cioè quella emiliana.  Ed è per questo che ha suggerito ai suoi sostenitori la cautela: “Ho fatto solo un ragionamento di buon senso. Se altri polemizzano,  non mi interessa”. E sul fronte opposto, Goffredo Bettini sorride sornione, e a chi gli chiede se Zingaretti condivide il suo teorema di ritorno al binomio Margherita e Ds,  esibisce la calma dei saggi: Nicola ci arriverà”. 

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Nicola, in verità, sta lì nel mezzo, forse sapendo che la forza del suo saldo equilibrismo da lunedì potrebbe non bastare. Perché una strada nuova a quel punto andrebbe scelta. “L’unica certezza è che il Pd deve crescere”, dice Bruno Astorre, colonnello franceschiniano a Palazzo Madama. “E per quanto la ricetta di Bonaccini sia più ideale, quella di Bettini è più realistica, specie se si va verso il proporzionale”. Andrea Marcucci, capogruppo dem al Senato, la vede al contrario: “Sono  dalla parte di Bonaccini. Lo schema Ds-Margherita è stato una tappa di avvicinamento al traguardo del Pd. E’  lì che bisogna tornare, alla vocazione maggioritaria”.

Questioni non certo marginali. Enigmi che Zingaretti dovrà sciogliere in prima persona, rifuggendo qualsiasi ambiguità, come ha fatto per esempio sul Mes. “Anche perché il ricongiungimento sarebbe una soluzione utile per tornare a pensare in grande, e sbarrare la via che porta a ricomporre le fratture sarebbe una scelta incomprensibile”, dice Gianluca Benamati, deputato bolognese del Pd che pure per il segretario attuale s’è schierato all’ultimo congresso. E insomma  l’amletico Zingaretti, dopo le regionali, sarà chiamato a  dare risposte su alcuni temi finora messi sotto al tappeto. “Il giustizialismo  non possiamo più sopportarlo, come Pd”, dice il senatore Andrea Ferrazzi, “e anche l’anti-industrialismo farlocco è inaccettabile”. Al di là delle polemiche, il tema è chiaro: c’è spazio o no per dettare l’agenda al grillismo?

“Anche sul Mes, basta con questa querelle stucchevole: si voti in Parlamento e la si faccia finita”, conclude Ferrazzi, con l’aria di chi sa di chiedere al segretario un gesto che potrebbe preludere alla rottura clamorosa. Tant’è che, nel frattempo, il grillino Francesco Silvestri, deputato che ben conosce gli umori della sua truppa, fa la voce di chi minaccia: “Spero che nessuno voglia arrivare alla conta in Aula, perché il Parlamento ha già un suo orientamento maggioritario, sul Mes”, dice, come  minacciando il salto della barricata del M5s. Rischio che  Zingaretti comunque dovrà correre, consapevole che nulla toglie più forza a un partito che il ricorso costante ai penultimatum. E infatti il suo ingresso nel governo, nell’ambito di un rimpasto che ormai nessuno più ripudia né scongiura, nel Pd viene visto come un passaggio necessario per dare più forza all’esecutivo  – circostanza che potrebbe verificarsi anche in caso di una sconfitta non drammatica alle regionali, con un centrosinistra capace di resistere solo in Campania e in Toscana. E i confidenti più fidati di Zingaretti gli suggeriscono da tempo questa mossa, anche per evitare che all’interno del Parlamento, e pure fuori, il partito sia di fatto governato dalle correnti che fanno capo a Dario  Franceschini e ad Andrea Orlando. Sempre che alla fine non precipiti tutto, col congresso come unica conclusione delle regionali. Bonaccini, nel dubbio, il terreno se l’è già preparato.

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