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I populisti dell’antipopulismo hanno un leader: Roberto Saviano

Claudio Cerasa

Perché il benaltrismo è la nuova frontiera della politica anti casta

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Tra i molti mostri politici che si stanno affacciando sulla scena pubblica del nostro paese ce n’è uno ancora poco analizzato che ha a che fare con una configurazione del populismo meritevole di più attenzione rispetto a quella che ha oggi. La caratteristica di questo genere di populismo è che si tratta di una forma utilizzata da una categoria di osservatori che da tempo ha scelto paradossalmente di scendere in campo proprio per denunciare alcune presunte derive populiste della politica.

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Tra i molti mostri politici che si stanno affacciando sulla scena pubblica del nostro paese ce n’è uno ancora poco analizzato che ha a che fare con una configurazione del populismo meritevole di più attenzione rispetto a quella che ha oggi. La caratteristica di questo genere di populismo è che si tratta di una forma utilizzata da una categoria di osservatori che da tempo ha scelto paradossalmente di scendere in campo proprio per denunciare alcune presunte derive populiste della politica.

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Il populismo dell’antipopulismo offre ogni giorno diverse occasioni per far parlare di sé (di solito si riconosce quando si tende a definire una “casta” la politica che si vuole combattere) ma le occasioni offerte da alcuni giornali di ieri per riflettere su questo tema sono diverse, almeno due, e vale la pena mettere in fila due interventi. Il primo caso interessante è quello che riguarda lo scrittore Roberto Saviano, che in una molto impegnata e intensa intervista concessa ieri alla Stampa ha messo in evidenza l’essenza del populismo benaltrista, che consiste in una pratica ormai consolidata perfettamente sintetizzata giorni fa su questo giornale da Giorgio Tonini: c’è sempre un bene più grande e impossibile in nome del quale dire no al piccolo bene possibile. Referendum a parte – al quale Saviano voterà No per combattere contro l’attuale casta del Pd, “il mio sarà un voto contro questa classe dirigente” – lo scrittore dice che non ha mai avuto alcuna aspettativa su questa alleanza di governo, “io non sono montanelliano, non mi piace turarmi il naso”, e che era evidente da un pezzo che “da questa alleanza solo il M5s avrebbe tratto vantaggio”. 

 

Naturalmente è solo un dettaglio che Saviano dal 2013 al 2018, con lo stesso impegno e la stessa intensità di oggi, non abbia mai fatto mancare la sua firma sotto ogni appello con cui la società civile ha invitato in passato la classe dirigente del Pd ad allearsi con il M5s. Cambiare idea si può ma nel cambiare idea Saviano continua a dimostrare un tic culturale, per così dire, interessante da studiare, che coincide con lo stesso difetto che rimprovera oggi al Pd: avere un’identità solo costruita in funzione anti qualcosa. “Non se ne può più – dice Saviano – di chi non ha una posizione su nulla e giustifica la propria esistenza da 25 anni in opposizione a Berlusconi e poi a Salvini”. E non si potrebbe essere più d’accordo. Se non fosse però che ciò che Saviano rimprovera al Pd è un problema con cui dovrebbe fare i conti più la generazione di Saviano che lo stesso Pd: l’incapacità di avere un’identità culturale, si fa per dire, compatibile con l’unica cultura politica antitetica al populismo: la politica del compromesso.

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Il riformismo – e un grande scrittore come Saviano dovrebbe saperlo – è la realizzazione del bene possibile e la differenza tra chi combatte sinceramente il populismo e chi invece involontariamente lo alimenta in fondo è tutta qui – si può sostenere che la maggioranza tra Pd e M5s sia una maggioranza pericolosa, anche se chi l’ha teorizzata dovrebbe forse parlare di altro, ma non si può sostenere che la maggioranza Pd e M5s non sia nata per una causa giusta: tenere l’Italia salda al filo d’acciaio dell’Europa. Ed è una differenza che è stata sintetizzata bene ieri da un articolo magistrale pubblicato su Repubblica a firma di Michele Ainis. Ainis, a differenza di Rep., è a favore del sì al referendum costituzionale. E sul giornale diretto da Maurizio Molinari il costituzionalista ha offerto una buona lezione ai populisti dell’antipopulismo.

Sintesi estrema: vi rendete conto che la ragione per cui voterete no al referendum contiene prevalentemente argomenti populisti? Scrive Ainis: “Un’assemblea pletorica è anche meno capace, diceva Einaudi in Assemblea costituente. E l’Italia ha il Parlamento più affollato del pianeta (16 eletti ogni milione di abitanti).

Qual è dunque l’obiezione? Gira e rigira una soltanto: non darla vinta ai populisti. Ma il loro successo (il successo degli antipopulisti, ndr) durerà tre giorni”. Il populismo dell’antipopulismo può avere certamente un suo fascino. Ma forse, come scritto ieri su Twitter da Chiara Geloni a commento di un articolo di Sergio Rizzo su Repubblica molto indignato con la casta dei “riciclati” della politica (l’ultima frontiera dell’antipolitica è demonizzare gli ex politici che cercano un lavoro nel mondo della politica), usare tutto il vecchio armamentario culturale e retorico dei grillini, affidandosi al populismo benaltrista, forse non è esattamente il modo migliore per difendere il Parlamento.

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