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Preparati e globalizzati: medici e professionisti sono la nuova classe dirigente

Rassicurare senza sottovalutare, informare senza allarmare: è quello che ha fatto in un’intervista sullo stato del Covid Giuseppe Remuzzi, uno dei ricercatori italiani più famosi nel mondo. Un esempio, non isolato, da considerare anche per il post pandemia

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Giuseppe Remuzzi è forse uno dei medici più famosi d’Italia e la scorsa settimana, dialogando con il Corriere della Sera, ha rilasciato a Marco Imarisio un’intervista bellissima, al centro della quale vi era, da parte di Remuzzi, un tentativo complesso: rassicurare senza sottovalutare, informare senza allarmare, spiegare la situazione in cui si trova oggi l’Italia senza cercare a tutti i costi un modo facile per offrire un titolo al giornale. Le parole di Remuzzi sono preziose da mettere in fila per capire la fase attuale, per capire che rischi corre l’Italia, per capire cosa c’è da aspettarsi nei prossimi mesi, ma sono importanti anche per provare a mettere a fuoco un tema che questo giornale ha spesso messo al centro dei suoi ragionamenti e che riguarda una questione, legata anche alla stagione pandemica in cui ci troviamo, finora poco esaminata: esiste o no in Italia una nuova classe dirigente? Prima i dati, poi i ragionamenti.

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Giuseppe Remuzzi è forse uno dei medici più famosi d’Italia e la scorsa settimana, dialogando con il Corriere della Sera, ha rilasciato a Marco Imarisio un’intervista bellissima, al centro della quale vi era, da parte di Remuzzi, un tentativo complesso: rassicurare senza sottovalutare, informare senza allarmare, spiegare la situazione in cui si trova oggi l’Italia senza cercare a tutti i costi un modo facile per offrire un titolo al giornale. Le parole di Remuzzi sono preziose da mettere in fila per capire la fase attuale, per capire che rischi corre l’Italia, per capire cosa c’è da aspettarsi nei prossimi mesi, ma sono importanti anche per provare a mettere a fuoco un tema che questo giornale ha spesso messo al centro dei suoi ragionamenti e che riguarda una questione, legata anche alla stagione pandemica in cui ci troviamo, finora poco esaminata: esiste o no in Italia una nuova classe dirigente? Prima i dati, poi i ragionamenti.

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Remuzzi, dimostrando in modo semplice e lineare come si possa essere contemporaneamente un difensore della scienza e un nemico di ogni negazionismo, sia quello veicolato da chi sostiene che non ci sia più nessun problema, rispetto al tema della pandemia, sia quello veicolato da chi dice che i problemi sono uguali a qualche mese fa, offre al lettore alcune informazioni preziose.

  

La prima: smettiamola di tarare il nostro grado di preoccupazione rispetto al futuro osservando il numero quotidiano di nuovi contagi e iniziamo a guardare i veri dati che contano che sono quelli che riguardano le terapie intensive. Se guardiamo questi dati, spiega Remuzzi, possiamo dire che, avendo l’Italia qualcosa come 8 mila posti in terapia intensiva ed essendo i posti occupati finora circa un centinaio, “al momento utilizziamo circa l’1,5 per cento della nostra capacità di cure intensive”. E se pure i numeri delle terapie intensive dovessero arrivare a livelli simili a quelli francesi, circa 500, significherebbe, aggiunge Remuzzi, “che noi utilizzeremmo meno del 5 per cento delle nostre risorse. Ecco, non bisogna farsi prendere dall’emotività: questa non è una partita di calcio”. Terza informazione, che riguarda le scuole. Ha senso essere troppo ottimisti? No, non ha senso, dice Remuzzi, perché il rischio zero non esiste. Ma ha senso essere così pessimisti? Remuzzi, anche qui, offre elementi di riflessione interessanti: “Abbiamo il distanziamento, abbiamo le mascherine. Abbiamo comportamenti da adottare. Abbiamo professori che dovrebbero essere sensibilizzati, perché la fase di sorveglianza include anche loro. Abbiamo tutto. Non serve nient’altro. Abbiamo persino capito che la scuola all’aperto, o con le finestre aperte, si può fare. Se andrà tutto bene? Qualcosa rischiamo, qualcosa accadrà. Un po’ di scuole dovrà chiudere? Amen, fa parte della sorveglianza. Chiudiamo e riapriamo. Cerchiamo di essere seri”. Detto in altre parole: in una fase pandemica ciò che può fare un governo ha a che fare prima di tutto con il rafforzamento del sistema sanitario; tutto il resto, dalla vita sui posti di lavoro alle aule delle scuole, dipenderà più dalla responsabilità e dalla creatività delle singole persone che dalla responsabilità dello stato.

 

Si potrebbe concludere questo articolo alzandoci in piedi, avvicinando velocemente i palmi delle nostre mani e rivolgendo una standing ovation al professor Remuzzi. Ma in realtà le parole offerte dal direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri ci proiettano all’interno di una dimensione diversa che ci permette di rispondere a una domanda da cui siamo partiti all’inizio di questo articolo: esiste o no in Italia una classe dirigente?

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Foto Ansa


 

In modo un po’ pigro, si tende spesso a circoscrivere il perimetro della classe dirigente di un paese seguendo alcune vecchie coordinate culturali. E in base a quelle coordinate, alla classe dirigente grosso modo dovrebbe corrispondere quella che un tempo avremmo definito borghesia. Un tempo, la borghesia aveva quasi esclusivamente il volto dei grandi imprenditori del nostro paese. Oggi, a fianco alla vecchia borghesia ve n’è un’altra forse persino più importante, che non coincide con gli industriali o con i banchieri vecchio stile, ma coincide con il volto di una nuova borghesia: quella dei professionisti. Ovvero: avvocati, architetti, ingegneri, commercialisti e, prima di tutto, medici abituati a girare il mondo (in tempi non pandemici avremmo detto anche “abituati a contaminarsi in giro per il mondo”) e abituati a interagire più con le grandi eccellenze mondiali che con il campanilismo della politica italiana.

 

Il caso di Remuzzi – che è uno dei ricercatori italiani più famosi nel mondo – non è un caso isolato ma è uno dei tanti casi di medici del nostro paese che lavorano in Italia come all’estero e che sono maturati all’interno della feconda globalizzazione delle competenze (insieme a lui c’è anche Alberto Mantovani, uno dei 400 migliori scienziati al mondo secondo la classifica dello European Journal of Clinical Investigation, e subito dopo Mantovani ci sono casi come quelli di Antonio Colombo del San Raffaele, di Giuseppe Mancia dell’Università di Milano Bicocca, di Vincenzo Di Marzo del Cnr di Pozzuoli, e casi di italiani di successo che lavorano all’estero come Carlo Maria Croce all’Università dell’Ohio e Napoleone Ferrara all’Università della California a San Diego). E per quanto sia indubbio che negli ultimi mesi ci siano stati in Italia casi di medici e di virologi che si sono approfittati della notorietà conferita loro dalla stagione pandemica (citofonare al dottor Lopalco) è difficile negare che in questi mesi da incubo l’Italia ha avuto una piccola fortuna: la possibilità di confrontarsi con una nuova classe dirigente seria, rigorosa, colta, preparata, pensante e globalizzata che somiglia più al profilo del dottor Remuzzi che a quello del dottor Lopalco e che varrà la pena tenere da conto anche quando la pandemia finalmente sparirà.

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