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Referendum Quirinale: i rassegnati e gli ambiziosi

Carmelo Caruso

Oltre il referendum sul taglio dei parlamentari c'è la corsa sotterranea per il Colle. Chi vota "no" ha smesso di pensarci (vedi Prodi) mentre chi tace ci spera ancora. La mappa

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Un “no” perché tagliare il numero dei parlamentari “non è il nostro vero problema” o un “no” perché il Quirinale non è più la sua ambizione? Romano Prodi ha infatti annunciato che al referendum “è più utile un voto negativo” e tutti, ma davvero tutti, hanno compreso che non ingaggiava solamente una battaglia per la difesa del (vecchio) parlamento, ma rinunciava per sempre all’idea di sedersi al posto di Sergio Mattarella.

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Un “no” perché tagliare il numero dei parlamentari “non è il nostro vero problema” o un “no” perché il Quirinale non è più la sua ambizione? Romano Prodi ha infatti annunciato che al referendum “è più utile un voto negativo” e tutti, ma davvero tutti, hanno compreso che non ingaggiava solamente una battaglia per la difesa del (vecchio) parlamento, ma rinunciava per sempre all’idea di sedersi al posto di Sergio Mattarella.

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E raccontano che nel Pd, malgrado questa posizione ostile – che poi neppure di ostilità si può parlare dato che manca ancora la linea ufficiale della direzione – il “professore” sia risultato quasi simpatico perché pacificato con i suoi antichi fantasmi: “Non sarà mai più presidente della repubblica. Lo ha finalmente capito altrimenti non si sarebbe mai pronunciato”. C’è chi ha cominciato a dare a questo referendum un sapore e un contenuto tutto speciale che va oltre il dibattito sulla necessità dei correttivi e che prefigura la futura corsa al Colle perché è “chiaro che alcune reticenze nascondono segrete speranze” confida Clemente Mastella che conosce i contorcimenti del pensiero e del pensiero quirinabile.

 

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Si studiano così i silenzi, che non sarebbero altro che una sottigliezza, e si cronometra il tempo della mancata dichiarazione di Paolo Gentiloni, Walter Veltroni, Dario Franceschini, Massimo D’Alema, David Sassoli, che, assicurano i compagni di una vita, dovrebbero dire “no” se solo non pesassero il “si” che poi non significa altro che i voti necessari del M5s.

 

Enrico Letta, che di Prodi sarebbe a suo modo l’erede, sorprendendo molti, ha dichiarato che voterà a favore del taglio perché fedele al suo percorso riformista. “E lo trovo molto strano da un professore come lui. Più che una riforma mi sembra uno strano omicidio. Si vuole uccidere la rappresentanza locale. Non è certo un caso che il Pd abbia votato tre volte no” pensa Mastella che ha una sua certa idea del referendum, chiarissima, e che però, da democristiano concreto, riconosce che “i voti del M5s servono. I parlamentari di Beppe Grillo non dimenticheranno chi si è schierato insieme a loro. E’ l’unica battaglia che vinceranno”. Il senso è che chi sta uscendo allo scoperto, chi tra le figure più nobili del centro e della sinistra, sta prendendo parte, lo fa perché sa di non potere avere la parte di Mattarella.

 

Pierluigi Castagnetti, Luciano Violante, Pier Ferdinando Casini hanno provato a spiegare che con questa riforma il parlamento non funzionerà e che “non si può inseguire la demagogia” che però, e per inciso, è ancora maggioranza parlamentare e che, salvo stravolgimenti, deciderà il successore di Mattarella.

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Ed è vero che manca troppo tempo alla fine del settennato, avvisa Bruno Tabacci, ma è anche vero che “ognuno fa il gioco suo” avvisa Gianfranco Rotondi che del grande gioco se ne intende e che conferma come su questo referendum ci sono “tatticismi a sfondo quirinalizio”. Calogero Mannino, ad esempio, riconosce che “ogni guadagno ha la propria causa” ma che sul M5s non “si dovrebbe mai fare affidamento”. Anche lui è un altro che difende il vecchio ordine e confessa che quando sente Luigi Di Maio dire che Nilde Iotti “la pensava come noi” prova un tuffo al cuore. E’ convinto che chi tace per paura commette un errore anche perché “dopo Mattarella c’è solo Mattarella, unico che potrà garantire tutti quando esploderanno le contraddizioni”.

 

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E però, Mastella, che conosce lo stile di Mattarella, non è tanto sicuro che accetterà il bis: “E’ legato all’idea che un presidente debba rimanere sette anni. Scegliere il suo successore sarà una specie di giudizio di Dio, un si salvi chi può”. Ecco allora che questo referendum, dall’esito scontato, si carica improvvisamente di significato e diventa una prova generale che per Rotondi potrebbe non solo riguardare il Quirinale. “Pensate cosa accadrebbe se Salvini, con una mossa del cavallo, simile a quella di Renzi, si schierasse per il “no”. Può ribaltare le sorti del referendum e scatenare una crisi di governo. Anche io, che non sono salviniano, indosserei la sua felpa. E invece sapete perché questo governo rimane in carica? Perché se si andasse al voto la Lega perderebbe un quinto dei suoi seggi. Salvini è la più grande assicurazione di Conte. Votare ‘si’ serve al grande mantenimento” garantisce Rotondi che ha fatto i calcoli.

 

E dunque, pure per Mastella, alla fine, per il dopo Mattarella non rimarrà che “sceglierà tra lui e Mario Draghi, il che significa che nessun altro ha speranza”. Il referendum ci sta quindi consegnando una nuova categoria. Sono i rassegnati. I quasi presidenti, i mancati per un soffio, quelli che dicono ‘no’ ma perché non ha più senso di dire ‘sì’ e che infatti sorridono pensando a chi è costretto a tacere. Non saliranno al Quirinale, ma di buono c’è che avranno fatto i conti con i loro spettri.

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