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Il manifesto

O è riformista o non è. Il Pd del futuro secondo Guerini

Lorenzo Guerini

Riscoprire la vocazione maggioritaria, anche col proporzionale. Abbandonare i sussidi e rappresentare le istanze di chi fa impresa. E col M5s ci dividono differenze radicali e genetiche. La versione del ministro della Difesa

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Roma. Caro direttore, grazie innanzitutto per questo importante spazio di confronto. Nel dibattito politico troppo spesso, e purtroppo, a momenti di sano approfondimento si preferisce una più rapida quanto sterile ed effimera ricerca di consenso fondata sulla polemica il più delle volte strumentale e con linguaggio al limite della violenza. Ritengo invece doveroso in questa fase fermarci e aprire con coraggio un dibattito su che politica vogliamo lasciare in eredità ai nostri figli. Lo sta facendo questo giornale ospitando stimolanti contributi.

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Roma. Caro direttore, grazie innanzitutto per questo importante spazio di confronto. Nel dibattito politico troppo spesso, e purtroppo, a momenti di sano approfondimento si preferisce una più rapida quanto sterile ed effimera ricerca di consenso fondata sulla polemica il più delle volte strumentale e con linguaggio al limite della violenza. Ritengo invece doveroso in questa fase fermarci e aprire con coraggio un dibattito su che politica vogliamo lasciare in eredità ai nostri figli. Lo sta facendo questo giornale ospitando stimolanti contributi.

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Come è giusto che sia, qui di seguito mi soffermerò in particolare sul nostro partito, il Pd, e sul suo contributo al governo di cui è parte. Non per inseguire intenti divisivi ma, al contrario, per riaffermare il valore per l’intera democrazia italiana di un partito che s’interroga, anche pubblicamente, sul suo ruolo e sulla sua funzione all’interno di una società che nel frattempo muta con grande velocità e chiede risposte inedite e coraggiose. D’altra parte se, come ci indica ancora oggi la lezione di Bobbio, la democrazia può essere definita come governo del potere pubblico in pubblico, il Pd non può che continuare a confrontarsi con se stesso e con il contesto sociale e territoriale in cui opera per riformare, innovare e ammodernare la nostra democrazia. E solo così, rifuggendo da tentazioni conservatrici, preservarla e proteggerla da chi la vorrebbe minare.

 

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Nel gennaio 1919 Max Weber tenne una celebre conferenza dal titolo “Politik als Beruf”, tradotta in italiano in “La politica come professione”. Per Weber, “tre qualità possono dirsi sommamente decisive per l’uomo politico: passione, senso di responsabilità, lungimiranza”

 

Ecco, lo dico senza infingimenti, il Partito democratico deve ripartire da queste tre specifiche caratteristiche. Spero dunque di non tradire Weber se, prendendo spunto da quest’affermazione, tento di estenderne il significato in un senso più ampio sia dal punto di vista del soggetto sia da quello dell’oggetto. Passione è e deve essere approfondita come una categoria del “politico”, inteso qui in senso ben più ampio del singolo attore, perché innerva e muove l’agire politico con grande forza. (Per inciso ricordo un interessante ciclo di seminari animati tempo fa da Gianni Cuperlo sul tema che potrebbe essere utile riprendere). Oggi anzi sembra che le passioni – che possono essere positive ma anche negative, secondo l’ammonimento di Spinoza – siano l’unico motore, peraltro volubile, che identifica il dibattito pubblico. Tuttavia, aver passione per qualcosa significa prima di tutto prendersene cura, occuparsene, com-patire.

 

Ecco, il Pd non può che percorrere questa strada, perché fa parte della sua identità originaria e profonda. Tuttavia lo può e lo deve fare prendendo sul serio le passioni che attraversano la politica oggi, non limitandosi a registrarle ma preoccupandosene. Un esempio per tutti, anche e a maggior ragione in questo periodo segnato dalla pandemia e dalla sue conseguenze: la paura. C’è chi la solletica e la fomenta senza alcuna intenzione di fornire soluzioni, perché risolvere le cause della paura significherebbe in taluni casi minare parte dei propri bacini elettorali. Ci deve essere invece chi non la nega ma la assume come un dato del “sentimento sociale” e propone una via di uscita seria, praticabile e per questo efficace. Un approccio riformista che legge la realtà, se ne cura e formula proposte che per ciò stesso possono essere condivise. Il rischio altrimenti, che a volte dobbiamo ammettere di essere tentati di correre, è lasciarsi andare a una supponenza metodologica figlia di un malinteso senso di superiorità che può obnubilare lo sguardo e che alla fine penalizza chi lo pratica. Perché la realtà prima o poi arriva. E se non hai saputo interpretarla, ti travolge. Qui la qualità weberiana della lungimiranza, come si capisce, non ha bisogno di essere commentata. Passione e lungimiranza dalle quali, se praticate seriamente discende inevitabilmente il senso di responsabilità.

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Sull’interpretazione dell’idea di responsabilità dentro il Pd e nell’opinione pubblica informata si potrebbero scrivere volumi enciclopedici. A parte le battute il senso di responsabilità sta nella stessa ragione di essere del Pd, fin dalla sua nascita come soggetto politico nuovo. Aver contribuito a far partire l’attuale esperienza di governo che cosa è stato se non essere fedeli a questo? Occorre, però, intendersi bene: avere senso di responsabilità non può che significare che il Pd deve essere il soggetto perno di un progetto costantemente riformatore per l’Italia. Un soggetto sempre insoddisfatto perché convintamente orientato ad aprire e percorrere tutte le strade possibili per uno sviluppo equilibrato e avanzato ‘con’ e ‘per’ il Paese. Detto in altri termini, praticare il senso di responsabilità, anche con un atteggiamento di lealtà e coerenza, non può tuttavia significare scegliere la subalternità. Al contrario, può e deve significare spostare sempre in avanti l’ambizione dei traguardi da raggiungere, sollecitando i nostri interlocutori a partire dalla nostra visione riformista che per questo è in grado di produrre politiche efficaci nel tempo, ben oltre la ricerca di un immediato quanto aleatorio riscontro di popolarità.

 

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Dove eravamo rimasti?

Ecco perché il Pd è riformista o non è. Su questo punto politico, a mio avviso, non possono esserci dubbi o cedimenti di sorta. “Il Partito democratico – era scritto nel Manifesto dei valori del Pd approvato nel 2008 – si presenta agli italiani come un partito aperto, nel quale confluiscono e trovano espressione le grandi tradizioni riformatrici e popolari della storia italiana”. E poi ancora: “Nel Partito democratico confluiscono grandi tradizioni, consapevoli però della loro inadeguatezza, da sole, a costituire questo riferimento. La risposta non è mettere insieme i resti di storie passate, ma elaborare una visione condivisa e propositiva del mondo, costruendo su questa base il progetto di una nuova Italia. L’identità innovativa del Partito democratico è definita dal ruolo che esso intende assumere: quello di guidare la nazione in questo passaggio cruciale”.

 

A distanza di dodici anni da quel Manifesto il nostro paese si trova ad attraversare un altro passaggio cruciale, stavolta dovuto agli effetti sociali, economici e politici derivanti dalla pandemia per il Covid-19. Una crisi nazionale, europea e mondiale mai affrontata prima. Occorre avere la consapevolezza di fare scelte difficili ma necessarie, e il coraggio di guidare la ripartenza. L’Italia ha bisogno, mai come oggi, di un Partito democratico forte per uscire dalla crisi e affrontare le sfide del futuro. Ecco perché il ruolo del Pd in questo contesto diventa sempre più centrale e determinante nello scenario politico. Tuttavia, per realizzare tutto questo, il nostro partito non può che ripartire da dove eravamo rimasti: dobbiamo riappropriarci della centralità del più grande partito di centrosinistra.

 

Un Pd come grande forza nazionale, con la propria identità e la propria progettualità politica. In altre parole, riappropriarsi della sua vocazione maggioritaria, senza conferire ad essa un significato di rifiuto aprioristico delle alleanze e una connotazione isolazionistica. Un Pd, beninteso, non tentato da confuse e artificiose operazioni di maggioranze posticce, magari studiate a tavolino. Che registra con favore la volontà di chi sta condividendo oggi l’esperienza di governo di aprirsi a possibili alleanze ma che insieme deve indicare chiaramente su cosa e come esse vanno eventualmente costruite. Torna qui la differenza tra senso di responsabilità e rischio di subalternità. E’ un punto al centro dell’attuale dibattito politico e per questo vorrei essere chiaro: le alleanze, sempre, si definiscono e si costruiscono necessariamente su punti programmatici chiari e a partire dalle proprie priorità. Detto in altri termini, dalla propria cultura politica di fondo che non può e non deve essere compromessa.

 

Ciò detto, registro la decisione del M5s di aprirsi al tema del confronto con le altre forze politiche, a partire dal Pd. E valuto positivamente l’abbandono di una prospettiva di delegittimazione di chi è diverso da loro, aprendosi invece al dialogo. Bene. Ci confronteremo con questa novità nei prossimi mesi. Senza avere però la pretesa di annullare o azzerare quelle profonde e radicali differenze politico-culturali che esistono tra noi e i Cinque stelle, che rimangono tutte e che danno un carattere tattico alla nostra alleanza, molto distante da quella rappresentazione di un’alleanza prospetticamente stabile perché genetica e culturale. Differenze radicali che negli scorsi anni hanno portato ad aspre polemiche reciproche.

 

Vocazione maggioritaria e sistema elettorale

Proprio perché il Pd vive solo come grande tenda riformista e popolare, la sua ambizione non può che essere quella di rappresentare tutti i riformisti italiani. La vocazione maggioritaria è quindi iscritta nel nostro dna e nella nostra funzione nazionale. E qualunque tentazione di appaltare all’esterno la rappresentanza dei temi riformisti, liberali e popolari non può che tradursi in un impoverimento della nostra forza e della nostra capacità di incidere sul governo della nazione. Così come teorizzare la “divisione dei compiti” (dove il Pd rappresenterebbe una fascia di elettorato e gli alleati un’altra), non può essere una soluzione capace di produrre effetti positivi, né tatticamente né tantomeno strategicamente. Non è qui il caso di approfondire le profonde trasformazioni che hanno attraversato, e ancora attraversano, la società italiana. Mi limito per necessaria brevità a registrare un dato di fatto, senza valutazioni politiche, che esemplifica il tutto: non sfugge a nessuno come la propensione dei cittadini a cambiare il proprio orientamento di voto, in termini definitivamente post ideologici, sia aumentato in modo esponenziale negli ultimi anni. Anche il Pd ci è passato. Chi era al 40 per cento si è ritrovato dimezzato. E chi poi alle elezioni ha vinto si è visto superare a destra dal proprio alleato di governo, invertendo le posizioni. Nel frattempo chi su quell’onda evocava i pieni poteri per sé vede, per ora nei sondaggi, erodere il proprio consenso.

 

Che cosa significa? Credo che sia una sfida anche per il Pd, e una ragione in più per elaborare ulteriormente la nostra vocazione di essere elemento essenziale di un progetto nazionale e, appunto, popolare. Un progetto interclassista, si sarebbe detto un tempo, capace di intercettare le speranze, le ansie, a volte anche le paure, dei cittadini evitando di settorializzare le proprie responsabilità, concentrandosi invece sulle politiche figlie di una lettura approfondita di ciò che sta accadendo. Ma la vocazione maggioritaria si traduce solo e soltanto in un sistema elettorale d’impianto maggioritario? Io credo di no. E credo ci siano le condizioni in Parlamento per lavorare invece a un sistema di voto di impianto proporzionale ma di reale effetto maggioritario lavorando su soglie di accesso significative. Nelle prossime settimane riprenderà il lavoro sulla legge elettorale e molti di questi interrogativi avranno delle risposte. A me interessa che la già richiamata vocazione maggioritaria del Pd resti una preminenza politica del nostro partito, qualunque sia la legge elettorale con la quale gli italiani andranno al voto quando sarà il momento. Che resti la nostra ambizione. Che resti la nostra direzione di lavoro anche nel tempo contingente che viviamo e con le responsabilità che oggi abbiamo.

 

Un Pd riformatore per chi e per cosa?

Detto di una forte riscoperta del suo ruolo e della sua funzione per il governo del presente, anche in un contesto nuovo, cosa significa una chiara impostazione riformatrice del Pd applicata alle politiche concrete? Non torno qui su alcune proposte, ospitate anche di recente su questo quotidiano, e che mi trovano complessivamente d’accordo. Mi preme sottolineare solo che se il Pd intende praticare e svolgere una sua leadership anche programmatica e di governo ha davanti a sé una sfida molto seria: tenere insieme una visione e una impostazione politica nazionale con una oggettiva differenziazione territoriale e sociale. Tradotto: questione settentrionale e questione meridionale tornano entrambe a essere temi al centro di un’agenda di governo (se mai avevano smesso di esserlo). La differenza che credo si debba affermare è che trattarle separatamente può portare anche a un guadagno elettorale (esemplificando ricordiamo in tempi passati il Polo delle libertà e quello del Buon governo, così come in tempi più recenti, dal punto di vista delle politiche, quota 100 e flat tax versus reddito di cittadinanza) ma non porta con sé un sviluppo nazionale equilibrato e sostenibile. Lo dico da uomo del nord che sa bene cosa significhi quella parte del paese, non solo dal punto di vista economico, e come sia improponibile anche la sola idea di abbandonarla a se stessa.

 

Così come è ormai urgente uscire da una lettura stereotipata delle diseguaglianze sociali. Queste sono sì in aumento, ma quel che deve preoccupare di più è che vanno ad intaccare quella che è (o era?) la classe media. Anche qui per essere chiari, sto pensando ad esempio al piccolo e medio imprenditore, all’artigiano, al commerciante, a chi condivide in tutto e per tutto il suo lavoro con i propri dipendenti e insieme sopporta il rischio d’impresa. Spesso e forse troppo a lungo anche il nostro partito non ha saputo rappresentare le loro istanze in modo adeguato. E’ maturo il tempo per rafforzare quel percorso che, accanto alla giustissima tutela dei lavoratori, porti alla consapevolezza che gli stessi lavoratori si difendono con maggior efficacia se, insieme, si ascolta e si sostiene chi fa impresa e i posti di lavoro li crea.

 

La persistente crisi, dalla quale stavamo provando a uscire e sulla quale si è innestata la pandemia aggravandone le potenziali conseguenze, ci lascia in eredità una situazione emergenziale che rischia di impoverire in modo sostanziale il nostro settore produttivo e la quantità e la qualità dei posti di lavoro. Tuttavia, se crisi, etimologicamente, richiama scelta e decisione, forse è questo il tempo opportuno per imprimere una svolta decisiva al paese. Credo per questo che, per elaborare misure efficaci, queste vadano inserite in un disegno strutturale e strategico. Sia sul versante delle scelte economiche e sociali di fondo, sia riprendendo in mano il tema istituzionale.

 

Anche qui, per tentare di essere chiari: non c’è dubbio che in emergenza occorra sostenere i redditi, anche attraverso sussidi, ma è bene dirsi che queste misure non producono effetti positivi nel lungo periodo. Per salvare il nostro sistema produttivo, che al netto della crisi aveva già le sue fragilità, occorre mettere in campo misure che puntino a liberare le grandi risorse di cui il paese è dotato ma che si trovano imbrigliate, magari in modi diversi, sia al nord sia nel mezzogiorno. Sto pensando ovviamente a un fisco incentivante, giusto e tra i fattori di sviluppo e di creazione di posti di lavoro. Ad una pubblica amministrazione che non sia di ostacolo e in continua modernizzazione, anche attraverso un ringiovanimento della propria struttura. Ad uno stato regolatore che faccia degli investimenti pubblici un punto centrale per agevolare quelli privati per produrre lavoro.

 

Soprattutto penso a una riforma del welfare che affronti la diseguaglianza crescente non limitandosi a intervenire nel breve, cosa comunque necessaria, ma finalizzata a sostenere la crescita individuale e collettiva attraverso forme flessibili di intervento pur mantenendo lo spirito universalistico. Vasto programma direbbe qualcuno, ma inevitabile mi vien da dire.

 

Accanto a questo, va ripreso il tema dell’autonomia dei territori, in quanto elemento che può essere, se ben governato, un tassello per una uscita efficace dalla crisi. Evitando un modo scomposto di affrontarlo, un fai da te che non giova a nessuno, nella consapevolezza che solo un approccio condiviso, solidaristico e unitario è garanzia per tutti i territori di un percorso produttivo di risultati duraturi.

 

Finale con proposta

Adottare un approccio autenticamente riformatore vuol dire, alla fine, rifuggire le scorciatoie, affrontare con consapevolezza la complessità della realtà e contemporaneamente essere consci che la sfida è attuale e decisiva. Il nostro partito è chiamato per statuto a esercitare questa funzione. Consapevole di non avere tutte le risposte pronte ed elaborate in modo solitario. Oggi il paese ha un’occasione forse irripetibile grazie a risorse mai così corpose messe a disposizione grazie ad un lavoro in Europa che ha visto il Pd protagonista (a proposito di quale sia il rapporto strategico che l’Italia deve mantenere con la Ue). Il governo e le forze politiche che lo sostengono sono chiamati a non buttare l’occasione di una riforma profonda e incisiva dell’Italia. Tutta la classe dirigente italiana è chiamata a questo. Credo che il Pd possa farsi parte attiva perché tutto il paese, nelle sue diverse articolazioni, politiche, economiche, sindacali, associative, possa partecipare all’elaborazione di questo progetto per una nuova Italia. Un nuovo patto sociale per i prossimi decenni, in cui ciascuno metta in campo la sua passione, la sua lungimiranza e il suo senso di responsabilità. Questo è il momento che ci è dato da vivere e il Pd lo deve affrontare con la responsabilità sociale della ragione e il coraggio politico del riformismo.

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