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C’è un vaccino per il virus del sospetto

Claudio Cerasa

Il Covid ha spazzato via la fuffa demagogica che per una lunga stagione ha messo alla gogna il mondo della farmaceutica, un settore che oggi invece l’Italia può vantare come un modello agli occhi del mondo. Una speranza anche per la ripresa

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C’è stato un tempo non troppo lontano in cui la politica della demagogia non perdeva occasione per diffondere sui propri canali di comunicazione messaggi demolitori e intimidatori contro le famose e famigerate case farmaceutiche, accusate anche in tempi recenti di qualsiasi nefandezza: di essere delle oscene lobby assetate di potere, di essere delle piovre attaccate alle casseforti della politica, di essere pericolosi veicoli di vaccini mortali, di essere dei furfanti specializzati solo nel pagare i media per far chiudere la bocca agli eroici campioni della dottrina No vax. C’è stata una stagione, non troppo lontana nel tempo, in cui il mondo della farmaceutica, in Italia, si è trovato costretto ad affrontare quotidianamente una sorta di processo davighiano, in base al quale ogni tassello facente parte del mosaico della farmaceutica non poteva che essere considerato come colpevole fino a prova contraria di ogni genere di oscenità. Quella stagione, complice l’arrivo della pandemia, è una stagione ormai archiviata e se c’è una lezione che gli italiani, e non solo loro, hanno imparato dalla convivenza con il Covid è che il mondo della farmaceutica più che essere osservato con le lenti della cultura del sospetto merita di essere osservato con le lenti della cultura della speranza. E il ragionamento vale la pena di essere approfondito per almeno due motivi.

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C’è stato un tempo non troppo lontano in cui la politica della demagogia non perdeva occasione per diffondere sui propri canali di comunicazione messaggi demolitori e intimidatori contro le famose e famigerate case farmaceutiche, accusate anche in tempi recenti di qualsiasi nefandezza: di essere delle oscene lobby assetate di potere, di essere delle piovre attaccate alle casseforti della politica, di essere pericolosi veicoli di vaccini mortali, di essere dei furfanti specializzati solo nel pagare i media per far chiudere la bocca agli eroici campioni della dottrina No vax. C’è stata una stagione, non troppo lontana nel tempo, in cui il mondo della farmaceutica, in Italia, si è trovato costretto ad affrontare quotidianamente una sorta di processo davighiano, in base al quale ogni tassello facente parte del mosaico della farmaceutica non poteva che essere considerato come colpevole fino a prova contraria di ogni genere di oscenità. Quella stagione, complice l’arrivo della pandemia, è una stagione ormai archiviata e se c’è una lezione che gli italiani, e non solo loro, hanno imparato dalla convivenza con il Covid è che il mondo della farmaceutica più che essere osservato con le lenti della cultura del sospetto merita di essere osservato con le lenti della cultura della speranza. E il ragionamento vale la pena di essere approfondito per almeno due motivi.

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Il primo ha a che fare con la progressiva consapevolezza dell’importanza della farmaceutica italiana, che in questi mesi ha mostrato al mondo quanto il nostro paese possa essere considerato un modello non solo per quanto riguarda l’eccellenza del suo sistema sanitario ma anche per quanto riguarda l’eccellenza della sua ricerca farmaceutica. E anche gli osservatori più distratti si saranno accorti in questi mesi sia del contributo dato dalla farmaceutica al contenimento della pandemia (in questi mesi, il volume delle donazioni in farmaci a favore degli ospedali impegnati nella lotta contro il Covid è stato pari a 12 milioni di euro, ai quali ne vanno aggiunti altri 29 milioni che corrispondono al valore di donazioni e beni offerti da oltre 50 aziende della farmaceutica italiana) sia della centralità dell’Italia nella corsa al vaccino contro il Covid. Qualche esempio può essere utile per orientarsi. Tanto per cominciare, il vettore virale di uno dei vaccini più promettenti – che l’Italia ha già ordinato in dosi massicce insieme con Germania, Francia e Olanda – è stato realizzato a Pomezia, nel Lazio, per poi essere progettato a Oxford, in Inghilterra, sotto la supervisione di AstraZeneca, e quando verrà ultimata la produzione il vaccino verrà infialato vicino a Roma, ad Anagni, dove verrà infialato anche un altro vaccino, che è quello che stanno producendo Sanofi e GlaxoSmithKline, in accordo con il governo inglese. E anche il vaccino a cui sta lavorando Johnson & Johnson – tra i cui finanziatori, stando a quanto riportato da Forbes, ci sarebbe anche il governo statunitense, con mezzo miliardo di dollari per la ricerca – sarà completato nell’azienda farmaceutica Catalent di Anagni, in provincia di Frosinone. Una delle prime sperimentazioni mondiali del vaccino verrà poi effettuata a partire dalla fine di agosto sempre in Italia, tra lo Spallanzani di Roma e il Policlinico G. B. Rossi di Verona, dove il vaccino verrà testato su alcuni volontari. Sempre in Italia, allo Spallanzani di Roma, qualche giorno fa un team di ricercatori ha annunciato di aver individuato tre anticorpi “estremamente potenti” contro il virus e uno di questi potrebbe diventare presto un farmaco per combattere Sars-CoV-2, e negli stessi giorni il chief scientist di Gsk Vaccines ha annunciato che i laboratori senesi di Toscana Life Sciences sono a un passo dal presentare un progetto per offrire alla popolazione iniezioni a base di anticorpi monoclonali (e tutte queste storie dimostrano che i successi della farmaceutica italiana sono spesso dovuti anche a esperienze di successo che maturano nell’ambito della collaborazione tra imprese private ed eccellenza della ricerca pubblica). In tutto, secondo i dati offerti dal presidente di Farmindustria Massimo Scaccabarozzi, sono fino a oggi 18 le aziende biofarmaceutiche che hanno avviato attività di studi clinici in Italia per il trattamento della polmonite da Covid-19 o che partecipano a progetti specifici di ricerca contro questa patologia, “anche con un ruolo guida e con l’aggiudicazione di fondi del programma europeo Horizon 2020”.

 

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La seconda ragione riguarda invece il grande potenziale che rappresenta l’industria farmaceutica per il futuro del paese e ha ragione su questo punto il ministro Roberto Speranza quando dice che se i soldi del Mes dovessero arrivare (36 miliardi, ma purtroppo non se ne parlerà prima delle regionali) varrebbe la pena indirizzarli anche per sostenere un settore cruciale per il nostro paese: “Investimenti per rendere il nostro paese più attraente nell’ottica di diventare un grande hub degli investimenti della farmaceutica”. A oggi, dati del 2019, la produzione farmaceutica in Italia, grazie in particolare all’export che rappresenta l’85 per cento del fatturato totale, ha raggiunto i 34 miliardi di euro con una crescita che negli ultimi anni è stata superiore a quella di molti altri paesi europei (negli ultimi 10 anni +168 per cento rispetto a +86 per cento della media Ue) come confermato anche da un recente studio della Banca d’Italia, che ha ricordato che l’Italia nell’Unione europea è leader nella produzione farmaceutica insieme con la Germania (l’Italia è prima tra i grandi paesi europei per presenza di imprese a capitale statunitense e tedesco, seconda per quella delle imprese francesi, svizzere e giapponesi, ed è prima in Europa per presenza di Pmi farmaceutiche). E ancora: negli ultimi cinque anni, secondo i dati Istat, la farmaceutica è il settore che ha aumentato più di tutti l’occupazione nel paese: +10 per cento rispetto al +5 per cento della media nazionale, e nel primo semestre del 2020 è stato il settore con la più alta crescita dell’export (+11 per cento rispetto a una media di -15 per cento). Il ministro Speranza ha ragione a dire che l’Italia deve essere orgogliosa, oltre che del suo sistema sanitario, anche del suo sistema farmaceutico. Ed è interessante notare che Speranza lo dica da ministro di un governo la cui maggioranza è espressione di uno dei populismi più beceri che esistano in Italia. Ma immaginare di scommettere su questo settore limitandosi ad aspettare dal cielo i soldi del Fondo salva stati è un approccio minimale e remissivo se non si sceglie di sradicare dalle leggi italiane ciò che resta della cultura anti industriale applicata alle aziende farmaceutiche italiane. E la questione è semplice. Occorre rendere l’Italia un paese più ospitale, più attrattivo, e per farlo occorre forse rivedere alcune delle norme che rendono l’Italia un paese un po’ meno attrattivo rispetto a quello che potrebbe essere. Per farlo, un modo giusto potrebbe essere quello di ragionare sull’eliminazione di un obbrobrio giuridico chiamato payback. Cos’è il payback? Il payback è una misura introdotta nel 2008 (modificata poi nel 2013 dal governo Monti) per arginare l’aumento della spesa pubblica farmaceutica. Funziona così: il 50 per cento dello scostamento al di sopra del tetto stabilito per la componente di spesa farmaceutica per acquisti diretti deve essere restituito dalle aziende farmaceutiche produttrici (significa che il tetto alla spesa farmaceutica in Italia oggi ammonta a circa 16,6 miliardi di euro e che ogni euro in più speso dallo stato 50 centesimi devono essere restituiti dalle singole aziende farmaceutiche, tetto che però spesso viene superato anche attraverso gli acquisti di farmaci che avvengono con gli ospedali e di fatto alle aziende farmaceutiche spesso viene imputato uno sfondamento del tetto che non dipende da loro). Come ha giustamente notato un paper dell’Istituto Bruno Leoni pubblicato lo scorso anno su questo tema, il payback è un problema per il tessuto industriale italiano perché “produce effetti distorsivi e limitativi della capacità delle imprese che fanno ricerca e innovazione, dal momento che è foriero, oltre che di costi aggiuntivi, di una forte imprevedibilità”. E in questo senso, suggerisce ancora il Bruno Leoni, rivedere il sistema di finanziamento nel suo complesso sembrerebbe l’alternativa più sicura sia per le aziende farmaceutiche che vogliono continuare a produrre e investire in Italia sia per i pazienti che beneficiano dei loro prodotti. L’Italia può trasformare la farmaceutica in un volàno per la ripresa oltre che in un punto d’orgoglio del paese. Sarebbe forse l’ora di sostituire le lenti della cultura del sospetto con le lenti della cultura della speranza.

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