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Il balletto delle dimissioni

Spadafora lascia, anzi no. Regolamento di conti tra grillini. E Di Maio ride

Valerio Valentini

Conte artificiere a Palazzo Chigi. Le tensioni tra il ministro dello Sport m5s e i parlamentari m5s, che sconfessano la sua riforma, nascondono trame e nuovi equilibri

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Roma. Se ci si deve fidare dei pettegolezzi che filtrano da Palazzo Chigi, allora viene da pensare che gli eventi vanno prendendo una piega grottesca e un poco misera. Perché quelle che a inizio mattinata vengono descritte, con toni perentori, “dimissioni”, dopo pranzo diventano “minacce vaghe”, scadono a “rimostranze”: insomma, “disponibilità a rimettere le deleghe”. Al che si capisce che la situazione potrebbe pure diventare grave, ma di certo non sarà seria. Vincenzo Spadafora, cioè, sarebbe ora intenzionato a rimettere le competenze istituzionali sullo sport, ma comunque restando ministro delle Politiche giovanili. Roba forte, insomma: roba da cuori impavidi. E diventa chiaro, allora, che la sostanza politica dello scontro in atto non sta tanto nel testo della riforma, che pure è stato oggetto di scandalo nei giorni passati, ma negli equilibri periclitanti all’interno del governo. Come che sia, no: la crisi a metà agosto, per gli accessi d’ira di qualche deputato del M5s e per gli e gli eccessi di zelo di qualche funzionario ministeriale, non ci sarà. Quello che emerge, invece, è la voglia di Spadafora, fedelissimo di Luigi Di Maio ma vissuto da sempre come un corpo estraneo dall’ortodossia grillina, di ottenere una copertura politica. Da Giuseppe Conte nell’immediato, e dalle gerarchie burocratiche romane in futuro.

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Roma. Se ci si deve fidare dei pettegolezzi che filtrano da Palazzo Chigi, allora viene da pensare che gli eventi vanno prendendo una piega grottesca e un poco misera. Perché quelle che a inizio mattinata vengono descritte, con toni perentori, “dimissioni”, dopo pranzo diventano “minacce vaghe”, scadono a “rimostranze”: insomma, “disponibilità a rimettere le deleghe”. Al che si capisce che la situazione potrebbe pure diventare grave, ma di certo non sarà seria. Vincenzo Spadafora, cioè, sarebbe ora intenzionato a rimettere le competenze istituzionali sullo sport, ma comunque restando ministro delle Politiche giovanili. Roba forte, insomma: roba da cuori impavidi. E diventa chiaro, allora, che la sostanza politica dello scontro in atto non sta tanto nel testo della riforma, che pure è stato oggetto di scandalo nei giorni passati, ma negli equilibri periclitanti all’interno del governo. Come che sia, no: la crisi a metà agosto, per gli accessi d’ira di qualche deputato del M5s e per gli e gli eccessi di zelo di qualche funzionario ministeriale, non ci sarà. Quello che emerge, invece, è la voglia di Spadafora, fedelissimo di Luigi Di Maio ma vissuto da sempre come un corpo estraneo dall’ortodossia grillina, di ottenere una copertura politica. Da Giuseppe Conte nell’immediato, e dalle gerarchie burocratiche romane in futuro.

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“Di certo noi non abbiamo mai chiesto le dimissioni di Spadafora”, ci dice Felice Mariani, deputato grillino e già bronzo olimpionico di judo nel 1976, che s’è ritrovato protagonista involontario di una sedizione che non sapeva di animare. “Noi ci siamo limitati a chiedere un rinvio del vertice di maggioranza sulla riforma dello sport, perché c’erano ancora dei punti da chiarire”, insiste Mariani. E con “noi”, il deputato intende una pattuglia assai sparuta: ne fanno parte Nicola Provenza, Manuel Tuzi e Simone Valente. Un po’ poco, suvvia, per spingere un ministro alle dimissioni. Poi, certo, ci sta che i toni usati da alcuni grillini siano stati più acidi, di come vuole raccontarli Mariani, almeno a giudicare dalle parole di Emanuele Dessì, senatore del M5s e pure lui tra i malpancisti: “Era meglio la riforma di Giancarlo Giorgetti”, ha detto, in riferimento al testo originario del provvedimento, elaborato appunto dall’ex sottosegretario leghista a Palazzo Chigi, che nel Conte I aveva la delega allo Sport. E del resto, qualche colpo basso deve essere pure arrivato, nelle scorse settimane, a Spadafora, se la bozza che lui aveva fatto circolare per condividerla col gruppo del M5s era poi stata inoltrata alle redazioni dei giornali. E nella bozza, su cui un funzionario del ministero aveva annotato le obiezioni del Pd e di Iv, a un certo punto compare anche una “osservazione di Malagò”, su un comma che riguarda, manco a dirlo, l’incompatibilità della carica di presidente nelle federazioni sportive con gli incarichi politici e dirigenziali nelle pubbliche amministrazioni. E insomma apriti cielo: “Questa è la prova che Spadafora è amico di Malagò, cioè di quei poteri marci che noi volevamo distruggere”, si sono infuriati i militanti grillini di Roma. E a quel punto, pare, Spadafora s’è trovato visto isolato per l’ennesima volta, e il polverone lo ha sollevato lui: “Se non c’è fiducia nel mio operato, rimetto le mie deleghe”. Conte, informato, ha preso tempo, ha deciso che è meglio far sbollire gli animi. Si vedrà.

 

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Per Spadafora, del resto, questo non è che l’apice di un’escalation di tensioni che dura almeno da maggio 2018: quando, cioè, si discutevano le caselle del governo gialloverde, e nel momento decisivo si vide impallinato sul Fatto come “amico di Balducci e della cricca”, impantanato in vecchie storie, vecchie intercettazioni che lo rendevano così poco compatibile con l’archetipo del grillino immacolato. Una soffiata che molti esponenti del M5s, e Spadafora tra questi, hanno sempre attribuito ad Alessandro Di Battista, che di quello sgomitante amico di Di Maio, ben avvezzo ai miasmi della politica romana, cresciuto nella Margherita di Rutelli e poi diventato grand commis del rampollo grillino, non s’è mai fidato granché. E pur di attaccarlo, pur di criticarlo nella sua vicinanza a Malagò, nei mesi scorsi Dibba non disdegnava neppure di chiedere consiglio a Giorgetti, proprio lui, tampinandolo di sms: “Allora, Giancarlo, come posso attaccarli, oggi?”. E infatti anche i veleni di questi giorni in parecchi li riconducono a Simone Valente, deputato di area dibbattistiana ed ex sottosegretario nel governo gialloverde, in cui gestiva la delega allo Sport per il M5s.

 

Ma certo c’è dell’altro, in questa strana baruffa. C’è che davvero, la riforma che ha ereditato da Giorgetti, Spadafora l’ha smontata. Forse troppo, a giudizio di Valente, che a quella riforma aveva contribuito non poco. Sono stati ridimensionati poteri e autonomia di Sport e Salute, la nuova creatura giorgettiana pensata per decentrate le competenze sullo sport dilettantistico: e Spadafora prima ha scelto Vito Cozzoli, notabile boiardo di stato, già capo di gabinetto al Mise di Luigi Di Maio, come nuovo capo di questo ente, e poi ha tolto a Sport e Salute la possibilità di definire i parametri con cui distribuire alle varie federazioni gli oltre 400 milioni annui di budget, portando queste competenze in una nuova struttura, il dipartimento per lo Sport di Palazzo Chigi. Perché lo ha fatto? Per ingraziarsi Malagò, come sospettano i pretoriani di Dibba? Per assecondare una volontà dell’ex ministro dello sport del Pd Luca Lotti, o magari per tenersi buono Matteo Renzi e la sua responsabile sul tema, Daniela Sbrollini? Per non rovinarsi le relazioni nel sottobosco romano in vista di un futuro ricollocamento politico? Forse un po’ tutte queste cose, forse nessuna. Di certo, questa confusione non dispiace a Di Maio, che di Spadafora resta il più prestigioso sponsor. Per il ministro degli Esteri, quel “Giggino ’a marachella” ansioso di ridefinire gli equilibri nel governo e nel M5s, tutto ciò che fa tremare la terra sotto i piedi di Conte, di questi tempi, è cosa buona.

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