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Il processo è ai pieni poteri

Claudio Cerasa

Giustizialismo chi? La scelta di processare Salvini su Open Arms segna un punto di rottura tra chi vuole governare l’immigrazione chiedendo per sé i pieni poteri e chi lo fa chiedendo i pieni poteri dell’Europa. Le svolte possibili oltre la retorica

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La decisione del Senato di votare a favore dell’autorizzazione a procedere nei confronti dell’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini per il caso Open Arms proietta la diciottesima legislatura in una stagione all’interno della quale il tema della discontinuità dalle trucissime politiche adottate sul terreno dell’immigrazione dal governo gialloverde diventa qualcosa di più di una semplice manifestazione di intenti. In molti proveranno a curvare i propri ragionamenti relativi al voto accusando la maggioranza di aver compiuto una scelta dettata dal giustizialismo – chiamare a rispondere della legge un ministro che decide deliberatamente di ignorare la legge per questioni legate più alla propaganda personale che all’interesse nazionale, dimenticando che l’obbligo di salvare la vita umana di chi si trovi in situazione di pericolo in mare prevale su ogni altra norma nazionale, non è disprezzo per il garantismo ma è semplicemente rispetto dello stato di diritto. Ma ciò che costituisce la vera ciccia del voto di giovedì ha a che fare con un tema più interessante che riguarda un aggiornamento della battaglia combattuta già lo scorso anno dal Parlamento contro la politica dei pieni poteri. Il Senato ha detto no a un’idea pericolosa per una democrazia matura, ovverosia l’idea che i voti ricevuti da un politico possano permettere a quel politico di essere considerato al di sopra della legge, e nel farlo i senatori della maggioranza hanno di fatto investito l’esecutivo di un mandato esplicito oggi non più derogabile: superare definitivamente sul terreno dell’immigrazione la stagione del salvinismo.

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La decisione del Senato di votare a favore dell’autorizzazione a procedere nei confronti dell’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini per il caso Open Arms proietta la diciottesima legislatura in una stagione all’interno della quale il tema della discontinuità dalle trucissime politiche adottate sul terreno dell’immigrazione dal governo gialloverde diventa qualcosa di più di una semplice manifestazione di intenti. In molti proveranno a curvare i propri ragionamenti relativi al voto accusando la maggioranza di aver compiuto una scelta dettata dal giustizialismo – chiamare a rispondere della legge un ministro che decide deliberatamente di ignorare la legge per questioni legate più alla propaganda personale che all’interesse nazionale, dimenticando che l’obbligo di salvare la vita umana di chi si trovi in situazione di pericolo in mare prevale su ogni altra norma nazionale, non è disprezzo per il garantismo ma è semplicemente rispetto dello stato di diritto. Ma ciò che costituisce la vera ciccia del voto di giovedì ha a che fare con un tema più interessante che riguarda un aggiornamento della battaglia combattuta già lo scorso anno dal Parlamento contro la politica dei pieni poteri. Il Senato ha detto no a un’idea pericolosa per una democrazia matura, ovverosia l’idea che i voti ricevuti da un politico possano permettere a quel politico di essere considerato al di sopra della legge, e nel farlo i senatori della maggioranza hanno di fatto investito l’esecutivo di un mandato esplicito oggi non più derogabile: superare definitivamente sul terreno dell’immigrazione la stagione del salvinismo.

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Al contrario di quanto hanno sostenuto in questi giorni autorevoli osservatori come Paolo Mieli e Michela Murgia, il problema del governo, oggi, non è quello di essere in continuità con le politiche salviniane ma è quello di non essere riuscito a raggiungere tutti gli obiettivi che su questo terreno la maggioranza si era prefissata. In molti sostengono che il problema principale del governo abbia a che fare con il non superamento dei famosi decreti “Sicurezza” firmati da Matteo Salvini e da Giuseppe Conte e del non recepimento delle “rilevanti perplessità” in base alle quali poco più di un anno fa Sergio Mattarella chiese al Parlamento di migliorare quel testo di legge. Ciò che però ci si dimentica di dire su questo punto è che (a) l’attuale ministro dell’Interno ha promesso che la legge che cambierà i decreti “Sicurezza” verrà approvata a settembre; che (b) il governo ha già annunciato che rifinanzierà i famosi Sprar, ovvero le strutture preposte all’integrazione dei migranti gestite dalle prefetture insieme con i comuni che Salvini, nella logica del fermare l’immigrazione e non governarla, aveva provato a smontare; che (c) alcune delle norme previste dai decreti Salvini, come il divieto di ingresso nelle acque territoriali e le sanzioni applicate alle ong, non sono state usate da questo governo; e che (d) buona parte dei decreti Salvini è stata già smontata sia dalla Corte costituzionale (che a luglio ha dichiarato incostituzionale la preclusione del diritto di iscrizione all’anagrafe dei comuni per gli stranieri che chiedono asilo in Italia) sia da una serie di sentenze giudiziarie (il 2 luglio di un anno fa, il gip di Agrigento Alessandra Vella quando decise di non convalidare l’arresto di Carola Rackete, comandante della “Sea Watch 3” che per portare in salvo i 42 migranti a bordo aveva violato il blocco imposto dalle motovedette della Guardia di Finanza come previsto dal decreto “Sicurezza bis”, ha scritto a chiare lettere che recuperare i naufraghi e portarli in un porto sicuro sono entrambi doveri imposti dall’ordinamento sovranazionale e internazionale).

 

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La questione della discontinuità, dunque, non ha a che fare con il superamento dei famosi decreti “Sicurezza”, bensì con la capacità del governo di riportare in Europa il tema della gestione dei migranti con la stessa forza con cui negli ultimi mesi ha messo sul tavolo il tema della gestione dei debiti.

 

Salvini sosteneva che l’Italia avesse il dovere di gestire il dossier dell’immigrazione difendendo da sola i propri confini (strategia perfettamente riassunta dall’ex ministro in un giorno di lucidità al Viminale, quando ammise che con il suo metodo per rimpatriare i famosi 500 mila irregolari presenti in Italia ci sarebbero voluti 50 anni). I suoi successori sostengono invece, e giustamente, che per governare l’immigrazione (corridoi umanitari, rimpatri, ricollocamenti) l’Italia abbia bisogno della solidarietà dell’Europa (l’accordo di Malta sottoscritto a settembre da Italia, Francia, Germania Finlandia e Malta per la redistribuzione dei migranti in Europa ha portato, secondo i dati del Viminale, a un numero di ricollocamenti dall’Italia a quota 608, nei nove mesi precedenti a quell’accordo i ricollocamenti erano stati pari a quota 99). E non ci vuole molto per capire che per portare avanti una politica più incisiva sul tema dei rimpatri (che riguardano i migranti economici come i molti tunisini sbarcati in questi giorni in Italia e che potrebbero essere già rimpatriati dal governo) occorre aumentare il numero di accordi con i paesi di provenienza (e un conto è se questi accordi prova a firmarli chi rappresenta un paese, un altro è se prova a firmarli chi rappresenta l’Europa).

 

Su questo fronte il governo avrà ancora molto da lavorare ma se si vuole dare un senso alla giornata di ieri si può dire che la ciccia in fondo è tutta qui: tra chi sogna di governare l’immigrazione chiedendo per sé i pieni poteri e chi sogna di governarla chiedendo i pieni poteri dell’Europa.

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