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Fidarsi dell’Italia e degli italiani si può. La grande lezione della pandemia

Claudio Cerasa

Perché non riconoscere che il nostro paese, di fronte alla gestione del virus, è stato più un modello che uno zimbello? L’Italia avrà un futuro solo quando imparerà a non vergognarsi di se stessa

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E se fosse arrivata l’ora di riscrivere un pezzo della storia italiana? Non sappiamo l’estate cosa ci riserverà, non sappiamo la pandemia che traiettoria avrà, non sappiamo cosa succederà quando a settembre i nostri figli torneranno a scuola, non sappiamo quale sarà l’impatto reale del coronavirus sulla nostra vita, ma a quasi cinque mesi da quel 9 marzo in cui è cambiata la nostra vita, e in cui l’Italia ha scoperto come si traduce nella nostra lingua la parola lockdown, c’è forse un pezzo di storia del nostro paese che si può provare a riscrivere rileggendo i drammi di quei giorni con qualche informazione in più raccolta nel corso delle settimane e in particolare negli ultimi giorni. Si è detto e ridetto, più in Italia che fuori dall’Italia, che il nostro paese si è fatto trovare impreparato, che le misure di lockdown sono state esagerate, che l’Italia ha fatto ancora una volta la figura del grande malato d’Europa. Eppure, cinque mesi dopo, quelle presunte verità, giorno dopo giorno, sembrano somigliare sempre di più a verità alternative e come spesso capita al nostro paese una buona parte della classe dirigente italiana sembra essere incapace di riconoscere che il nostro paese, di fronte alla gestione del virus, più che la parte dello paese zimbello ha svolto la parte di un paese modello.

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E se fosse arrivata l’ora di riscrivere un pezzo della storia italiana? Non sappiamo l’estate cosa ci riserverà, non sappiamo la pandemia che traiettoria avrà, non sappiamo cosa succederà quando a settembre i nostri figli torneranno a scuola, non sappiamo quale sarà l’impatto reale del coronavirus sulla nostra vita, ma a quasi cinque mesi da quel 9 marzo in cui è cambiata la nostra vita, e in cui l’Italia ha scoperto come si traduce nella nostra lingua la parola lockdown, c’è forse un pezzo di storia del nostro paese che si può provare a riscrivere rileggendo i drammi di quei giorni con qualche informazione in più raccolta nel corso delle settimane e in particolare negli ultimi giorni. Si è detto e ridetto, più in Italia che fuori dall’Italia, che il nostro paese si è fatto trovare impreparato, che le misure di lockdown sono state esagerate, che l’Italia ha fatto ancora una volta la figura del grande malato d’Europa. Eppure, cinque mesi dopo, quelle presunte verità, giorno dopo giorno, sembrano somigliare sempre di più a verità alternative e come spesso capita al nostro paese una buona parte della classe dirigente italiana sembra essere incapace di riconoscere che il nostro paese, di fronte alla gestione del virus, più che la parte dello paese zimbello ha svolto la parte di un paese modello.

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Lo è stato, un modello, per via della disciplina dei cittadini – e anche oggi nonostante le famigerate immagini della movida gli italiani avendo visto la paura prima di altri paesi continuano a comportarsi in modo egregio. Ma l’Italia è stata un modello anche per il modo in cui ha scelto di affrontare la pandemia e i fatti almeno finora stanno dando ragione a chi ha scelto di non dare retta ai campioni del nuovo farlocco pensiero libertario che erano stati tentati dal considerare i modelli del laissez faire mondiale (Svezia, Gran Bretagna, Brasile, Stati Uniti) come i modelli giusti su cui puntare. Non è andata così, non sta andando così e per provare a ricostruire un pezzo della storia recente dell’Italia vale la pena mettere in fila tre fatti e tre dati interessanti.

 

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Il primo dato ha a che fare con uno studio dell’Università Vita-Salute San Raffaele che ha confrontato i dati di nove grandi ambiti metropolitani dell’occidente. E attraverso questa ricerca è stato possibile capire che per comprendere le molte morti registrate in Lombardia in questi mesi bisogna allontanarsi dalle indagini delle procure e avvicinarsi allo studio dei numeri. E i numeri dicono questo: il motivo per cui i tassi di mortalità per coronavirus in Lombardia sono stati i più elevati di Europa ha a che fare con la questione che in Lombardia la percentuale di anziani è doppia rispetto ai territori europei più colpiti dalla pandemia. E se si prende in considerazione l’anzianità della popolazione, che è un elemento che contribuisce ad alzare la letalità del coronavirus, la Lombardia presenta una percentuale di over 70 piuttosto alta: sono il 17 per cento del totale, contro il 6,9 per cento in Catalogna, il 7,9 per cento della Greater Londra e il 9,5 per cento della regione di Bruxelles-Capital.

 

Il secondo dato ha a che fare con una lettera che ha trovato poco spazio sui giornali ed è quella che hanno firmato 25 scienziati svedesi convinti che il loro paese “possa essere utilizzato come un modello, ma non nel modo in cui inizialmente si pensava”. In che senso? In Svezia, scrivono, “la strategia ha portato alla morte, al dolore e alla sofferenza e per di più non ci sono indicazioni che l’economia svedese abbia avuto risultati migliori rispetto a molti altri paesi. Alla fine anche questo passerà e la vita tornerà alla normalità. Nuovi trattamenti medici arriveranno e miglioreranno la prognosi. Speriamo che ci sia un vaccino. Tenete duro fino ad allora. E non fatelo nel modo svedese”. Il caso svedese – che fa tornare d’attualità qualche domanda sul senso che ha l’Oms, che ad aprile disse, per bocca del capo del programma di emergenze sanitarie, Mike Ryan, che “il modello svedese è un strategia forte di controllo e una forte fiducia e collaborazione da parte della comunità” arrivando a sostenere che “se dobbiamo arrivare a un nuovo modello di vita di ritorno alla società senza nuovi lockdown, penso che la Svezia possa essere un esempio da seguire” – ci proietta in una dimensione ulteriore che riguarda ancora l’Italia.

 

E qui, terza storia da segnalare, può essere interessante riprendere un articolo che ha girato molto in questi giorni firmato dal premio Nobel Paul Krugman. Krugman, come sappiamo, è un liberal visceralmente anti trumpiano e spesso cade nella tentazione di forzare la realtà per criticare il presidente americano. Eppure, in questo caso, pur facendolo sempre per attaccare Trump, ha scelto una storia interessante da raccontare per dimostrare il fallimento delle politiche trumpiane sulla sanità e quella storia ha a che fare con il modello italiano. E la domanda, un po’ birichina, che si pone Krugman è questa: “How can America be doing so much worse than Italy?”. L’Italia, dice Krugmam, è entrata in questa pandemia con gravi svantaggi rispetto agli Stati Uniti. E’ entrata in questa pandemia con una burocrazia certamente non nota per la sua efficienza. E’ entrata in questa pandemia con una cittadinanza non nota per la sua disciplina. E’ entrata in questa pandemia con uno stato già molto indebitato e dunque non in grado di creare come negli Stati Uniti tutto il debito che avrebbe voluto creare per rispondere all’emergenza. E’ entrata in questa pandemia, dice ancora Krugman, con un numero di anziani superiore a gran parte dei paesi dell’occidente. E, soprattutto, è stato il primo paese occidentale ad affrontare la pandemia senza avere a portata di mano un modello da seguire già sperimentato. Ma nonostante tutto questo, dice ancora Krugman, la rete di sicurezza ha funzionato, la pandemia è stata contenuta, la scelta di non mettere la tutela della salute su un piedistallo più basso rispetto alla tutela dell’economia ha prodotto benefici alla salute degli italiani e potrebbe produrre anche benefici alla stessa economia perché è evidente che non ci sarebbe nulla di peggio per un’economia in difficoltà come la nostra che ritrovarsi di fronte a un altro lockdown. “L’Italia ha schiacciato la curva: ha mantenuto il blocco in atto fino a quando i casi erano relativamente pochi ed era cauta riguardo alla riapertura. L’America avrebbe potuto seguire la stessa strada. Ma non lo ha fatto”. In questi giorni, dice Krugman, gli americani possono solo invidiare il successo dell’Italia nel resistere al coronavirus, “il suo rapido ritorno a una sorta di normalità che è un sogno lontano in una nazione che si congratulava con se stessa per la sua cultura del fare”. E lo stesso sentimento, toccando ferro, lo avranno probabilmente anche paesi come la Svezia, di cui abbiamo detto, e paesi come la Gran Bretagna, il cui primo ministro, Boris Johnson, venerdì scorso ha riconosciuto per la prima volta che “la decisione di imporre il lockdown nazionale nella seconda metà di marzo potrebbe essere scattata troppo tardi”.

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Non è andato tutto bene, e questo lo sappiamo, ma a guardarli con qualche informazione e un po’ di consapevolezza in più viene da dire che i mesi da incubo vissuti dall’Italia sono stati mesi in cui il nostro paese ha dato il meglio di sé. Lo hanno fatto i cittadini fidandosi del governo. Lo ha fatto il governo fidandosi dei suoi tecnici. E forse mai come oggi il punto sul quale varrebbe la pena riflettere è uno e soltanto uno: l’Italia potrà pensare di avere un futuro solo quando imparerà a non vergognarsi dei momenti in cui può essere orgogliosa di se stessa.

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